Studiare nell’America di Obama

luglio 8th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments

Studiare nell'America di Obama

Il quattro luglio, festa dell’indipendenza. Nel 2009 si celebra il duecento trentatreesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza americana, in cui i padri fondatori affermarono uguaglianza universale e diritti inalienabili a vita, libertà e felicità. Uguaglianza e diritti che sono, da allora, una conquista di ogni giorno della vita pubblica e privata negli Stati Uniti, come ricorda Barack Obama nel suo messaggio e-mail del quattro luglio.
Buon compleanno, America. Ti festeggio esattamente dove ho avuto il primo contatto con il tuo dolce profumo di libertà, sul prato davanti a Capitol Hill, la sede del Congresso, nel cuore di Washington, DC, dove le feste per il tuo compleanno stanno per iniziare. Allora era Labor Day, primi giorni di settembre (2008), e io dovevo ancora iniziare la mia avventura da studente in un’America ancora incerta tra Obama e McCain. Il governo studentesco della School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins a cui ero iscritto per un master biennale in relazioni internazionali aveva programmato per quella sera settembrina una “dinner with strangers”, una cena per conoscersi tra nuovi compagni di classe. La cena fu davvero un’occasione per conoscere nuovi amici, con cui andare poi a vedere il concerto della festa del lavoro davanti al parlamento.
Provavo in quei giorni – senza saperlo, e senza rendermene contro – un senso di libertà. Un senso cioè di poter indirizzare la mia vita nella direzione dei miei interessi e desideri più profondi. Ero contento di essere partito, anche se sapevo che avrei avuto nostalgia di casa. Ero convinto – e ora posso confermare come la mia convinzione fosse ben fondata – che studiare relazioni internazionali al SAIS nella capitale degli Usa sarebbe stata un’esperienza unica.
L’America e in particolare l’ università mi hanno dato da subito un caloroso benvenuto. Mi guardavo intorno nel mio quartiere – Logan Circle, un quartiere abitato dall’élite nera nell’Ottocento, decaduto nel secondo dopoguerra e finalmente rinato in una esplosione di ristoranti e gallerie d’arte nell’ultimo decennio – e vedevo facce allegre, case colorate, e tanti alberi. Intorno ai palazzi del SAIS, mi guardavo intorno e vedevo visi amici dell’anno a Bologna (sede del primo anno del mio master) e visi nuovi che imparavo ad associare a nomi durante gli aperitivi del venerdì sera.
L’accoglienza da parte di professori e personale amministrativo dell’università mi ha reso la vita ancora più facile sin dall’inizio. Nel mio dipartimento di studi ambientali ed energetici l’organizzazione mi pareva perfetta, con persone disponibili ad ascoltarti per le scelte accademiche e professionali.
La volontà di accogliere, di dare il benvenuto, fa parte della migliore cultura americana. La seconda settimana di lezione, il professor Scott Barrett (esperto di cooperazione internazionale e cambiamento climatico) ci invitò tutti per un aperitivo nella sua bella casa in Maryland, uno stato così verde da ricordare l’Irlanda. Mi sembrava una cosa strana, andare a case di un professore con altri quaranta compagni, ma presto mi abituai a tal costume, grazie a tanti altri inviti a casa di professori. Gli inviti a case dei miei compagni mi hanno fatto capire come il piacere dello stare insieme sia anche un aspetto della cultura americana, particolarmente apprezzato da noi italiani.
Accogliere vuol dire anche sapere ascoltare, e mi resi presto conto che il professor Francis Fukuyama – di cui seguivo un corso sulla storia del pensiero economico – è uno che prima di tutto sa ascoltare. Prima delle lezioni, leggeva attentamente su internet i nostri commenti ai testi di Adam Smith, Max Weber, Amartya Sen e altri. Analizzava attentamente per poter poi rispondere con cura, nel dettaglio. Le discussioni in classe venivano condotte in modo fermo ma cordiale. L’analisi dei testi diventava così occasione di scambio intellettuale con i compagni di classe, mentre i dialoghi con Fukuyama aiutavano a chiarirsi le idee su ciò che leggevamo.
Lo scambio intellettuale, durante il mio anno di studi a Washington, non era limitato dalle mura delle aule universitarie. Nella cerchia internazionale del SAIS – dove la maggioranza degli studenti parla due o tre lingue straniere, e una buona parte di essi hanno vissuto in quattro e cinque paesi diversi – ci si scambiano sempre idee, informazioni, conoscenza. Quando parlo d’Africa con Kenneth, il mio amico camerunese, mi sembra di apprendere ogni volta qualcosa di nuovo. Quando Edward mi racconta dei suoi viaggi in Asia per promuovere la costruzione di scuole elementari, pare anche a me di aver viaggiato con lui. Quando Chris mi spiega (a settembre) perché Obama “vince sicuro” nelle elezioni presidenziali, sento di imparare qualcosa in più sulla società americana. Ogni giorno posso dire di aver imparato qualcosa di nuovo dai miei compagni di corso.
Le occasioni concrete per scambiarsi idee e conoscersi di certo non mancano a Washington. Durante l’anno accademico ci si vedeva spesso a casa di qualcuno per una festa, o anche solo per un pranzo insieme alla mensa della Brookings Institution. Ora che l’università è terminata ci si vede ancora con i vecchi amici per un giro insieme a Georgetown, un barbecue in giardino, o una birra nei locali storici della capitale. Tutto per mantenere un senso di comunità, a “feeling of togetherness”, essenziale per una vita felice in un paese come l’America che offre tante opportunità ma può talvolta essere luogo di solitudine (dell’anima più che fisica).
Il senso di comunità è in effetti una delle caratteristiche che mi rimarranno impresse di Washington, non solo nell’ambiente universitario ma anche in quello religioso e sociale. Le parrocchie cattoliche sono molto attive nel volontariato e offrono occasioni di scambio e di conoscenza (ah, il bello di sentirsi una minoranza). Molte organizzazioni – religiose e non – offrono cibo e protezione ai più sfortunati. Tra vicini di casa, ci si aiuta e ci si cura delle cose comuni insieme. Ci si sente cioè parte di un destino comune, quel “common destiny” che secondo Obama è sì scritto per noi dal nostro Creatore, ma è anche scritto da noi attraverso le fatiche quotidiane. Un senso di comunità particolarmente evidente durante la campagna elettorale in cui mi sono ritrovato immerso nel settembre-ottobre 2008, una campagna che ha …


