Jus sanguinis e jus curriculi: la confusa rendita del giornalismo nostrano d’oggi

marzo 15th, 2010 by Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa | 2 Comments

Jus sanguinis e jus curriculi: la confusa rendita del giornalismo nostrano d’oggi

All’inizio avevo pensato ad un titolo del tipo: “Il giornalismo nostrano d’oggi: mediocre onanismo autoreferenziale di gente di mezza età che si sente aristocrazia”. Poi ho pensato che, forse, un titolo così all’inglese – ovvero nello stile di quel paese che a molti della categoria piace tanto per la sua incredibile libertà d’espressione – avrebbe potuto offendere, anzitutto, proprio loro.
Lorsignori i giornalisti, s’intende.
Eppure, cosa altro si può pensare quando uno dei principali quotidiani del Paese ti rifila 7 paragrafetti infarciti di qualcosa come 15 espressioni comuni (o modeste varianti), 8 citazioni di veri o presunti ‘grandi pensatori’, di cui 7 vivi (!), di cui 6 giornalisti (?!), di cui 5 cinquantenni (…) ed un ultraottantenne?
Cosa pensereste, poi, se proprio quei 7 paragrafetti componessero un accorato appello al vostro senso civico, richiamandovi a reagire all’atarassia ignorante e zotica che appanna il Paese e propinandovi intanto quell’orrido ribollito per il quale siamo tutti vittime di un declino generalizzato che nemmeno l’autore di tale componimento (il quale, candido, si pone fra gli ‘intellettuali’ del Paese) ha idea di come invertire?
Vi dico quello che ho pensato io.
Ho pensato che, dopotutto, l’ultima fatica di Ilvo Diamanti su Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2010/02/14/news/diamanti_14_febbraio-2291160) è di una tale bruttezza che trovo tutt’ora difficile non cadere nella tentazione (comunque illecita) di pensare che, se questo è il frutto di ciò che oggi si considera egregia coniugazione di libertà e bontà d’espressione, un periodo di vera austerity intellettuale forse varrebbe la pena provarlo. Tanto più per uno che chiama le sue rubriche ‘Mappe’ e ‘Bussole’. Se non altro, si potrebbe salvare qualche albero.
O un po’ di corrente.
O un po’ di tempo.
Intendiamoci: niente di personale tra me ed il signor Diamanti. La mia, in effetti, non vuole essere (solo) una censura di quella che già la mia professoressa di lettere al liceo avrebbe bollato come ‘nozionismo sequenziale’ affastellato a chiacchiere da domestica a ore e intriso di un pessimismo che di cosmico ha solo il nome, senza alcuna rielaborazione personale.
La mia vorrebbe essere una critica, sintetica ma ragionata, ad un sistema che ha perso il senso del proprio ruolo, né sembra avere quello della sua dimensione. Una critica al giornalismo nostrano d’oggi: così impegnato a puntare il dito contro ‘l’anomalia italiana’ del giorno da non rendersi conto di rappresentare un’anomalia in sé.
Diamanti, cinquantottenne, a sostegno dei suoi argomenti chiama in causa, cita o si riferisce a Berselli (59), Stella e Rizzo (57 e 54 anni), Bernard Manin (59), Ezio Mauro (62), Boffo (58). Forse intuendo lo strale che verrà, mette le mani avanti con Sartori (86) e Banfield (deceduto nel ‘99, oggi di anni ne avrebbe 93).
Al di là del discutibile ricorso ad una tale mole di ‘affidamenti’ in un singolo pezzo, sono il solo a percepire qualcosa che non va, in questa messe di nomi e numeri?
Giusto. Tutti cinquantenni.
Ovvero tutti formati in quella Italia anni ’70 sfacciatamente ricca, sfacciatamente facile e ancora più sfacciatamente post-sessantottina che rappresenta, oggi (guarda caso!), l’eldorado di cui molti di questi signori vagheggiano il ritorno (terrorismo a parte). Quell’Italia dove, nella bilancia, il piatto dei doveri iniziava a traballare (per saltar per aria del tutto nella decade successiva), lasciando a terra, ancora oggi tra noi, la percezione girondina per cui il diritto anticipa il dovere (che del primo è solo funzione sgradita ma necessaria).
Poiché ‘a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca’, siamo cinici: quando un diploma era ancora un mezzo miraggio, per questi primi figli borghesi di una Repubblica ancora molto rurale e operaia è stato facile far passare una laurea, un modesto francese e quattro parole di inglese per delle atout insuperabili.
Probabilmente, in alcuni casi lo erano.
Meno chiaro è, però, se tali figli del Belpaese che fu riuscirebbero a cavarsela ab initio e con altrettanta versatilità nell’Italia del nuovo millennio.
Intanto, possiamo star certi che tutti i giorni questa messe di cinquantenni si riunirà, su qualsiasi spazio (giornali, televisione, internet, teatro, tribune, convegni, etc.) e non per fare domande a chi, magari, la riunenda causa la rappresenta per davvero. Piuttosto, per scambiarsi personali opinioni sul punto. Che decidono loro, direttori, conduttori e ospiti delle manifestazioni a cui partecipano.
Eccoli lì, in reggimento: Santoro (59), Mentana (55), Gruber (57), Lerner (54), Ferrara (58), Belpietro (52). Un po’ sostenuti, i più in sovrappeso, brizzolati o alopecici, queste ed altre gaudenti penne hanno imparato ad usare, soprattutto, la televisione. Ad uscirne (in genere, verso le elezioni) ed a rientrarvi (poco dopo) – alla faccia della personalizzazione del servizio. Ogni giorno si invitano, si lodano e si imbrodano, discutono e litigano, si accusano, si diffamano e si querelano, poi fanno pace in diretta e tutto ricomincia da capo. Quando riescono a non interrompersi a vicenda, portano avanti il solito processo al Paese e le conclusioni sono sempre tre: 1) ciò che accade da noi non si è mai visto altrove; 2) ciò che accade da noi è fatto molto meglio altrove e 3) il nostro declino non è riscontrabile altrove.
Viene da chiedersi se lorsignori altrove ci siano mai stati.
In questo reality di giornalisti di mezza età, in cui ci viene ricordato in continuum cosa è la libertà e come fare per difenderla, mi sia concesso di dubitare che titoli ed anagrafica di codesta brizzolata assemblea siano compatibili con l’auto-investitura a ‘guardiani del sistema’ a cui quotidianamente assistiamo.
In effetti, appurata un’educazione mediamente modesta rispetto ai severi standard di oggi, fa un certo effetto notare quanto piaccia a Lorsignori discettare sul tema – mentre le nuove leve del giornalismo si scannano per un posto di stagista a tempo indeterminato.
A ben vedere, il rapporto degli odierni principi del calamo con le nuove generazioni in genere non è tra i migliori. Per quelli di loro che non hanno figli, i giovani sono incapaci o, al più, mammoni. Quelli che i figli ce li hanno, consigliano loro di emigrare.
Così facendo, però, non fanno altro che confermare la pochezza della loro preparazione, l’incompetenza con cui valutano il presente e, in fondo, alimentare il sospetto che il loro successo sia dovuto più a circostanze fortuite …


