Spunti d’infinito a casa Fortuny
Di Diletta Sereni • 31 lug 2009 • Categoria:Arte, Eventi • Nessun commentoInaugurata il 6 giungo e inserita nell’agenda della Biennale di Venezia, l’esposizione a Palazzo Fortuny, dal titolo In-finitum, chiude la trilogia di mostre ideata da Axel Vervoordt, iniziata con Artempo: Where time becomes art (Venezia, 2007) e proseguita da Academia: qui es-tu? (Parigi, 2008). La mostra sfrutta la grandiosa ambiguità del termine “infinito” per poter vagare tra generi, epoche e artisti e in più di trecento opere spazia dall’archeologia egizia all’installazione contemporanea.
L’ In-finitum che percorre tutte le opere è inteso ora nel senso di inarrivabile, ideale, illimitato, di a priori teorico che per negazione definisce tutto il resto come circoscritto, contingente, dimensionato; ora nel senso di non-finito, incompleto, sospeso, che si libera nello spazio vuoto, nel non scritto. Indefinito e incompiuto. Un concetto tanto grande può essere appena evocato da temi quali lo spazio cosmico, il monocromo, il vuoto. Al museo Fortuny lo troviamo tanto nel bianco della tela che scopre il lavoro mancato della pittura, quanto nel movimento sottile di una scultura di Calder; nel nero di Reinhardt e nel taglio di Fontana che squarcia, insieme alla tela, lo spazio e il tempo rappresentato. Si racconta nelle opere concettuali di Manzoni e nei dilemmi visivi di Escher.
Il palazzo, appartenuto prima alla famiglia Pesaro e poi ai Fortuny, è stato donato al comune nel 1956. Le opere sono distribuite su quattro piani e lungo il percorso si attraversano ambienti molto diversi, raggiunti gradualmente dalla luce esterna man mano che si sale verso l’alto.
Al piano terra, scuro e stretto, ci si incanta davanti a La notte di Lia di Anselm Kiefer, si passeggia tra le sculture di Fontana e si prosegue fino alla coreografica installazione di Gilberto Zorio, Stella Tesla. Decisamente suggestivo il primo piano, il piano “nobile”, dove le opere si accomodano nelle sale che ospitarono la vita e l’atelier di Mariano Fortuny e compongono insieme agli arredi una sorta di Wunderkammer, illuminata dalla debole luce che filtra dalle finestre e dalle celebri lampade firmate Fortuny. Sedie, divani, tavoli e cavalletti ingombrano il passaggio, le opere vi si adagiano, scendono dai soffitti, si aggrappano alle pareti e si nascondono nelle teche, occorre la massima attenzione per vederle tutte.
Al secondo piano, spariti gli arredi originali del palazzo, le opere si distendono, prendono respiro in ambienti dominati dal bianco da cui si può sbirciare, intatta e maestosa, la biblioteca dei Fortuny. Il terzo piano concede una rara distrazione nella vista panoramica che si affaccia sui tetti della città. La sala è occupata al centro da un padiglione che somiglia a una palafitta ed è percorso all’interno da un labirinto. Le opere vi si annidano silenziose, scoperte da piccole luci puntuali che rivelano sorprendenti assonanze nella ricerca sul primitivismo tra il Novecento occidentale e il Quattrocento giapponese.
La sede espositiva è dunque densa di fascino, l’allestimento è accurato e visivamente potente, anche per le meticolose variazioni di luminosità degli ambienti. Il percorso è piuttosto lungo e disseminato di “nomi”, che anche da soli fanno l’attrattiva della mostra. Resta forse qualche perplessità sulla scelta di un tema così vasto che rischia in ogni caso di essere approcciato in modo riduttivo e costruire forse un fil rouge troppo debole per affiancare in maniera convincente opere tanto disparate. Operazione di per sé legittima, ben vengano gli anacronismi nelle esposizioni, che permettono di ricostruire collegamenti inesplorati tra opere e artisti “distanti”, ma scegliere temi tanto vasti (infinito, come anche amore, genio, follia) va forse a scapito del valore di questa ricerca di connessioni e a favore piuttosto, vista la suggestione indiscutibile di tali argomenti, di un efficace richiamo di pubblico.
IN-FINITUM
Museo Fortuny, San Marco 3780
6 Giugno – 15 novembre
apertura 10-18 (biglietteria 10-17)
biglietto: intero 9, ridotto 6
Tel. 041.5200995guida alla mostra in pdf
Diletta Sereni Nata a Firenze e cresciuta nell'inquietudine, ho trovato asilo provvisorio tra Siena e Parigi e asilo definitivo in una grande valigia, non grande abbastanza però per contenere la mia Olivetti, che mi ha aspettato per anni in una soffitta e si è appena messa comoda sulla mia scrivania, per cui merita un po' di pace. Spirito novecentesco sonoramente inadatto agli anni duemila, cerco di resistere come posso. Ho studiato comunicazione e semiotica e mi sono imbarcata in un dottorato in Studi sulla Rappresentazione Visiva all'Istituto Italiano di Scienze Umane. Cerco da anni di spiegare alle mie migliori amiche cosa sia la semiotica, loro credono tutt'ora che sia un prodotto della mia immaginazione, ma mi vogliono bene lo stesso. Da grande costruirò sculture di carta, imparerò a distinguere le foglie di tutti gli alberi del mondo e vivrò in una casa con un buco sul tetto, perché ha ragione Calvino, “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”.
| Tutti gli articoli di Diletta Sereni