Casa Zimbabwe

luglio 1st, 2009 by Rocco Polin | 2 Comments

Casa Zimbabwe

“San Francisco e la metà degli anni sessanta erano un bel tempo e un bel posto dove vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza di essere stato la, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse…
C’era una fantastica, universale impressione che qualunque cosa si facesse era giusta, che si stesse vincendo…Avevamo l’abbrivio noi: stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa…
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso Ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea – quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro”
Da “Fear and loathing in Las Vegas” di Hunter S. Tohmpson
Credo che dalla collinetta di Las Vegas, guardando a occidente alla ricerca del segno dell’alta marea, con gli occhi adatti si scorgerebbe un grosso edificio di pietra posizionato in posizione sopraelevata sul lato settentrionale del campus dell’Università di Berkeley. Quell’edificio giallo è rimasto attaccato alla sua collina e all’utopia degli anni in cui fu creato come certe cozze rimangono attaccate agli scogli, incuranti della marea che prima le sommerge e poi si ritira.
E’ una cooperativa studentesca, una comune, un centro sociale… chiamatela come volete, ufficialmente si chiama Casa Zimbabwe, in lingua Shona significa house of stone (facile il passaggio a “house of stoned”), in sigla CZ (da cui il soprannome Czars per i suoi abitanti) e conosciuta a Berkeley anche come Crakistan (questa non credo ci sia bisogno di spiegarla). Io ci ho vissuto un anno, studente in scambio presso l’Università’ della California e quella casa, la sua cultura e i suoi abitanti, sono stati l’elemento centrale e definitorio del mio anno all’estero.
Un anno all’estero che pensavo sarebbe stato all’insegna dello studio in una delle migliori università del mondo e che invece si è gradualmente trasformato in un’esperienza psichedelica in quello che ancora resiste della controcultura degli anni Sessanta. La morale dell’articolo è forse meglio anticiparla si dall’inizio: la parte migliore delle proprie esperienze all’estero è quella di cui alla partenza non si sospettava l’esistenza.
Casa Zimbabwe è una delle 17 case gestite dalla Berkeley Student Cooperative. Ce n’è una vegana, una afro, una gay, lesbian and transgender, alcune più alcoliche, altre più hippy, altre ancora silenziose e intellettuali. Ogni casa è gestita dal consiglio dei suoi abitanti che si riunisce la domenica sera e provvede a eleggere i managers (chi si occupa di riscuotere gli affitti, chi dell’approvvigionamento alimentare, chi della manutenzione della casa) e a discutere dei problemi della casa. Ogni membro è tenuto, in cambio di vitto e alloggio, a versare un affitto mensile e a fare cinque ore settimanali di lavoro. Le mansioni sono le più diverse: chi cucina la sera, chi lava i piatti, chi si occupa dell’orto di pomodori sul tetto, chi organizza feste nel weekend, chi si occupa del riciclaggio rifiuti, chi di scaricare film da internet… Una domenica sera, durante un consiglio particolarmente delirante, si è deciso che le ore di lavoro fatte nudi valgono il doppio e cosi, verso la fine del mese, con l’avvicinarsi del periodo delle multe, è frequente incontrare per la casa ragazzi e ragazze completamente nudi e armati di ramazza.
Abituarsi non è stato facile. All’inizio, quando ti invitano a meditare sul tetto, a fare yoga la domenica mattina, ad arrampicarsi nudi sugli alberi e a suonare la chitarra vorresti sbatterglielo in faccia il fallimento di quegli anni Sessanta di cui loro non sono che patetici avanzi. Vorresti farli vergognare dell’egoismo individualista della loro scelta, il sistema loro non lo combattono, lo ignorano. E il sistema, grato, li ignora a sua volta, permettendo il fiorire di questa isola di anarchia dove anything goes, le droghe sono accettate, il confine tra etero e gay e’ sempre più sfumato e un’ora di lavoro nudi vale doppio. La protesta è fallita, ormai rimane la provocazione. Una volta a semestre si corre tutti nudi per la biblioteca del campus. Cosa vuol dire? Gli viene mai in mente che in Iran e in tante altre parti del mondo nostri coetanei muoiono per il diritto di esprimere un’opinione libera? Che forse correre nudi in aula magna per scandalizzare il rettore è più insultante per le tante ragazze che non hanno nemmeno diritti ad un’istruzione in virtù del loro sesso che per il povero rettore costretto a vedere i nostri giovani culetti nudi?
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Poi però, seduti sul tetto con una birra, osservando gli incredibili colori del tramonto sopra la Baia di San Francisco, il fascino di questo strano posto di devianti e sognatori comincia a colpirti. Centoventi studenti: cristiani, induisti, ebrei e mussulmani, nerd informatici, spacciatori di ogni tipo di droga, europei in scambio, suonatori di chitarra, ottimi cuochi, pessimi cuochi, un pitone, un ratto, un cane, un uccello, un coniglio… come nella celebre canzone per bambini non c’erano i due unicorni ma a volte, in particolari stati mentali, capitava di vedere anche quelli.
Quando alle due di notte tornavo dalla biblioteca del campus dopo una notte di studio avevo la certezza di trovare qualcuno in cucina ad infornare biscotti. Mezz’ora dopo, intorno al tavolo della cucina, ai biscotti appena sfornati e ad una bottiglia di whisky ci si ritrovava in una decina a spettegolare degli amici comuni, a progettare demenziali feste a tema per i giorni successivi o a discutere di medio oriente (siamo pur sempre studenti di Berkeley, per Diana!).