Italia 2025

ottobre 28th, 2009 by Anonimo Cronista del XXIII Secolo | No Comments

Italia 2025

Il momento di svolta è stato l’autunno del 2012. Nella primavera precedente si erano tenute le prime elezioni dalla modifica costituzionale imposta dal governo Berlusconi che aveva fatto dell’Italia una repubblica presidenziale fortemente federalista. Le elezioni le aveva naturalmente vinte lo stesso Berlusconi, ormai settantaseienne. Il candidato del partito democratico era arrivato soltanto terzo dietro a Di Pietro e questo aveva portato allo scioglimento del partito. Il misero 3% raccolto da Gianfranco Fini aveva dimostrato, casomai ce ne fosse stato bisogno, l’impraticabilità del suo progetto politico. L’Unione Europea sembrava rappresentare l’ultima speranza dell’Italia antiberlusconiana ma in quel fatale 9 ottobre 2012, in un discorso a reti unificate, il Presidente aveva annunciato l’intenzione di ritirare l’Italia dalle istituzioni comunitarie e tornare alla lira. Quello di Berlusconi era stato l’ennesimo colpo da maestro. La Commissione Europea stava diventando il centro di gravità di un’eterogenea coalizione di forze ostili al nuovo regime politico. Ne erano parte la Banca d’Italia, il gruppo editoriale L’espresso-Repubblica, molti intellettuali e professori universitari, alcuni grandi manager, settori della chiesa cattolica e importanti figure pubbliche come Romano Prodi, Mario Monti e Carlo Azeglio Ciampi. Quelli che Berlusconi era solito chiamare “i poteri forti”.
Fu Berlusconi stesso ad indire una consultazione popolare su questa decisione. La battaglia referendaria si annunciava difficile in partenza ma ciò che tolse ogni speranza di vittoria fu la spregiudicata decisione di Antonio Di Pietro di schierarsi a favore del SI sposando la propaganda populista e nazionalista di Berlusconi in difesa del popolo italiano e contro gli interessi dei banchieri e dei governi stranieri.
Il 23 novembre 2012, con il 65% di si, l’Italia usciva dall’Unione Europea.
Gli anni che seguirono furono fenomenali. La previsione di alcuni economisti secondo cui l’uscita dall’euro avrebbe segnato il collasso economico dell’Italia fu clamorosamente smentita. La svalutazione della lira rese i nostri prodotti competitivi sul mercato europeo e, libera dalle regole e dalle restrizioni di Bruxelles, l’Italia intraprese una politica economica e commerciale che garantì al paese anni di straordinaria crescita economica. L’artefice di questa politica, da molti definita degna di una banda di pirati piuttosto che di una grande nazione, fu Giulio Tremonti. Egli applicò, sia pure con sensibili modifiche, la ricetta cinese, un inedito mix di neoliberalismo sfrenato e rigido dirigismo statale.
Il settore creditizio tornò sotto lo stretto controllo del Ministero del Tesoro, che acquisì in tal modo anche ampie partecipazioni in gran parte dell’industria nazionale. Alitalia venne rifondata con capitale interamente pubblico, la Banca del Sud, gestita con logiche strettamente politiche, fornì i capitali necessari alla ripartenza del meridione d’Italia e la nuova IRI diventava ogni anno più potente.
Gran parte delle regolamentazioni che fino ad allora avevano frenato gli animal spirits del capitalismo italiano al fine di difendere l’ambiente, la sicurezza dei consumatori o il benessere dei lavoratori furono abolite. L’imposizione fiscale fu drasticamente ridotta grazie a forti tagli operati nei settori dell’istruzione e della sanità, dove sempre di più ci si affidava all’intervento dei privati. Queste politiche naturalmente favorirono l’arrivo di ingenti capitali stranieri dalla Russia, dalla Libia e da numerose società offshore. Il Pil cominciò a crescere con tassi decisamente superiori a quelli degli altri paesi europei, trainato soprattutto dalla crescita apparentemente inarrestabile delle regioni meridionali. L’improvviso ingresso nell’economia legale di capitali, risorse umane ed aziende fino allora relegate nel mercato nero dell’economia mafiosa sancì finalmente il decollo del nostro Meridione. Il boom edilizio in Sicilia e Calabria fu probabilmente superiore a quello degli anni del sessanta. Non più edilizia popolare ma enormi grattaceli di vetro e cemento, Palermo divenne nota come “La Shanghai del Mediterraneo”.
Nel frattempo l’Italia conduceva una politica estera spericolata, fantasiosa ma sicuramente efficace. Dopo l’uscita dall’Unione Europea il nostro paese si liberò anche degli imperativi morali che ingessavano da decenni la politica internazionale dell’occidente abbracciando una realpolitik di stampo russo o cinese. Ci liberammo delle pregiudiziali su democrazia o diritti umani che limitavano la libertà di manovra dei nostri concorrenti europei e portammo avanti una politica estera, commerciale e soprattutto energetica spregiudicata e a tratti corsara che ci permise di tornare ad essere uno dei grandi paesi rilevanti nello scacchiere internazionale. L’alleanza con la Russia di Putin fu naturalmente cruciale. Venimmo accusati di tutto, di essere centro di riciclaggio del denaro sporco delle mafie e del narcotraffico internazionale, di essere corresponsabili dei genocidi e delle violazioni di diritti umani che avvenivano in paesi nostri partner come il Sudan o la Libia, di venderci al miglior offerente cambiando continuamente bandiera… forse in molte di queste accuse vi era qualcosa di vero ma d’altronde Roma era tornata ad essere quella della Dolce Vita, meta di sceicchi mediorientali, miliardari latino americani, principesse armene e spie venute dal freddo, la Sicilia era finalmente tornata al centro del Mediterraneo, i capitali russi, arabi e cinesi finanziavano il boom economico… fatti tacere i pochi scrupoli morali che ancora ci rimanevano dovevamo ammettere che, per citare il vecchio Macmillan «we never had it so good».
Il popolo italiano era decisamente soddisfatto, l’Italia era finalmente tornata ad essere un paese rilevante, il Pil cresceva, la nazionale di calcio nel 2018 si era laureata campione del mondo per la quarta volta di fila… Soltanto una manciata di intellettuali rancorosi avevano lasciato il paese, si ritrovavano ogni primo giovedì del mese a casa di Umberto Eco su l’Ile de St. Louis a Parigi e stendevano, sempre più stancamente, appelli ora al popolo italiano, ora alla comunità internazionale. Le loro denuncie di regime suonavano sempre più inutili e ripetitive. Il paese teneva regolarmente libere elezioni, Piero Sansonetti, noto critico del Presidente, dirigeva il Telegiornale della prima rete, Di Pietro e Diliberto portavano avanti liberamente la loro opposizione, le libertà fondamentali erano garantite. Certo alcuni dicevano che l’opposizione dei Sansonetti e dei Di Pietro fosse in realtà funzionale al regime berlusconiano, si cibasse di esso e lo tenesse in vita ma non era certo colpa né di Berlusconi né di Di Pietro se la sinistra democratica italiana si era autodistrutta. L’opposizione ormai era più uno snobistico esercizio estetico e forse morale che un serio impegno politico. Ci …


