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Riflessioni sul sistema cultura italiano

1 settembre 2010
Pubblicato in Opinioni
di Michelangela Di Giacomo

L’Italia, come recita lo spot del ministero del turismo, è la terra della cultura e dell’arte. Un patrimonio sterminato di opere letterarie, filosofiche, storiche e artistiche è la prima e principale risorsa di un territorio di per sé carente di materie prime e di capacità imprenditoriali. Eppure è anche il paese in cui occuparsi di cultura risulta più difficile, triviale passatempo ostacolato dal sentire comune mass-mediatico e dall’agire politico-amministrativo.

Non voglio cadere qui in banalità e chiacchiere da bar, ma mi limito solo aggiungere a questo triste panorama la mia esperienza e l’indignazione emersa dallo scambio di opinioni e racconti con miei coetanei o consimili che navigano nelle stesse infide acque.

Iniziamo da un sistema scolastico che, a dispetto del continuo parlare di riforme, è potenzialmente uno dei migliori del mondo in quanto a capacità di formazione. Mancano le risorse per migliorarne le strutture e per motivare i docenti, ai quali dovrebbe essere riconosciuto, in termini economici e di prestigio sociale, il loro delicatissimo compito di fondare la nostra futura società. Figlia di due ex-professori per passione diventati presidi, dai racconti che sento in casa da sempre credo di poter dire che manca soprattutto il rispetto e qualcosa che, suona male, lo so, possa chiamarsi disciplina. Si è progressivamente scivolati verso l’idea che la scuola debba essere divertente, che occorra rincorrere sul piano educativo altri mezzi di comunicazione, che sia tutto da “svecchiare”. Si è scivolati verso l’idea – nei suoi termini generali assolutamente sacrosanta – che si debba anzitutto recuperare chi rimane indietro, il che ha portato negli anni a dimenticare e spesso a frustrare chi per propria indole manifestasse interesse per l’approfondimento. Soprattutto, si è scivolati verso un lassismo, un garantismo e un giustificazionismo che permette ai genitori di arrogarsi il diritto di sindacare sui metodi educativi e sui contenuti inculcati a quegli eterni bambini che costituiscono la loro prole. Prole cui insegnano che se il professore ti mette un quattro, è perchè lui non comprende le esigenze della tua crescita, non perché tu avresti potuto studiare di più. Genitori che corrono a spada tratta per far cambiare i rampolli di sezione, di indirizzo, di scuola o per far spostare il professore “incapace”, “crudele”, “inumano”. Non voglio difendere tutta una categoria che spesso a sua volta, per frustrazione o disincanto, non riesce a trasfondere passione nel proprio lavoro. Si comprende però anche come risulti faticoso insegnare, se si vede il proprio ruolo di docente continuamente discusso.

Il viaggio continua nell’università “a punti”. Tre anni a rincorrere cfu e moduli, a cucire piani di studio con la dovizia di un ragioniere e senza il benché minimo anelito umanistico. Tre anni soprattutto, per chi volesse laurearsi senza un semestre fuori corso, a spron battuto dando anche sette, otto, nove esami per sessione. Sacrificando qualsivoglia velleità di approfondimento e sentendosi per lo più repressi per aver scelto magari una facoltà seguendo la proprie passioni, a scapito di una professionalizzante. Per poi fare l’amara scoperta che uscendo di lì non solo non si avrà un mestiere, ma neanche una cultura. Tre anni, tra l’altro, in cui si è incontrata per lo più disorganizzazione generalizzata: nessuna informazione, nessun supporto, tutor latitanti o ignoranti, professori stressati in studi sovraffollati e scrivanie in multiproprietà. Per non parlare di biblioteche strapiene, con centinaia di volumi scomparsi e testi d’esame irreperibili. Un’agonia.

Che si sperava potesse essere finita nei due anni di specialistica. Mai speranza peggio riposta. La specialistica si rivela ben presto più generica della triennale, o per lo meno una mera riproposizione dello stesso trito per altri due anni – addirittura a volte con gli stessi manuali da studiare, alla faccia della specializzazione! Si arriva al traguardo della stesura della tesi con l’impressione di essere diventati un automa, un mostro abilissimo a fotocopiare testi, impararli a memoria, ripeterli e dimenticarli nel minor tempo possibile. E assolutamente incapace di analisi critica o di qualsivoglia multidisciplinarietà. Mi sentivo sinceramente molto più colta uscendo dal liceo che dopo cinque anni a 29-30-110 e lodi varie.