Nota per il lettore: qui dovrebbe finire l’articolo, l’ultimo paragrafo è un mio delirio probabilmente incomprensibile, frutto in gran parte di meditazioni sintetiche.
Quello hippy potrebbe essere l’ultimo stadio di una civiltà occidentale ormai troppo prospera e viziata e finalmente al tramonto (nomen omen). Dietro a meditazioni, veganesimo e filosofie orientali in salsa hippy potrebbe forse in effetti nascondersi solo vuoto pneumatico. Una reazione sterile alla vittoria definitiva del mercato (con la sua sovrastruttura liberal-democratica), una reazione dovuta alla naturale e universale allergia ad ogni ordine definitivo. La storia si fa a Teheran e a …


Lo studio all’estero, dalla A alla Z

giugno 24th, 2009 by Eleonora Corsini | 4 Comments

Lo studio all'estero, dalla A alla Z

La scelta per il futuro dello studente – questa grande sconosciuta! – spesso mette in crisi molti giovani. Le mille ed una porte che si aprono post-liceo o post- laurea breve si presentano come piccoli o grandi passaggi di un insidioso labirinto, il quale, pensate, può addirittura portarti  in paesi stranieri, vicini o lontani!
Personalmente ritengo che questa infinita varietà di scelte sia favolosa. Il lusso di potersi sedere di fronte ad un PC e, con l’ausilio del web, fantasticare tra le varie possibilità mi appare prezioso. Tanto più che ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le tasche!
Questo incipit molto ottimistico era necessario, perché ora dovrò scendere nei dettagli ed allora è importante sapere che il percorso da seguire per partire per l’estero può effettivamente risultare ostico.
L’enorme varietà spesso sembra più un disincentivo che un incentivo, dato che è facile perdersi tra le proposte e le idee suggerite. Le procedure per essere ammessi qui o là passano da varie tappe, uffici, burocrazie, applications  e chi più né ha più ne metta, che spesso mietono vittime lungo la strada: giovani volenterosi che si sono lasciati vincere dalle mille scartoffie e dagli uffici tipicamente italiani.
Pertanto vale la regola d’oro:  bisogna prenderla con filosofia (non saprei consigliare esattamente quale, ma sicuramente con filosofia) e sviluppare una notevole dose di pazienza, se – da italiano – si decide di andare a studiare all’estero.
Il che detto fra noi è una fortuna, dopo tutto, perché la pazienza, si sa, è la virtù dei forti! Quindi coraggio!
Dove vuoi andare? Inghilterra, Francia, Spagna, Germania….o addirittura al di là dell’oceano?
Andiamo con ordine.
Per i liceali esiste il programma di anno di studio all’estero, il quarto. Recentemente si è anche ampliata la possibilità di ricevere borse di studio, per maggiori informazioni: www.intercultura.it .
Per lo studente universitario esistono due programmi che permettono l’espatrio accademico: l’Erasmus ed il Free Mover . Il primo si rivolge a scambi intereuropei, copre gli eventuali costi dell’università dove farai il tuo scambio, e aggiunge una piccola borsa per un po’ di pocket money – meglio di niente. Il secondo si rivolge a scambi intercontinentali, e non offre nessun rimborso: si limita a consegnarti i fogli necessari per il riconoscimento crediti quando tornerai nel tuo paese.
Attenzione però… l’uno non esclude l’altro! Si può scegliere di farli entrambi!
Se invece si è prossimi alla fine del corso di studi e ci si vuole laureare all’estero, oppure se si è un futuro dottore (spesso è sufficiente la laurea breve) interessato a qualche master straniero, le possibilità abbondano e sarebbe impossibile – ed oltremodo inutile -  elencarle tutte, ma esiste un link capace di rispondere a molte domande: http://europa.eu/youth/studying/at_university/index_eu_it.html.