A scuola di religioni

ottobre 20th, 2009 by Rassmea Salah | 2 Comments

A scuola di religioni

Se meno di due secoli fa l’Italia era un Paese di emigrazione verso le Americhe e l’Australia, negli ultimi dieci/quindici anni si è trasformata in un faro per l’immigrazione proveniente dal bacino a sud del Mediterraneo, comportando una drastica trasformazione della società italiana e della sua componente anagrafica.
Basti entrare in una scuola primaria per capire come sarà l’Italia del domani: multietnica, multiculturale e multi religiosa. Figli di africani, cinesi, arabi e latino americani, ciascuno con il proprio bagaglio culturale, le proprie tradizioni, la propria lingua madre e la propria religione. Integrati in un sistema scolastico italiano ed italofoni, ma non assimilati od omologati ad un modello standard di “italianità”.
Se fino a qualche tempo fa nell’immaginario collettivo l’identità culturale italiana era infatti intrinsecamente legata a quella religiosa cattolica, ecco che l’immigrazione (anzi la Seconda Generazione) cambia le carte in tavola. Cittadinanza e religione si scindono, creando nuove combinazioni identitarie che prevedono altre forme di italianità sinora mai viste: nuovi italiani che non frequentano la Chiesa la domenica mattina ma che appartengono invece ad altre confessioni religiose.
Tutto questo ci porta inevitabilmente a confrontarci con la nuova realtà confessionale del nostro Paese che non è più omogeneo e cattolico ma che vanta la presenza di altre minoranze religiosi molto numerose ed attive, i cui fedeli sono spesso sia credenti che praticanti.
Di fronte a tale complessità ci si chiede quale possa essere il ruolo della scuola pubblica nell’accelerare il processo non solo di integrazione dei figli di immigrati ma anche di interazione fra questi ultimi e i loro compagni di classe italiani. Ritengo sia finalmente giunta l’ora di un interscambio alla pari fra nuovi e “vecchi” italiani, di dare ma anche di ricevere dall’Altro qualcosa, un insegnamento, un’esperienza, la conoscenza di una realtà diversa dalla propria. È giunta l’ora di abbattere quelle diffidenze, quelle paure e quei pregiudizi verso l’Altro che sono frutto di una ignoranza colmabile solo attraverso la reciproca conoscenza e il mutuo rispetto.
Per raggiungere questo obiettivo i programmi scolastici si dovrebbero adattare e conformare alla realtà, non certo riservando un’ora alla settimana all’esclusivo insegnamento di una o dell’altra religione, bensì offrendo a tutti gli studenti un corso di storia delle religioni che dia loro gli strumenti culturali per iniziare una reciproca conoscenza, una serena accettazione dell’Altro e delle sue diversità culturali, un concreto dialogo interreligioso che ponga delle basi solide per la stabilità sociale della nostra Italia del futuro.
L’ora di religione, spesso così sottovalutata dagli studenti (che sempre più la considerano “un’ora d’aria”), e dalle istituzioni scolastiche (che non la reputano alla pari delle altre materie, definendola facoltativa e impedendole di far media nelle pagelle) dovrebbe invece diventare obbligatoria per tutti, e dovrebbe, attraverso l’insegnamento di tutte le religioni professate in Italia, offrire un’occasione seria di confronto, di crescita e di dialogo fra quanti un domani si ritroveranno a condividere uno stesso spazio sociale, lavorativo e pubblico.


I politici e il velo (di Maya)

ottobre 19th, 2009 by Laura Zunica | 1 Comment

I politici e il velo (di Maya)

Esistono due tipi di velo nel mondo islamico, hijab e niqab. Hijab è il velo che copre solamente la capigliatura; niqab è il velo che copre il volto completamente (viso e capelli), lasciando solo una piccola fessura per gli occhi.
In Italia vige una legge (n.152 dell’anno 1975) che all’articolo cinque fa menzione del divieto di coprirsi il volto. L’articolo otto della Costituzione dice: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. Quindi se una legge italiana parla del divieto di andare in giro a volto scoperto, quale la 152 del 1975, la scelta delle donne religiose musulmane di praticare la loro religione coprendosi il velo andrebbe a infrangere tale legge.
Purtroppo spesso succede che quando i telegiornali passano notizie con interviste a politici che urlano davanti alle moschee che queste persone con il niqab “stanno infrangendo la legge”, queste stesse notizie vengono assorbite dallo spettatore tali quali sono, senza troppi approfondimenti. E lo spettatore stesso poi, diventando attore in una conversazione tra amici, si ritroverà a spiegare che alla fine purtroppo è vero che queste donne con il niqab stanno infrangendo la legge italiana. Ma andando a leggere l’articolo 5 della legge citata ecco che cosa troviamo:
ART. 5
È VIETATO PRENDERE PARTE A PUBBLICHE MANIFESTAZIONI, SVOLGENTISI IN LUOGO PUBBLICO O APERTO AL PUBBLICO, FACENDO USO DI CASCHI PROTETTIVI O CON IL VOLTO IN TUTTO O IN PARTE COPERTO MEDIANTE L’IMPIEGO DI QUALUNQUE MEZZO ATTO A RENDERE DIFFICOLTOSO IL RICONOSCIMENTO DELLA PERSONA.
IL CONTRAVVENTORE È PUNITO CON L’ARRESTO DA UNO A SEI MESI E CON L’AMMENDA DA LIRE CINQUANTAMILA A LIRE DUECENTOMILA.
Questa legge dice senz’altro che è vietato andare in giro a volto coperto. Ma ci sono due fattori da tenere in considerazione: primo è che la legge si riferisce a una specifica situazione, ovvero quella delle pubbliche manifestazioni; contestualizzando la legge al momento della sua di nascita (quella dell’Italia degli anni 70) è poi facile intuire il significato di questa norma in un periodo storico caratterizzato da manifestazioni, gambizzazioni, terrorismo e brigate rosse. In tale contesto storico-sociale, per ovvi motivi di sicurezza, i volti dei manifestanti dovevano essere riconoscibili. Ma proprio in questa legge, di cui abbiamo l’articolo sotto al naso, nessuno parla del fatto che è vietato camminare per le strade con un velo che copre il volto – a meno che il termine pubbliche manifestazioni dell’articolo si riferisca al quotidiano camminare di chiunque. A rigor di logica le manifestazioni pubbliche sono raggruppamenti di persone in un luogo appunto pubblico per esprimere il proprio pensiero comune riguardo a un determinato argomento.
Quindi ci dovrebbe essere ombra di dubbio sul fatto che non ci sono contrasti tra l’articolo otto della Costituzione sulla libertà di religione e l’articolo cinque della legge 152/1975. Esercitando la propria religione, che comporta in alcuni casi l’indossare il niqab, queste donne non infrangono nessuna legge: il velo viene indossato nei giorni di vita quotidiana e non a fini di dimostrazioni o manifestazioni pubbliche.
D’altro canto, per ragioni di sicurezza, all’entrata di un istituto pubblico, quale può essere un’ambasciata o un museo, se richiesto dalle regole dell’istituto stesso, la donna a volto coperto dovrebbe mostrarlo all’autorità che lo richiede: una richiesta basata sulle stesse motivazioni dei controlli ai raggi X delle borse di qualunque signora o signore entri nella stessa istituzione; in entrambe i casi l’intervento delle autorità può certo essere percepito come violazione della privacy, ma dovrebbero essere evidenti a tutti le ragioni di sicurezza.
Uno dei grandi difetti dell’uomo è ritenere universalmente giusto ciò che ad egli appare tale. Si fa spesso molta fatica a capire che certe idee e certi standard legati in una certa cultura a un determinato valore – ad esempio il velo per gli occidentali è simbolo di repressione delle donne e non libertà -, non hanno lo stesso valore e significato in un’altra – il velo nella religione islamica è una scelta: ogni donna è libera di scegliere se portarlo o no, libera di professare la propria religione. È interessante quindi notare come lo stesso concetto di libertà, e la parola stessa, siano interpretati in modi non solo diversi, ma anteticamente opposti, in due diverse culture.