Ma il peggio, come si sa, non muore mai. Decido caparbiamente che finché il vento soffia, tanto vale assecondarlo. Inizio un dottorato. Almeno qui, mi dico, imparerò qualcosa di metodologico e non solo nozionistico. Mi ha detto bene, vinco un posto con borsa al primo tentativo. Ma la maggior parte delle persone che conosco hanno provato un numero x di concorsi per rimediare un posto magari gratis o addirittura pagando delle tasse universitarie e magari dall’altro capo della penisola. I posti sono pochi e i finanziamenti ancor meno, chi vuol continuare deve essere disposto a sacrificare la stabilità per passione accademica. Le risorse, soprattutto, sono minime. La borsa del ministero, senza ambizioni di risparmio, consente un’esistenza dignitosa, ma come quasi tutto ciò che concerne la remunerazione del lavoro intellettuale, è ben al di sotto delle medie europee. Potenzialmente fantastica, la vita del dottorando dipende molto dalla buona volontà dei professori che organizzano i corsi, sfruttando in primo luogo i contatti personali per fornire un alto livello di lezioni seminariali, il tutto sempre a costi forfettari. Laddove mancasse tale buona volontà, il dottorato si riduce ad un insieme scomposto e casuale di lezioni, disorganiche anche rispetto ai progetti di ricerca sviluppati dai dottorandi. Progetti di ricerca che per lo più incontrano ostacoli di ogni tipo: tutor assegnati a metà percorso, relazioni di avanzamento accatastate e mai prese in considerazione, tutti che mettono bocca e nessuno che aiuta. Ci si sente dire spesso: “lei sembra saper lavorare anche da sola, continui pure così”. Per non parlare della diffusa frustrazione di qualsiasi progetto de-provincializzante e tendente a un panorama non diciamo mondiale ma almeno europeo. Per lo più per evitare complicazioni burocratiche, oltre che il pagamento di una maggiorazione delle borse per i soggiorni all’estero, i pareri dei docenti sconsigliano o impediscono progetti internazionali, dottorati europei, scambi, eccetera. Salvo poi mandarti a spese tue a fare una ricerca in un’altra città italiana, come se gli affitti si pagassero solo all’estero… “Non ci sono risorse” è la risposta valida per giustificare qualsiasi inefficienza. Come sempre, non è così dappertutto e non tutto va male, però più si va avanti, più le cose peggiorano.

Crescendo ci si inserisce in un sistema di produzione della cultura interamente basato su rapporti di gratuità e di pressappochismo. Nel mio settore, ci si aggira – ovunque, da Campione a Marzamemi – per biblioteche fatiscenti, archivi chiusi, servizi di prestito soppressi, riproduzioni a prezzi esosissimi, cataloghi on-line non integrati, digitalizzazioni di documenti allo stadio embrionale. Spesso niente prese elettriche per i computer, mai connessioni internet. Le fondazioni progressivamente stritolate dai tagli di spesa (vedi le recenti ultime polemiche quando la premiata ditta Bondi-Tremonti ha rischiato di far chiudere in un colpo solo tutti gli istituti di cultura che conservano archivi storici), costrette a stare in strutture inadeguate, poco più grandi di appartamenti privati, obbligate a tagliare il personale e dunque il numero e la frequenza delle distribuzioni del materiale oltre agli orari stessi di apertura al pubblico. Fondazioni che conservano interi archivi dei partiti dell’Italia repubblicana aperti sì e no quattro ore al giorno, con due distribuzioni. Per non parlare degli enti nazionali. L’archivio centrale dello stato di Roma o le biblioteche nazionali sono ridotti al lumicino. A Firenze per la prima volta in se-co-li la biblioteca nazionale sarà chiusa nel pomeriggio. E un numero esorbitante di volumi non sono consultabili né rintracciabili nei cataloghi informatizzati per mancanza di personale addetto. Un delirio. Si corre su e giù per la penisola cercando di ammortizzare con la propria abnegazione il tempo che il sistema archivistico-bibliotecario fa perdere nella raccolta del materiale necessario per pubblicare articoli e libri.

Articoli e libri che si scopre ben presto essere pubblicati tutti sempre senza un compenso per l’autore, se non un qualche riconoscimento di merito con calorosi complimenti, e addirittura in molte occasioni a spese dello stesso autore. Al ché ci si chiede perché se l’idraulico lavora lo si paga, ma se l’intellettuale lavora no. D’altronde le riviste non hanno soldi e le case editrici sono tutte sull’orlo del baratro. I libri non si vendono, i periodici ancor meno. Nessun finanziamento pubblico sufficiente, e i privati si guardan bene dal sovvenzionare la cultura. Così, sebbene la casa editrice un rientro dalla vendita di un libro ce l’ha, l’autore (fatti salvi alcuni casi rari ed emblematici) si presume vivere d’aria e cultura.

Non è vero che la scolarizzazione e l’università di massa hanno creato un sistema culturale non elitario, perché di fatto solo chi ha le spalle coperte può permettersi di lavorare in questo mercato. Con la speranza di riuscire a ritagliarsi degli spazi nella selva delle raccomandazioni (e non è qualunquismo, purtroppo) e riuscire così a realizzare quel cursus honorum universitario che, sempre sottopagato fino alla pensione, prevede ancora: un post-doc a 800 euro, qualche corso assegnato per 400 euro l’anno, magari qualche borsa di ricerca, un paio di contratti a termine da ricercatore con cui arrivare intorno ai 40 anni ancora precari e lì, o essere definitivamente espulsi dal sistema, o rimediare un posto da associato e infine, a un paio d’anni dalla pensione, da ordinario.

Il tutto sempre con l’impressione di essere considerati dalla “gente” dei derelitti, dei mentecatti, degli sfigati e assolutamente senza alcun riconoscimento e valorizzazione di un lavoro culturale che è l’unico appiglio per salvare il nostro paese e ridargli prospettive.

E poi ci si lamenta se i cervelli fuggono o restano a casa con mamma e papà…



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