Jus sanguinis e jus curriculi: la confusa rendita del giornalismo nostrano d’oggi
marzo 15th, 2010 by Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa | 2 Comments
All’inizio avevo pensato ad un titolo del tipo: “Il giornalismo nostrano d’oggi: mediocre onanismo autoreferenziale di gente di mezza età che si sente aristocrazia”. Poi ho pensato che, forse, un titolo così all’inglese – ovvero nello stile di quel paese che a molti della categoria piace tanto per la sua incredibile libertà d’espressione – avrebbe potuto offendere, anzitutto, proprio loro.
Lorsignori i giornalisti, s’intende.
Eppure, cosa altro si può pensare quando uno dei principali quotidiani del Paese ti rifila 7 paragrafetti infarciti di qualcosa come 15 espressioni comuni (o modeste varianti), 8 citazioni di veri o presunti ‘grandi pensatori’, di cui 7 vivi (!), di cui 6 giornalisti (?!), di cui 5 cinquantenni (…) ed un ultraottantenne?
Cosa pensereste, poi, se proprio quei 7 paragrafetti componessero un accorato appello al vostro senso civico, richiamandovi a reagire all’atarassia ignorante e zotica che appanna il Paese e propinandovi intanto quell’orrido ribollito per il quale siamo tutti vittime di un declino generalizzato che nemmeno l’autore di tale componimento (il quale, candido, si pone fra gli ‘intellettuali’ del Paese) ha idea di come invertire?
Vi dico quello che ho pensato io.
Ho pensato che, dopotutto, l’ultima fatica di Ilvo Diamanti su Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2010/02/14/news/diamanti_14_febbraio-2291160) è di una tale bruttezza che trovo tutt’ora difficile non cadere nella tentazione (comunque illecita) di pensare che, se questo è il frutto di ciò che oggi si considera egregia coniugazione di libertà e bontà d’espressione, un periodo di vera austerity intellettuale forse varrebbe la pena provarlo. Tanto più per uno che chiama le sue rubriche ‘Mappe’ e ‘Bussole’. Se non altro, si potrebbe salvare qualche albero.
O un po’ di corrente.
O un po’ di tempo.
Intendiamoci: niente di personale tra me ed il signor Diamanti. La mia, in effetti, non vuole essere (solo) una censura di quella che già la mia professoressa di lettere al liceo avrebbe bollato come ‘nozionismo sequenziale’ affastellato a chiacchiere da domestica a ore e intriso di un pessimismo che di cosmico ha solo il nome, senza alcuna rielaborazione personale.
La mia vorrebbe essere una critica, sintetica ma ragionata, ad un sistema che ha perso il senso del proprio ruolo, né sembra avere quello della sua dimensione. Una critica al giornalismo nostrano d’oggi: così impegnato a puntare il dito contro ‘l’anomalia italiana’ del giorno da non rendersi conto di rappresentare un’anomalia in sé.
Diamanti, cinquantottenne, a sostegno dei suoi argomenti chiama in causa, cita o si riferisce a Berselli (59), Stella e Rizzo (57 e 54 anni), Bernard Manin (59), Ezio Mauro (62), Boffo (58). Forse intuendo lo strale che verrà, mette le mani avanti con Sartori (86) e Banfield (deceduto nel ‘99, oggi di anni ne avrebbe 93).
Al di là del discutibile ricorso ad una tale mole di ‘affidamenti’ in un singolo pezzo, sono il solo a percepire qualcosa che non va, in questa messe di nomi e numeri?
Giusto. Tutti cinquantenni.
Ovvero tutti formati in quella Italia anni ’70 sfacciatamente ricca, sfacciatamente facile e ancora più sfacciatamente post-sessantottina che rappresenta, oggi (guarda caso!), l’eldorado di cui molti di questi signori vagheggiano il ritorno (terrorismo a parte). Quell’Italia dove, nella bilancia, il piatto dei doveri iniziava a traballare (per saltar per aria del tutto nella decade successiva), lasciando a terra, ancora oggi tra noi, la percezione girondina per cui il diritto anticipa il dovere (che del primo è solo funzione sgradita ma necessaria).
Poiché ‘a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca’, siamo cinici: quando un diploma era ancora un mezzo miraggio, per questi primi figli borghesi di una Repubblica ancora molto rurale e operaia è stato facile far passare una laurea, un modesto francese e quattro parole di inglese per delle atout insuperabili.
Probabilmente, in alcuni casi lo erano.
Meno chiaro è, però, se tali figli del Belpaese che fu riuscirebbero a cavarsela ab initio e con altrettanta versatilità nell’Italia del nuovo millennio.
Intanto, possiamo star certi che tutti i giorni questa messe di cinquantenni si riunirà, su qualsiasi spazio (giornali, televisione, internet, teatro, tribune, convegni, etc.) e non per fare domande a chi, magari, la riunenda causa la rappresenta per davvero. Piuttosto, per scambiarsi personali opinioni sul punto. Che decidono loro, direttori, conduttori e ospiti delle manifestazioni a cui partecipano.
Eccoli lì, in reggimento: Santoro (59), Mentana (55), Gruber (57), Lerner (54), Ferrara (58), Belpietro (52). Un po’ sostenuti, i più in sovrappeso, brizzolati o alopecici, queste ed altre gaudenti penne hanno imparato ad usare, soprattutto, la televisione. Ad uscirne (in genere, verso le elezioni) ed a rientrarvi (poco dopo) – alla faccia della personalizzazione del servizio. Ogni giorno si invitano, si lodano e si imbrodano, discutono e litigano, si accusano, si diffamano e si querelano, poi fanno pace in diretta e tutto ricomincia da capo. Quando riescono a non interrompersi a vicenda, portano avanti il solito processo al Paese e le conclusioni sono sempre tre: 1) ciò che accade da noi non si è mai visto altrove; 2) ciò che accade da noi è fatto molto meglio altrove e 3) il nostro declino non è riscontrabile altrove.
Viene da chiedersi se lorsignori altrove ci siano mai stati.
In questo reality di giornalisti di mezza età, in cui ci viene ricordato in continuum cosa è la libertà e come fare per difenderla, mi sia concesso di dubitare che titoli ed anagrafica di codesta brizzolata assemblea siano compatibili con l’auto-investitura a ‘guardiani del sistema’ a cui quotidianamente assistiamo.
In effetti, appurata un’educazione mediamente modesta rispetto ai severi standard di oggi, fa un certo effetto notare quanto piaccia a Lorsignori discettare sul tema – mentre le nuove leve del giornalismo si scannano per un posto di stagista a tempo indeterminato.
A ben vedere, il rapporto degli odierni principi del calamo con le nuove generazioni in genere non è tra i migliori. Per quelli di loro che non hanno figli, i giovani sono incapaci o, al più, mammoni. Quelli che i figli ce li hanno, consigliano loro di emigrare.
Così facendo, però, non fanno altro che confermare la pochezza della loro preparazione, l’incompetenza con cui valutano il presente e, in fondo, alimentare il sospetto che il loro successo sia dovuto più a circostanze fortuite …