La lezione di Messina

ottobre 9th, 2009 by Valentina Jaen Malmsheimer | No Comments

La lezione di Messina

Da ogni angolo del litorale messinese se guardi avanti c’è l’Italia, la parte continentale. Trovo dunque sia quantomeno peculiare se non paradossale che una tale tragedia come quella  avvenuta pochi giorni fa abbia colpito proprio quella parte della Sicilia ch’è tanto vicina al continente. Paradossale perché proprio come lo è geograficamente, Messina è vicina al resto d’Italia ma la può soltanto osservare, timidamente, da lontano.
Dopo le ripetute sciagure avvenute in Abruzzo nessuno di certo si aspettatava una situazione d’allarme a così poca distanza di tempo. La natura invece ci ha nuovamente messo a confronto con la nostra inadeguatezza maggiore: l’incapacità in toto (ed ancor piu forte nel Meridione) di sapere garantire la sicurezza ai cittadini. Un’alluvione e più di 23 persone perdono la vita, migliaia di sfollati e una regione sotto shock. Come se non bastasse, oltre al danno c’è la beffa. I soccorsi che hanno difficoltà ad arrivare e un crescente dubbio su chi vi sia da incolpare. Perchè la natura non ha colpe, c’è da sempre; un controllo dell’edilizia e dell’edificato esistente invece non c’è mai stato. La pioggia non è parte della quotidianità eppure nessuno ha mosso un dito in modo da prevenire questa tragica situazione. Perché prevenire un danno ne impedisce l’avvenire e se il danno non c’è, nessuno rende merito. Il dramma sismico abruzzese n’è un esempio lampante. Il Presidente del Consiglio Berlusconi è stato tanto acclamato per avere messo in atto una rapida ed effiace costruzione di nuovi edifici a norma per le famiglie sfollate. Era suo dovere e l’ha fatto. Bravo. Ma aveva ed ha tutt’ora anche il dovere di proteggerci da tali sciagure. Purtroppo però come tristemenete molti prima di lui, non ha mai agito in anticipo. Al contrario del proverbio, in politica curare rende più del prevenire.
E non sono solo i politici a rendere lenta la macchina del progresso e della prevenzione. Il 25 ottobre 2007 infatti un nubifragio aveva già colpito Messina ma ogni giornale si concentrava sul cosidetto “pacchetto sicurezza” che sarebbe stato varato pochi giorni dopo. L’informazione pubblica italiana si esprime spesso all’unisono e da anni è annebbiata da nozioni poco comprensibili o di poca rilevanza. Notizie gonfiate a dismisura, gossip e scandali inutili, distrazioni ad effetto placebo che tengono distratti i lettori meno “attenti”.
Fra il 2007 ed oggi di Messina non s’è quasi più parlato, se non per via del ponte sullo Stretto. In molti sono forse a conoscenza del progetto che dal 1969 viene riproposto dalle varie legislazioni. Sono pochi però quelli che sanno che nel 2009 lo Stato ha acconsentito allo stanziamento di oltre 1,3 miliardi di euro (il costo totale si aggirerebbe intorno ai 6 miliardi). 1,3 miliardi di tasse pagate dai contribuenti per un ponte che nessuno vuole, né i messinesi né i reggiani. Per non parlare del resto del Paese che ovviamente se ne tiene fuori. Del resto poca gente raggiunge la Sicilia via terra e figuriamoci se ci interessiamo dei problemi delle altre regioni. Ne abbiamo già troppe nella nostra.
In Italia il menefreghismo nei confronti delle questioni serie galoppa, abbiamo tempo solo per concentrarci sulle love stories extra coniugali del nostro Premier… E nel frattempo madre natura ci ridicolizza nuovamente.
23 morti non possono e non devono essere invano. Se le numerose proteste contro la costruzione del ponte – ultima fra le queste il “NoPonte” dello scorso 8 Agosto – non sono riuscite a fermare questo assurdo masterplan, spero vivamente che sia giunto il momento di ridimensionare la questione di un progetto voluto unicamente dagli appaltatori e da coloro che taglierebbero il nastro all’inaugurazione (per poi magari andarsene via in elicottero…)
Eppure a leggere i quotidiani del 5 ottobre pare che il ponte si farà eccome. Stando a quanto riportato Matteoli ha confermato l’avvio dell’opera, previsto per gennaio 2010. Nonostante opinioni divergenti sul fatto che possa o meno essere valutato una priorità, il ponte sembra essere una realtà sempre più vicina.
Personalmente disapprovo la cosa completamente, sia dal punto di vista estetico – il ponte danneggerebbe irrimediabilmente lo splendido panorama di due città – sia dal punto di vista pratico. Come lo stesso Capo di Stato Giorgio Napolitano ha giustamente affermato, non c’è bisgono di opere faraoniche. Ed un’opera come il ponte sullo Stretto non farebbe che riempire le tasche di investitori e malavitosi locali, mettendo inoltre a repentaglio la vita dei poveri innocenti che ne farebbero uso (date le enormi lacune presenti anche sul campo della mautenzione delle opere pubbliche). I finanziamenti statali per molti progetti “inutili” devono essere finalmente bloccati. I soldi dello Stato, il risultato dei sacrifici dei contribuenti italiani, devono servire per i controlli sull’agibilità e la messa a norma degli edifici e delle infrastrutture situati non solo in siti geodinamicamente complessi ma su tutti i 301.338 km²  del nostro territorio. La cassa statale deve aprirsi per migliorare il Paese e garantire la sicurezza ad ogni cittadino, per incassare  sanzioni salate applicate ad ogni fuorilegge, ad ogni singolo cm² di edificato abusivo e per fornire una efficente manutenzione delle (infra-)strutture, così come avviene nella maggior parte dei paesi più sviluppati. Non si può più aspettare. Non possiamo più permettere ad una natura incontrollabile di mietere vittime a causa della nostra incapacità di controllo.
Se Messina, con la sua gente gentile ed accogliente, con il mare e la spiaggia, il porto e la montagna da una parte pare lo specchio di un’Italia “popolare” e buona, dall’altra, con le centinaia di costruzioni abusive e pericolanti, le decine di chilometri di strade a dir poco “difficilmente agibili”, è il riflesso di un sistema malsano ed ostruito. Di un’Italia che non sa andare avanti senza trascinare i piedi, lenta e poco convinta. Distratta e sofferente.
Non sono messinese ma a Messina ci sono stata, l’ho conosciuta attraverso gli occhi di chi ci è nato e di chi ci abita ed oggi più che mai il mio pensiero è rivolto a quella città siciliana che si affaccia sul nostro continente. Con la speranza che un giorno, al posto di un ponte sia l’amore e la fratellanza ed …