La prima cosa da fare tuttavia è capire come funziona il sistema universitario straniero.
La seconda è quella di selezionare una manciata, o poco più, di scelte.
La terza è quella di cominciare la procedura per l’ammissione.
Onde evitare spiacevoli sorprese, tipo quella di non essere ammessi, è  assolutamente indispensabile muoversi per l’iscrizione con largo anticipo. Almeno un anno.
Infatti molte università e master americani, inglesi, francesi e via dicendo hanno un sistema di iscrizione  diverso dal nostro, che passa attraverso selezioni e scadenze le cui deadlines  si pongono tra dicembre e marzo dell’anno precedente. Inoltre è necessario dimostrare di aver raggiunto un livello di conoscenza della lingua straniera tale da rendere possibile la frequenza e la comprensione dei corsi. Questo passa attraverso esami che riconoscono il tuo livello. Non valgono autocertificazioni, non vale nemmeno se si è madrelingua. Bisogna presentare il documento dell’esame, per maggiori informazioni: http://formazione.tipiace.it/corsi-lingue/esami-lingua.htm
Tutto ciò che riguarda il riconoscimento crediti, le equipollenze e i trasferimenti da questo o quell’istituto varia notevolmente non solo da paese a paese, ma anche – e soprattutto -  dallo studente.
Quindi bisogna rassegnarsi! Non troverai mai un sito che ti garantisce al 100%  di essere adatto a quel programma, o ammissibile in quello scambio, e che risponderà a tutte le tue domande.
A questo punto vale la seconda regola d’oro: insisti!
Dopo esserti imparato a memoria le “FAQ” (frequently asked questions)  del sito dell’università che ti interessa, non farti ulteriori scrupoli: domanda, chiedi, ritenta, richiedi, ma sempre con molta cortesia! Metti alla prova la tua capacità di scrivere a questo o quel Sir, Madam, Monsieur, Señor che sia e ricamare con gran sfoggio di buona educazione ogni tua richiesta.
Attento, però! Se chiedi qualcosa di cui esisteva la risposta nelle suddette  FAQ, passi per imbecille!
Ogni richiesta d’ammissione domanda generalmente: CV, o simile, certificato di lingua, 2 o 3 lettere di presentazione derivanti dal mondo accademico e positive (leggi: sii il pupillo di qualche professore!), una motivazione personale (per i master di ricerca anche un progetto di ricerca) ed i transcript dei voti.
Per quanto riguarda la motivazione, vale la regola di mostrarsi entusiasti e di spiegare oltre ai motivi per cui vuoi partire ed arricchirti culturalmente, i motivi per cui loro hanno pieno interesse ad ammetterti. Ovvero devi far capire loro che valore aggiunto porterai al loro istituto.
I transcript sono i voti ottenuti al liceo o all’università e per essere considerati validi necessitano di una traduzione giurata. Ovvero un traduttore ufficiale che fronte al giudice in tribunale giura che la traduzione è veritiera (esistono uffici appositamente predisposti, la procedura richiede da 15 giorni ad un mese).  Per maggiori informazioni: http://www.traduzioni-giurate.it/
Infine se il tuo intento è quello di prenderti un anno sabbatico, molti spunti al riguardo li puoi trovare su www.ef.com.  Libero poi di seguire l’associazione o meno, puoi divertirti a scoprire in quanti modi può essere speso il tuo anno di libertà!
Per ogni altra informazione e spunto, ti consiglio di leggere gli articoli e le testimonianze presenti in questo dossier, di chi prima di te è partito all’avventura!
Non mi resta che augurarti  in bocca al lupo, e ripeterti: filosofia, pazienza, perseveranza… ne vale la pena!
Disegno di Enrica de Natale


¡Qué viva Madrid!

giugno 24th, 2009 by Nicole Tirabassi | 3 Comments

¡Qué viva Madrid!