L’Italia al netto del Lodo

ottobre 8th, 2009 by Francesco Vannutelli | 4 Comments

L'Italia al netto del Lodo

La Corte Costituzionale ha bocciato, a maggioranza, il cosiddetto. Lodo Alfano perchè in contrasto con gli artt. 3 e 138 della Costituzione. La decisione della Consulta spalanca le porte dei tribunali per il premier, chiamato a rispondere per il caso Mills  e per l’accusa di frode fiscale sui diritti tv Mediaset.
Il presidente, come era ovvio aspettarsi, non si è fatto cogliere impreparato dalla decisione della Corte. Mesi fa, in commissione Giustizia, nell’ambito della riforma del codice di procedura civile, è stata depositata una norma che toglie il valore di prova alle sentenze passate in giudicato. Accelerando l’approvazione di questa norma, i legali di Berlusconi potranno far passare come penalmente irrilevante la condanna a quattro anni e mezzo per falsa testimonianza nel caso Fininvest dell’avvocato Mills, sostenendo quindi una linea difensiva  che non tenga conto della sentenza. La nuova legge farebbe sì che il nuovo processo per il premier parta da zero, senza tener conto di quanto stabilito a carico del legale inglese.
Indipendentemente dall’approvazione della norma, i tempi consentono agli avvocati del premier di mettere in atto la stessa strategia difensiva già provata in passato, basata sul rinvio delle udienze adducendo legittimi impedimenti, fino ad arrivare alla prescrizione dei reati in questione.
Queste manovre giudiziarie, però, potrebbero non bastare per superare politicamente la bocciatura del Lodo. A parte l’Italia dei Valori, nessuna forza politica rappresentata in Parlamento ha invocato apertamente le dimissioni. La maggioranza appoggia il presidente, appellandosi alla volontà popolare contro le iniquità della Corte, mentre il Pd si dice contrario alle dimissioni per motivi giudiziari. L’attuale tensione istituzionale aumenta la rottura tra i due poli ed esaspera il conflitto, lasciando la politica italiana sospesa in una bolla.
Prima della pronuncia della Consulta erano state avanzate tre principali ipotesi su cosa sarebbe potuto accadere in caso di incostituzionalità del Lodo e di dimissioni del governo: la formazione di un governo del presidente, la nascita di un nuovo partito di centro e il ritorno alle urne.
L’idea di un governo del presidente che si appoggi di volta in volta a maggioranze diverse potrebbe favorire il raggiungimento di una nuova legge elettorale con un ampio consenso,  ma comporterebbe un aumento della confusione politica, con un conseguente indebolimento dei partiti, come ha evidenziato il costituzionalista e senatore Pd Ceccanti. La generale diffidenza nei confronti di questa soluzione istituzionale è accresciuta, inoltre, dalle difficoltà che un eventuale governo tecnico incontrerebbe con l’attuale maggioranza, legata a doppio filo a Silvio Berlusconi.
Collegato all’ipotesi di un governo del presidente è l’idea di un mutamento dell’equilibrio parlamentare dato dalla nascita di un nuovo partito di centro, ispirato al Kadima israeliano, e retto dal triumvirato Fini-Casini-Rutelli, con l’appoggio della fondazione Italia Futura di Montezemolo. Un “governissimo” transitorio affidato a Fini costituirebbe un banco di prova per il nuovo centro, ma avrebbe difficoltà a trovare i numeri per la riforma elettorale. I partiti centristi, per tradizione, si reggono, infatti, su sistemi proporzionali; un eventuale nucleo di simil-Kadima al governo non troverebbe in Aula l’appoggio necessario, essendo la stragrande maggioranza dell’attuale Parlamento favorevole a un sistema bipolare. L’idea di un nuovo polo di centro tornerà magari ad affacciarsi sulla scena nazionale più in là, quando le primarie stabiliranno la direzione del Partito Democratico. Del resto, il sogno del Grande Centro non ha mai smesso di agitare la politica italiana.
Rimane poi l’ipotesi del voto anticipato, che, soprattutto dopo la bocciatura del Lodo, trova una schiera di sostenitori eterogenea e trasversale. Belpietro, dalle colonne di Libero, invita Berlusconi a dimettersi e a chiamare gli italiani alle urne come extrema ratio difensiva e ostentazione muscolare di forza contro le congiure della sinistra, contando sull’enorme consenso popolare.
Invitano ad andare alla urne anche gli esponenti della sinistra alternativa, che con un appello a firma Ferrero, Diliberto, Salvi e Patta sulla prima pagina di Liberazione, chiedendo le dimissioni di Berlusconi, si dicono disponibili ad un’alleanza transitoria con il Pd per un governo di durata sufficiente a garantire l’approvazione di una nuova legge elettorale proporzionale e di una disciplina in materia di conflitto di interesse.
È facile, però, immaginare che un voto anticipato veda nuovamente Berlusconi vincente, magari non con gli stessi risultati ottenuti nel 2008. La disorganizzazione del Pd, l’assenza di una leadership forte e l’incertezza delle alleanze, anche se solo a tempo determinato, lasciano intravedere panorami poco incoraggianti per la sinistra italiana.
All’alba del giorno dopo, non sembra possibile, nell’immediato, la realizzazione di nessuno degli scenari preventivati. Nonostante lo shock della bocciatura, il governo può continuare ad andare avanti, avendo ancora i numeri e la solidità necessari. L’esasperazione del conflitto con gli altri organi dello Stato non intacca la tenuta di Berlusconi, ma aumenta la distanza tra le parti in lotta, consegnando al futuro un Paese sempre più spaccato a metà.


Lo scopo di uno scandalo

ottobre 7th, 2009 by Marco dall'Olio | 1 Comment

Lo scopo di uno scandalo

Il dibattito sull’attività sessuale del Premier è un dibattito poco fruttuoso, che con molta probabilità bene non fa al già ridicolo livello del discorso pubblico italiano. Il dibattito sul dibattito poi è al meglio irritante, come gran parte dei dibattiti al quadrato che colmano il barile delle discussioni mediatiche. Chi critica l’invasione della vita privata, chi risponde che è utile conoscere la moralità di un uomo pubblico, chi ribatte che sulla sua moralità l’uomo pubblico in questione ci già ha fornito materiale sufficiente, e lo scandalo sessuale non è affatto necessario, anzi, diverte l’attenzione dai veri misfatti. Chi parla di strumentalizzazioni, chi strumentalizza, chi si vergogna in patria e chi si vergogna all’estero. Chi invece, come chi scrive, non si schiera, ma è solo visceralmente attratto dal gossip (che come gossip, diciamocelo, è fantasticamente succoso).
Non voglio offendere la vostra intelligenza continuando a snocciolare i vari argomenti già sentiti, ma vorrei semplicemente proporre una piccola riflessione su uno di questi argomenti. Serve da spunto un recente scandaluccio sessuale americano di medio profilo. L’estate scorsa il senatore repubblicano del Nevada, John Ensign, si è aggiunto alla lunga lista di americani illustri le cui attività tra le lenzuola sono divenute, da un giorno all’altro, di dominio pubblico. Il copione è poco originale: affair con sua dipendente, scoperto dal marito, il quale decide che è arrivata l’occasione giusta per ottenere il lavoro dei suoi sogni, un posto da lobbysta a Washington, e ricatta il senatore. Il primo ottobre viene scoperto. Senza lo scandalo pubblico, nessuno sarebbe riuscito ad unire i puntini e a capire come il tradito sia arrivato dove sta. Ma soprattutto, senza la pubblicazione, il senatore sarebbe rimasto al suo posto e ricattabile, per chi sa quanto ancora. Invece intrepidi giornalisti lo smascherano, la giustizia e la pubblica morale trionfano, ed Ensign, da astro nascente del GOP, ora ha la poltrona a rischio.
Questa è una dimostrazione pratica del cosiddetto “argomento del ricatto”, ben rappresentato dalla sesta domanda delle celebri dieci nuove domande di Repubblica. Un uomo con un segreto è un uomo ricattabile. E se l’uomo è pubblico, allora è il pubblico a trovarsi sotto ricatto. Dunque, non ci devono essere segreti nella vita privata di un uomo pubblico. Ragionamento ineccepibile.
O meglio, ragionamento ineccepibile, se non vivessimo in Italia.
In Italia, essere ricattabili non solo fa parte del gioco politico, ne è parte integrante. Se non sei ricattabile, non sei affidabile, non puoi assicurare la restituzione dei favori, e quindi non sarai appoggiato, finendo sorpassato da chi invece si dimostra meno “schizzinoso”. Niente ricatti, niente carriera politica. Come dice l’Andreotti de “Il Divo”, l’unico suo vero potere risiede nei segreti degli altri. Possiamo quindi presumere che chiunque sia entrato nell’arena politica italiana, sia come minimo un ricattato e ricattatore navigato. E cosa volete che siano D’Addario e Noemi per uno che di scheletri nell’armadio, ne deve avere centinaia, se non migliaia?
Quindi, cara Repubblica, la tua domanda numero sei, purché legittima, manca di pragmatismo. In generale le dieci domande, così come l’intervista alla D’Addario da Santoro, così come il resto del sensazionalismo mediatico sulle attività sessuali del premier, danno l’impressione di essere alquanto irrilevanti. Lo scandalo non sposta né opinione né voti. Non dimentichiamoci che la fascia demografica scandalizzabile, quella che potrebbe effettivamente cambiare idea su Berlusconi grazie agli scandali, guarda solo rete quattro e come minimo considera gli scandali propaganda sovietica. Per quanto riguarda il resto del Paese, gli under-60, quelli che s’indignano rimangono gli anti-berlusconiani che probabilmente già erano, quelli che non s’indignano non si muovono né dall’una né dall’altra parte. Se va bene non vogliono passare per bigotti, se va male vanno a unirsi al gruppo di facebook “Vai Silvio Scopatele Tutte”.
Non fraintendetemi, con questo ragionamento non mi voglio unire alla fazione anti-scandalo. Io me ne sto saldo nell’amore per il gossip da sciampista, e nella oramai abitudinaria vergogna dell’italianità all’estero.
Senza contare che senza questo scandalo ci saremmo persi perle di satira come questa puntata del daily show o questa di mock the week e molte altre.
Un effetto sostanziale tuttavia lo scandalo l’ha avuto, oltre alle odiose e sterili polemiche alla Vespa.  Un fatto passato un po’ in sordina, che non gode di grande popolarità nei dibattiti, ma che a mio avviso è l’unico che può dare veramente speranza a chi sogna un’Italia libera da Berlusconi. Per la prima volta dal 1994, s’è rotto l’idillio tra il Vaticano e Palazzo Chigi. E il Vaticano ha un potere considerevole sui fruitori di rete 4, così come su buona parte dell’elettorato del PDL.
Io comunque, la mia riserva d’indignazione la tengo in serbo per altre cose, soprattutto per ció che riguarda il premier, e mi godo il gossip senza sensi di colpa.