Circa un anno fa mi sono laureata in Studi Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche dell’ Università Roma TRE. Data la natura stessa del mio corso di laurea, consideravo l’incontro diretto con una cultura straniera come un ‘tirocinio’ indispensabile. Inoltre ho sempre avuto una stessa opinione sia della Spagna sia di un’esperienza di vita all’estero: qualcosa di unico e irripetibile, da affrontare nel modo più intenso possibile. Perché allora non conciliare le due cose con un Erasmus nel cuore palpitante della penisola iberica, Madrid?
Dopo essere miracolosamente riuscita a non affogare nella giungla burocratica di moduli da riempire e lettere da inviare per inoltrare la richiesta di borsa di studio, ancora  più miracolosamente quella borsa, poi, l’ho anche ottenuta: la mia destinazione sarebbe stata la UAM,  la Universidad Autónoma de Madrid.
Secondo problema da affrontare: la ricerca di un alloggio. Quest’ultima è stata da me portata avanti sulla base di una sola, ma inviolabile regola (senza la quale si sarebbe persa l’essenza stessa di un’ esperienza di intercambio): abitare solo ed esclusivamente con inquilini stranieri. Sfortunatamente gli appartamenti del campus erano già stati tutti prenotati, allora ho fatto ricorso ad Internet e tramite un annuncio sulla bacheca virtuale degli studenti della UAM ho fermato una stanza e preso persino accordi per un servizio di accoglienza all’aeroporto! Non mi restava che partire.
La UAM è, per mia grande fortuna, tra le università pubbliche più all’avanguardia della capitale spagnola: una vera e propria città dentro la città.
L’ organizzazione interna della didattica e delle lezioni prevede un unico, indispensabile, requisito: la frequenza. La presenza in classe, il lavoro di gruppo, il dialogo costante con i professori è il perno stesso su cui è concepita l’università spagnola; totalmente diversa, in questo, dagli atenei italiani, decisamente più improntati verso un approccio individualistico al mondo accademico.
A coronare il tutto, un’amplissima offerta allo studente di qualsiasi tipo di servizi e delle più svariate attività culturali e sportive: dai corsi di spagnolo, pensati appositamente per noi stranieri, ai numerosi laboratori informatici e postazioni telematiche; dai tornei di calcio, ai concorsi fotografici, alle visite organizzate nei principali musei e centri d’arte di Madrid e in altre città spagnole, alle immancabili feste e serate in giro per la città: il divertimento è ciò che i madrileni prendono più sul serio. Di più: è ciò su cui si fondano l’approccio stesso alla socialità.
Ad una coinquilina spagnola che, al momento della partenza, mi chiedeva cosa mi sarebbe mancato di più ho risposto: “ La gente e la notte”.
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Godete della bellezza del Guernica di Picasso e commuovetevi nei  tablaos ammirando uno spettacolo di flamenco. Brindate con una copa di birra alla calorosa accoglienza che vi viene riservata dagli spagnoli ovunque andiate e, perché no, fate un po’ di locuras  in qualche discoteca.
Insomma, una volta calati in questa nuova realtà, ci si trova davanti a due mondi diversi, ma allo stesso tempo complementari: una vita diurna cosmopolita e dinamica e un universo notturno fatto di luci, colori, sensazioni e odori, di innumerevoli ambientazioni, di uscite improvvisate e sempre diverse.
Ma attenzione: quest’aria divertente, frivola e senza pretese può rivelarsi allo stesso tempo l’aspetto più negativo di un’esperienza di questo tipo: adattarsi ad una dimensione così particolare come una città con questi ritmi di vita e lasciarsi trascinare da tutta questa improvvisa  libertà può lasciare frastornati e far perdere di vista le vere priorità se non il motivo stesso per cui si è arrivati lì.  Più di uno studente mi ha confermato che ciò che di più comune accade agli Erasmus a Madrid è che, paradossalmente, si ritrovano a non essere più Erasmus: presi da questo continuo andarsene de fiesta, smettono di frequentare l’università, trovandosi poi a non essere più in grado di portare avanti i loro studi lì, dovendo spesso tornare a casa prima del previsto, con l’amaro in bocca  per la delusione che hanno procurato a sé stessi.
Movida o no, gli esami – ahimé – prima o poi arrivano per tutti e il consiglio che mi sento di dare è di considerare, fin dal primissimo giorno, l’Università come un lavoro… per lo meno io me la sono cavata così!
Dovendo fare un bilancio personale di quest’esperienza, il mio è, a conti fatti, più che positivo: vivere all’estero comporta una crescita a livello sì culturale, ma soprattutto personale. Le responsabilità e gli impegni da portare avanti, così come tutte le persone e le culture con cui si è venuti a contatto, rappresenteranno un network indispensabile nel futuro e un bagaglio preziosissimo.
Buon Erasmus a tutti!