PD: l’ennesima occasione sprecata

settembre 30th, 2009 by Michele Lorenzelli | 1 Comment

PD: l'ennesima occasione sprecata

Come tutti ricorderanno, il Pd ha negato a Grillo la possibilità di iscriversi al partito e di candidarsi alle primarie. Eppure ci perde. Ci perde il partito, perché guardando il “grillismo” fuori dagli schemi e dalle analogie avrebbe avuto modo di approfittare della carica innovatrice di Grillo. Carica innovatrice che non si ferma alle semplici idee, delle quali pure vi è un gran bisogno nel nostro Paese. Ecco il motivo per il quale ci guadagnerebbe anche l’Italia.
Il fenomeno “Beppe Grillo” sicuramente porta alla mente diversi altri avvenimenti della storia politica italiana, quali ad esempio l’Uomo Qualunque, la questione morale di Berlinguer, Bossi che urla “Roma vaffanculo!”. Cercare di tracciare un simile parallelismo, però, oltre che risultare noioso ai più, rischia di rivelarsi solo un inutile esercizio di storia politica. In un’ottica aziendale, se un processo produttivo non aggiunge valore al prodotto, allora significa che è un processo che può essere ridimensionato, eliminato o esternalizzato. Allo stesso modo, ogni tentativo di inquadrare il presente (alquanto deludente) della politica italiana utilizzando schemi ed eventi del passato, qualora questi non possano insegnarci qualcosa di nuovo e darci una visione di quella che potrebbe essere l’evoluzione del fenomeno, rischia di non fornirci gli strumenti per affrontare un tema così complesso.
Inoltre, potrebbe non aver nemmeno senso commentare un fenomeno nato e cresciuto, grazie alle tecnologie dell’informazione, in pochissimi anni (il blog BeppeGrillo.it è stato lanciato solo nel 2005) cercando di inquadrarlo grazie ad eventi avvenuti decenni di anni fa, quando il mondo ragionava e viaggiava molto più lentamente rispetto ad ora.
Il rischio di cercare di tracciare un simile parallelismo è quello di rimanere fossilizzati senza produrre nulla di nuovo e senza guardare avanti o, peggio, di liquidare il fenomeno come riedizione di episodi passati. Cosa che costituirebbe un grave errore.
Il fenomeno Grillo è qualcosa di epocale, perlomeno in un Paese gerontocratico e politicamente ingessato e incapace di innovare come il nostro. Grillo, dietro la sua maschera di urlatore, sta proponendo una nuova politica. Non quella di un Presidente del Consiglio che prima delle ultime elezioni in una trasmissione televisiva (credo Porta a Porta) ha affermato – vado a braccio – “Io ho portato una moralità nuova in politica” (cosa che purtroppo effettivamente ha fatto…). La politica di Grillo è una politica nuova, nel senso che è nuovo l’approccio che vuole dare alla politica. L’informazione riferisce solo di urla e insulti, ma sappiamo bene che ciò che sta dietro alle urla e agli insulti, dei quali è più comodo riferire, sono temi importanti e che toccano da vicino la vita di milioni di cittadini, come il tema dell’acqua pubblica, della raccolta differenziata dei rifiuti, delle energie rinnovabili, ma anche di una moralità (questa sì, nuova) che la politica non vede ormai da generazioni. Sono tutti temi che non ha scoperto il comico genovese: sono temi che sono emersi dal confronto con esperti di livello internazionale e con i cittadini che leggono il blog. La politica proposta da Grillo è quindi una politica partecipativa (non rappresentativa), proprio come gli strumenti cui siamo ormai abituati, come Facebook, My Space, i blog, le pagine wiki. Ciò che ne risulta è quindi una democrazia partecipativa e non solamente rappresentativa (sempreché una democrazia nella quale i parlamentari sono i rappresentanti delle burocrazie partitiche invece che dei cittadini possa definirsi “rappresentativa”, ammesso e non concesso che possa definirsi “democrazia”, ma questo è un altro discorso).
Come dal Web 1.0, nel quale le informazioni e i contenuti fluivano in una sola direzione  dai “content provider” (i siti web) agli utenti, si è passati al Web 2.0, nel quale gli utenti sono i produttori di conoscenza (senza filtri), così Grillo propone di passare da una situazione nella quale il cittadino è succube della politica a una situazione nella quale è il cittadino a fare politica. Volendo coniare uno slogan si potrebbe dire che si vuole passare da “lo Stato sono io” a “lo Stato siamo noi”.
Secondo questo nuovo approccio, lo Stato non sarà più appannaggio di lobby legate ai partiti o a questo o quel politico. A fare politica, a controllarla, a stilare l’ordine del giorno sarà la gente comune, i cittadini. Cioè gli “utenti” dello Stato.
Chi sostiene che questo sia impossibile (o pericoloso) non ha ben presente la portata della rivoluzione di internet e del Web 2.0, ovvero una rivoluzione partecipativa che promette di cambiare le regole di come gira il mondo. Lo si sta vedendo in molti campi, dalla finanza (social lending), alla ricerca & sviluppo (Innocentive), al venture capital (Vencorps e Cambrian House), alle reti energetiche. Si sta muovendo qualcosa persino nella politica, come ha mostrato la campagna elettorale di Obama o, molto più in piccolo, le liste civiche sponsorizzate proprio da Grillo.
È una rivoluzione lenta, ma che non può essere fermata, anche se ci stanno provando in molti (si veda ad esempio la legge sull’obbligo di rettifica per i blog). Se i partiti vogliono avere un futuro devono cambiare e inserirsi nel solco tracciato da Grillo. Se non sposano le sue idee su acqua, fonti rinnovabili, inceneritori, sposino almeno il suo approccio alla politica.
In definitiva, quello che Grillo e i suoi stanno facendo è ridefinire le regole del gioco, una mossa che può rivelarsi vincente. Un movimento è già nato informalmente intorno al blog e, secondo quanto riportato proprio sul blog il 9 settembre, il 4 ottobre nascerà ufficialmente il Movimento Nazionale a Cinque Stelle. Grillo e i suoi hanno ancora molta strada davanti, ma quando ce la faranno, cioè una volta che la gente si sarà resa conto di poter parlare a qualcuno che veramente la ascolta, chi sarà rimasto indietro non avrà un futuro.


Silvio Berlusconi è assolto per aver commesso il fatto

settembre 18th, 2009 by Alessandro Berni | 5 Comments

Silvio Berlusconi è assolto per aver commesso il fatto

Premetto che questo non è un articolo denigratorio né tanto più apologetico nei confronti di Silvio Berlusconi. Nelle mie intenzioni, Silvio Berlusconi non è il soggetto dell’articolo, bensì l’oggetto. Il soggetto è il presunto accanimento mediatico dell’Unità e della Repubblica sulle marachelle sessuali del Presidente del Consiglio che taglia alberi e ruba spazio ad altri argomenti di maggiore valore informativo.
Viveur, ex pianista di piano bar, laureato con lode, gran compagnone, non propriamente un uomo colto o raffinato, ma uno che se ne intende di calcio di sicuro, Silvio Berlusconi è da quindici e più anni l’uomo quasi più ricco, quasi il più potente e, di sicuro, il più chiacchierato d’Italia. Professionalmente parlando, è nato imprenditore edile e si prospetta che morirà imprenditore poco meno che totale. C’è un luogo comune che dice che quest’uomo sia presente in ogni settore di ogni mercato. Non è vero: non produce armi né vaccini; non ha pozzi di petrolio; non fa grandi business con Internet. È fuori dall’alta politica mondiale insomma, dal giro degli illuminati.. le orecchie che devono hanno già capito, le altre.. ma che glielo dico a fare.
È notizia di questi giorni che abbia querelato Repubblica chiedendo un risarcimento di 1 miliore di Euro per le dieci domande sulla sua relazione con la giovine Noemi Letizia in quanto giudicate retoriche e palesemente diffamatorie e l’Unità reclamando risarcimenti per un totale 2 milioni di Euro a causa dei numerosi servizi dedicati al frizzante stile di vita sessuale del Presidente del Consiglio.

Ma insomma, ormai l’avete detto e lo sa chiunque e lo ha riconosciuto lui stesso: non è un santo e neanche un beato. Ora, basta. Va bene, si: un uomo di settantatre anni ha copulato con diverse ventenni e magari una di loro aveva diciassette anni e due figure. Di questo, sua moglie Veronica si è arrabbiata molto. Si, ha tradito e senz’altro ha sbagliato come ha dichiarato senza finora smentire a fare qualche invito alle serate a cui partecipava. Ora che lo sanno proprio tutti, per favore assolviamolo per aver commesso il fatto e non pensiamoci più. Questi pensieri sembrano essere il riassunto ottenuto interpretando i dati statistici della sua popolarità politica che dopo un lieve calo avvenuto proprio durante il nascere del più grande scandalo sessuale italiano di sempre ha ripreso tiepidamente a salire.
In un passaggio dell’intervista del corriere.it a Niccolo Ghedini, avvocato personale di Silvio Berlusconi: “Senta, scusi. Ma se io le dicessi che lei un gran porco? Eh? Un gran porco e per giunta, impotente? E lo dicessi a tutti gli italiani? Mi risponda sinceramente: si arrabbierebbe o no?”
In quanto considerati spiacevoli ed eccessivi in diversi passaggi, gli autori degli articoli dell’Unità in questione sono stati citati in giudizio e sarà un tribunale civile a decidere.
Per quanto riguarda le dieci domande di Giampiero Martinetti ancora presenti su repubblica.it, sono considerate indegne figlie dell’arte del dire, oltraggiose, fortemente datate oltre che ritenute colpevoli di costringere la duplice natura dell’amor sacro e amor profano ad argomento da confessionale.
E allora, perché no? togliamole. E al loro posto mettiamoci l’ultimo decolté di Jessica Biel oppure l’articolo: Berlusconi sei un mafioso? 11 domande al cavaliere per negarlo. Di Max Parisi, uscito ne La Padania, l’8 Luglio 1998 ovvero una pagina di storia della politica e del giornalismo d’Italia che merita ancora e davvero di continuare ad essere letta e dibattuta:
http://web.archive.org/web/20000620155012/http://www.lapadania.com/1998/luglio/08/080798p02a1.htm
http://www.alain.it/2009/04/15/berlusconi-sei-un-mafioso-rispondi-la-padania-1998/
Italiani, alzatevi dal lettone di Putin. Avete altre cose a cui pensare..