Italia-Berlino sola andata

giugno 24th, 2009 by Valentina Carraro | No Comments

Italia-Berlino sola andata

Il terzo giorno di lezione del mio primo anno di università mi sono ritrovata in coda davanti all’ufficio Erasmus del Politecnico di Milano. A settembre sono partita per Berlino e ora, quasi 2 anni dopo, sono ancora qui, intenzionata a restare, almeno per un po’. Come mai tanta fretta? Cosa c’è di tanto insopportabile nel vivere in Italia? Sono bastate 72 ore di università per decretare che la situazione era insostenibile? Proporrei di rovesciare la prospettiva: in fondo perché no?
Vivere all’estero è divertente, apre la mente, permette di scoprire città e paesi diversi dove le cose vanno diversamente. Può essere d’aiuto nell’imparare a sbrigarsela da soli, o nell’apprendere una lingua straniera. Infine si riesce a guardare se stessi, il proprio paese e le proprie abitudini da una certa distanza, o almeno ci si può provare. Ovviamente sono cose che si possono fare anche standosene a casa, ma almeno nel mio caso partire è stato d’aiuto e mi ha aiutato a capire alcune cose.
Per esempio, ho sempre creduto che gli italiani fossero considerati in generale un popolo simpatico, magari un po’ troppo rumoroso, ma comunque solare e socievole. Non è stato piacevole scoprire che invece tendiamo ad essere visti come un ibrido tra il Padrino, Rocky Balboa e Berlusconi: pigri, non troppo onesti e un po’ tamarri. Delle macchiette che nelle pubblicità rivendicano con accento improbabile la superiorità della nostra nazionale di calcio. Non parlo di razzismo, ma piuttosto di stereotipi superficiali, che risultano particolarmente spiacevoli quando sono rivolti verso di noi. Detto questo, Berlino è una città meravigliosa proprio perché, pur rimanendo in tanti particolari smaccatamente tedesca, ha accolto mille anime diverse, dai Turchi agli Arabi ai Polacchi agli Italiani. E per fortuna, perchè se kebab e felafel non fossero così facili da reperire sarei morta di fame da un pezzo!
All’interno di questa comunità di stranieri c’è un gruppo etnico particolare, gli studenti Erasmus. Escono tra di loro, a volte comunicano in inglese, a volte in una lingua ibrida tra lo spagnolo e l’italiano, a volte in un tedesco molto fantasioso. Vengono visti con diffidenza e sufficienza dalla popolazione locale e forse per questo come Erasmus è incredibilmente difficile “integrarsi”. Ma non c’è ragione di avere paura, non sono pericolosi. Per reazione, all’università come fuori, tendono a fare amicizia tra loro e senza dubbio riescono a divertirsi ugualmente. Perdonate l’euroentusiasmo, ma non è in qualche modo di buon augurio il fatto che “gli erasmus” si riuniscano, come in passato facevano i connazionali all’estero? Mi sembra che la cosa faccia ben sperare: questo genere di esperienze potrebbe aiutarci a diventare europei, al punto che in futuro vivendo all’estero non ci si senta poi così stranieri.
La cosa ovviamente funziona, almeno per il momento, solo se pensata all’interno di grandi città. Il nostro Paese, come tanti altri, ha non pochi pregi e molti difetti, ma una cosa che gli manca è una vera metropoli. Si ha l’impressione che ovunque sia un po’ provincia. Per fare un esempio, se ci troviamo nella metro a Milano e sentiamo qualcuno conversare in una lingua diversa dall’italiano (e dal dialetto bergamasco) tendiamo ad alzare lo sguardo. In una metropoli al giorno d’oggi questo non succede.
Riguardo all’università in termini più generici, è difficile farsi un’opinione e non credo di poter esprimere giudizi di valore. In parte perché, in Italia come in Germania, gli ordinamenti vengono cambiati con la stessa frequenza con cui certe persone cambiano i calzini; in parte perché è impossibile, partendo dall’esperienza personale, farsi un’idea generale di un sistema universitario. Ma anche in questo caso è interessante scoprire che non solo l’approccio a determinate materie può essere differente, ma anche il modo di rapportarsi con professori, dipartimenti e istituzioni. Qui è tutto molto più informale e diretto. L’importante è rendersi conto che il “nostro modo” non è l’unico e non è per forza il migliore.
L’idea di partire può fare paura. Lasciare casa, amici, famiglia e abitudini a cui si è affezionati spaventa. Niente più cornetto e cappuccino alla mattina (in compenso si può però ripiegare su un capucino o un cappucchino, e ogni volta rivivere l’emozione di non sapere cosa ci porteranno). Ma non vale la pena di farsi spaventare. Vivere all’estero nel 2009 è diverso da quello che immagino potesse voler dire emigrare nel 1948. Abbiamo internet, le e-mail, Skype, i social network, che ci permettono di comunicare con chi è rimasto a casa. Soprattutto in Europa prendere un aereo è diventata una cosa economica e normale, che, scrupoli ecologici a parte, si può fare molto frequentemente. Insomma non è poi così traumatico. Non vorrei suonare melodrammatica, ma lo studio all’estero è un’esperienza che davvero può cambiare la vita. Se si vuole poi si può sempre tornare indietro. Se si vuole.


Un armistizio tra le “Two Cultures”?

maggio 13th, 2009 by Marco dall'Olio | 4 Comments

Pochi giorni fa è ricorso il cinquantesimo anniversario della serie di lectures “The Two Cultures” , dell’accademico, scienziato e romanziere inglese C.P. Snow. Nei sui discorsi, consegnati alla Sala del Senato Accademico di Cambridge il 7 Maggio 1959, il chimico/scrittore esponeva ciò che vedeva profilarsi come principale ostacolo nell’orizzonte del dialogo intellettuale, e cioè la sempre crescente distanza tra cultura scientifica e cultura umanistica.
Questa distanza, sostiene Snow, non è fatta solo di metodologie ed attitudini differenti, bensí deriva da due weltanschaaung opposte ed in rotta di collisione. Da una parte il relativismo degli scholar umanistici, per i quali la realtà è una costruzione sociale, una ragnatela narrativa di simboli che noi stessi tessiamo, e dall’altra il realismo scientifico con il suo constante sforzo descrittivo, che presuppone una realtà oggettiva e quantificabile. Ovviamente queste due ideologie sono incompatibili, e senza uno spirito di dialogo e riconciliazione, il futuro vedrà solo innalzamento di barriere. Soprattutto perchè la Scienza, nel suo costante progresso, non avrebbe tardato molto ad “invadere” il campo di studio della controparte, cioé gli esseri umani, e se le humanities non fossero pronte ad adattarsi, tanto peggio per loro.
Le lectures, raccolte nel libro “The Two Cultures and the Scientific Revolution”, sono state incluse dal Times Literary Supplement nella lista dei cento libri più influenti del secolo scorso, ed hanno immancabilmente sollevato nella cultura anglofona una quantità poderosa di dibattiti, controversie e reazioni al vetriolo. Le lectures hanno certo il pregio di aver predetto con chiarezza e lucidità svariati fenomeni emergenti, come lo sforzo riduzionistico di numerose scienze nei confronti dell’essere umano. Ma questo è solo un pregio intellettuale, non certo un merito. Infatti oltre che descrivere lo stato del dialogo, Snow ha anche stabilito uno standard della retorica positivista ed anti-intellettuale che è rimasto più o meno inalterato nel corso di questo mezzo secolo.
Ad oggi infatti, il lato scientista della barricata infatti vede le lectures come momento fondante nel processo di auto-identificazione dell’emergente e predominante cultura scientifica. Il momento in cui la Scienza si è resa conto di essere la voce più grossa nell’arena accademica. L’altro lato invece vede Snow come la prima manifestazione di un odio rozzo e volgare, che rispecchia la malcelata sufficienza riservata dalla Grande Scienza verso qualsiasi attività intellettuale che esuli dai suoi metodi e canoni. Ragionare soggettivamente sulla condizione umana è uno spreco di energie, dal momento che non c’è alcun modo di verificare le proprie affermazioni. Studiare i classici ed analizzare altre culture è improduttivo ed inefficace. Gli studi umanistici non producono nuove tecnologie, ne descrizioni consistenti e verificabili della realtà. Non fanno parte del progresso. E a chi sostiene che allarghino la mente, trasformando droni del consumo in esseri umani consapevoli e capaci di apprezzare il dono dell’esistenza, la Grande Scienza fa orecchie da mercante, poiché tali effetti non sono misurabili, quindi per definizione al di fuori della sua considerazione. E non c’è da meravigliarsi se tutte le università del mondo stiano seguendo l’esempio americano di tagli su tagli verso i dipartimenti umanistici. I dipartimenti che non producono ricchezza, che non aumentano la produttività.
Ad essere sinceri, prendendo in mano un textbook standard di “lit crit” o filosofia post-moderna, le critiche mosse dalla retorica scientista sembrano azzeccate. Un senso di profonda inutilità emerge fra le righe. Decostruttivismo, teorie psicoanalitiche, antropologia culturale o travisate reinterpretazioni del compagno Marx che regnano in questi angoli dell’accademia possono dare la sensazione di una corsa sul posto, di leziosi giochi verbali privi di rilevanza, la cui unica funzione, oltre che fornire validazione intellettuale agli autori, è ingrossare una letteratura accademica autorefenziale, gratuita e slegata dalla realtà.
Ma questo di per sé non significa nulla. Se è vero che gli studi umanistici non hanno alcun “potere predittivo” e non sono in grado di produrre affermazioni quantificabili e verificabili sugli esseri umani, ciò non toglie nulla alla loro utilità soggettiva, alla loro capacità di ampliare la comprensione della condizione umana. Perché spiegare la realtà non è tutto ciò che possiamo o dobbiamo fare. Possiamo e dobbiamo anche vivere, vivere nella modo più pieno e consapevole possibile, e questo vale per chiunque, scienziati inclusi. Ed è proprio questo valore che la Grande Scienza non riesce a riconoscere. Leggere Aristotele o Virginia Woolf, studiare i precetti del Buddha o la filologia biblica forse non aumenterà la produttività del paese, ma di certo migliorerà la tua esistenza. E a chi dice che questo è puro egoismo, che bisogna dare apporti produttivi alla società per essere considerati interlocutori degni di rispetto, basta rispondere che la cultura produce beni più rilevanti di quelli materiali. La cultura produce consapevolezza ed umiltà, e queste a loro volta producono esseri umani migliori. Ovviamente la cultura non è una panacea universale, non è sufficiente di per sé. A dimostrazione di questo ci sono le sterminate schiere di intellettuali elitisti, gretti e megalomani. Ma seppur incompleto, resta un ingrediente fondamentale di qualsiasi vita ben vissuta.
Questa è forse l’unica plausibile breccia nella barricata. Capire che abbiamo bisogno di entrambi i lati della medaglia, dell’oggettività e della soggettività, del descrivere il mondo e noi stessi, ma anche di realizzare il nostro ruolo in esso. Conoscenza da una parte e saggezza dall’altra, una dicotomia che dovremmo abbracciare in pieno. E dire che basterebbe poco, solo un pizzico di arroganza in meno da entrambi i lati. Forse un’utopia irrealizzabile a livello sociale, ma di certo una posizione più che opportuna da prendere individualmente.