Mescolati non agitati?

settembre 16th, 2009 by Michelangela Di Giacomo | No Comments

Mescolati non agitati?

Se “Mescolati non agitati” ha voluto essere l’ammiccante slogan della festa nazionale del PD di quest’anno, lo slittamento dal paradigma del “l’Unità”, attraverso un generico populismo del “ciao, bella!” fino al gioco semantico intorno al fortunato cocktail di un invincibile James Bond sembra essere molto più che una semplice trovata di qualche inventivo pubblicitario.
E se nella politica conta spesso più il non-detto del rivelato, potremmo forse leggere nella formuletta una malcelata scomoda verità. A pochi mesi dalle dimissioni di Veltroni, e ad altrettanti pochi mesi dal prossimo congresso del partito, col peso della prova elettorale europea dal contraddittorio bilancio, le velleità unitarie del PD sembrano essere ben lungi dall’essersi trasformate in realtà, e il partito sembra essere tutt’altro che invincibile.
Le varie anime del partito – popolar-cristiane e post-comuniste innanzitutto – sono a prima vista tutt’altro che mescolate, e la direzione fatica a non far trapelare una certa agitazione. Lasciando anche da parte l’affaire Grillo, una questione a sé che ha più del rapporto tra politica e antipolitica che di strategie di partito/realpolitik, i problemi del PD si coagulano intorno a ben più profonde divergenze. Che riguardano anzitutto l’idea stessa del partito.
Che cos’è il PD? Questo il nodo che, al di là della campagna elettorale europea – nella quale sembra aver tenuto una certa base pur con la prevista erosione a sinistra e dipietrina -, ancora evidentemente non è risolta. E che trova chiara espressione di visioni opposte nei personaggi candidatisi alla guida del partito.
Che ha a che fare l’ex-DC, ex-Margherita Francheschini con l’ex-PCI, ex-PDS Bersani? E in che punto si colloca l’ex chirurgo, senatore Ignazio Marino?
Basta la vocazione riformista, l’ambizione socialdemocratica apparentemente condivisa da tutti a dare forma ad un partito che evidentemente porta anime inconciliabili al suo interno? Per quanto si sia pensata come innovativa e chissà anche lungimirante – ma qua entriamo nel campo dei giudizi di valore che in questo momento non ci riguarda – il dialogo delle anime riformiste social-ex comuniste e cattoliche, queste due vocazioni inamovibili dalla temperie italiana, che sono sembrate dover trovare un’occasione di dialogo e anche di collaborazione, possono davvero coesistere all’interno di un partito?
E soprattutto: dato che a votare devono andarci dei militanti si suppone “di base”, che cosa ha capito questa base delle manovre interne ad una direzione confusa e disorientata? Io, se fossi un elettore delle primarie del PD e se dovessi dire da che parte vorrei che andasse il partito, ora come ora non sarei in grado di esprimere preferenze se non di serracchiana memoria perché un candidato è “tanto più simpatico” dell’altro (criterio umano validissimo, qualche dubbio in più sulla legittimità politica di una scelta del genere).
Ho pensato dunque che nel mondo del personalismo, in cui non conta più tanto il progetto politico ma le doti umane, non si potesse far altro che ripartire dall’uomo. E andare a vedere chi sono i tre principali sfidanti alla premiership del PD.
Ignazio Marino si presenta nel suo sito istituzionale con mascherina in sala operatoria o sfoggiando un iMac fiammante in bucolico contesto. Pone al primo posto l’essere un chirurgo specializzato in trapianti d’organo, nato a Genova nel 1955. Segue breve curriculum professionale, sviluppatosi anzitutto nei più prestigiosi istituti sanitari religiosi della Capitale. Studi in Gran Bretagna e a Pittsburgh, si fregia di aver “partecipato ai primi ed unici due trapianti di fegato da babbuino ad uomo della storia”. Tornato in Italia armato di buone intenzioni per risollevare la stagnante medicina nostrana,  avvia a Palermo i programmi di trapianto di fegato e di rene da cadavere e da donatore vivente, e si è spinto tanto in là nell’accessibilità ed equità delle cure mediche da eseguire il primo trapianto italiano su un paziente sieropositivo. Nel 2003, esaurita (?) la sua missione nella madrepatria, riprende la via degli Stati Uniti dove, si specifica, “mantengo tuttora l’incarico di Professore di chirurgia”. Il che, oltre a dimostrarsi meritorio sgravio sulle finanze della sanità italiana, non gli ha però impedito di seguire la politica del Belpaese, collaborando con ItalianiEuropei, la Repubblica e l’Espresso, pubblicando tra l’altro “una interessante ed approfondita conversazione sui temi etici assieme al Cardinale Carlo Maria Martini”.
In biblico tra solidarismo e politica, nel 2006 ha deciso di tornare in Italia per essere eletto come senatore indipendente con i DS.
Rimarchevole assenza del cursus honorum politico, chissà per assenza del medesimo. Società civile che entra in politica, politica che si fonde con la società civile. Potrebbe essere l’homo novus di cui il PD ha tanto bisogno? Saranno la solidarietà in politica e la meritocrazia carrieristica i valori unificanti nell’era dei Bertolaso e dei Brunetta? Se la politica non è ormai più terreno di esperti politologi e le relazioni umane non sorgono più da un vincolo di cittadinanza politico-ideologica intorno a delle ideologie piuttosto che a dei valori, allora forse è meglio avere un ottimo medico preparato e solidale a far da modello al militante e alla società invece di nani ballerine e saltimbanchi.
Pier Luigi Bersani esibisce invece un curriculum ricchissimo di informazioni biografiche minute, che chissà perché ha ritenuto essere indispensabili per comprendere il suo excursus politico sicché si legge: “nasce il 29 settembre del 1951 a Bettola, comune montano della valle del Nure in provincia di Piacenza. La sua è una famiglia di artigiani. Suo padre Giuseppe era meccanico e benzinaio. Dopo aver frequentato il liceo a Piacenza, Bersani si iscrive all’università di Bologna dove si laurea in Filosofia, con una tesi su San Gregorio Magno. Sposato con Daniela dal 1980, ha due figlie Elisa e Margherita. Dopo una breve esperienza da insegnante, si dedica completamente alla attività amministrativa e politica. Viene eletto consigliere regionale dell’Emilia-Romagna”. Verrebbe da chiedersi quando, in che anno e perché tanta vergogna nel dire con che partito all’epoca iniziò a farsi spazio nella politica italiana. Nel maggio del 1996 il salto: da Presidente di Provincia Ministro dell’Industria nel Governo Prodi, poi Ministro dei Trasporti. Nel frattempo anche all’interno dei vari partiti post-PCI, Bersani è riuscito a ricavarsi un posto, come membro della Segreteria nazionale e responsabile economico degli allora …



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