EUI: European University Institute

maggio 13th, 2009 by Giacomo Marconi | No Comments

L’Istituto Universitario Europeo è un istituto di alta formazione, unico nel suo genere, che Firenze ha l’onore di ospitare. L’Istituto è stato creato nel 1972 dai sei Stati Membri fondatori delle Comunità Europee con la missione di favorire l’avanzamento della cultura in campi di particolare interesse per lo sviluppo dell’Europa.
L’Istituto opera attraverso quattro Dipartimenti (Storia, Scienze Giuridiche, Scienze Economiche e Scienze Politiche e Sociali, cui si affianca un Centro Ricerche di Studi Europei denominato Centro Robert Schumann) frequentati da circa 600 ricercatori, provenienti in prevalenza da Paesi dell’Unione Europea, ma anche da altre aree geografiche, che conseguono Dottorati di Ricerca di altissimo livello.

Il Dottorato conseguito presso l’European University Institute costituisce infatti un titolo di grande prestigio, se si pensa che il Dipartimento di Scienze Politiche è stato classificato al quinto posto su scala mondiale nella classifica della London School of Economics, ed il Dipartimento di Scienze Economiche è considerato negli Stati Uniti fra i primissimi su scala europea.
Oltre a svolgere attività accademica e di ricerca post laurea e post dottorato secondo un approccio europeo, l’Istituto mette a disposizione un’amplissima biblioteca il cui materiale ben rappresenta le problematiche europee e che raccoglie oltre 3000 riviste stampate, circa mezzo milione di libri inerenti alle materie di cui si occupano i suoi quattro dipartimenti e consente l’accesso a più di 8500 riviste elettroniche. Gli Archivi Storici dell’Unione Europea, attualmente ubicati presso la Villa del Poggiolo, verranno presto ospitati nella vicina Villa Salviati.
Il Dott. Marco Del Panta Ridolfi, Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo, parla della storia di questa istituzione, di quali sono i suoi campi d’interesse e delle modalità con cui l’Istituto persegue i suoi obiettivi, senza trascurare le condizioni di ammissione e selezione dei candidati e le prospettive che offre ai suoi studenti.


La crisi della scuola

aprile 13th, 2009 by Riccardo De Santis | 13 Comments

La crisi della scuola

Aprile è il più crudele dei mesi: e per quel che riguarda la scuola il verso iniziale della Waste Land è veritiero; si inizia, infatti, a scorgere la fine dell’anno e, contemporaneamente, si dà il via alle consuete polemiche sulla qualità educativa in Italia.
Certo, i risultati delle ricerche dell’OCSE non sono particolarmente incoraggianti: solo un italiano su cinque avrebbe raggiunto il livello 3 per “le competenze della vita” offerte dalla scuola.
Il primo punto in cui ci si imbatte è la secolare disparità che esiste tra nord e sud: dato probabilmente vero, ma che rientra evidentemente in un discorso più ampio, dove la condizione della scuola nella parte meridionale della penisola è solo la punta dell’ iceberg. Sarebbe caldamente auspicabile una seria politica di rilancio e sviluppo del Mezzogiorno su ogni piano, non solo quello scolastico: cosa che viene regolarmente promessa e mai mantenuta.
Il problema di fondo resta comunque diffuso su tutta la penisola e riguarda in primo luogo la qualità della didattica, che in alcuni –rari- contesti è ottima, mentre troppo spesso è per così dire “marcia”, “improduttiva”.
Si sente parlare di insegnanti fanulloni, incapaci e frustrati; siamo, ancora una volta, nell’ambito delle generalizzazioni, però esse ci portano di fronte a una grande verità culturale tutta italiana: insegnare è considerato un brutto lavoro, un impiego di scarto, l’ultima scelta. Queste posizioni sono tanto pericolose quanto diffuse. Proviamo a chiedere a cento studenti universitari quanti di loro vorrebbero insegnare “da grandi”: credo che meno di cinque dicano con entusiasmo di essere interessati col cuore a questa attività. Questo ripudio nei confronti di uno dei lavori più importanti –almeno a livello sociale- è una questione tutta italiana: in Europa senza raggiungere l’estremo opposto – cioè un impenetrabile “er professor”- è un impiego considerato con dignità nella maggior parte degli Stati, raggiungendo in alcuni una posizione invidiabile o, comunque, di prestigio.
Quali le cause? Tra le moltissime, un dettaglio tanto inflazionato nei “discorsi da bar”, quanto trascurato dalle scelte politiche: stipendi veramente bassi! 1200 euro al mese –primo stipendio alle superiori per raggiungere poi un invidiabile 1750 a fine carriera- per una persona che deve avere ottenuto una laurea triennale, una biennale, due anni di scuola di specializzazione sono un po’ pochini, al di sotto della media europea, soprattutto per gli ultimi anni di lavoro.
Il fatto di essere sottopagati comunque non giustifica la presenza nelle scuole di insegnanti inetti. Il fatto che l’insegnamento sia considerato un lavoro di scarto e malpagato sortisce una sorta di brain drain : i migliori di ogni ambito fuggono questa professione. Conseguenza: molti insegnanti incompetenti. Eppure anche parlando di alcuni docenti estremamente preparati si finisce col non avere una buona opinione lo stesso: infatti, tra sapere e sapere insegnare c’è una bella differenza. Più che mandare ispettori a valutare la didattica, come consigliava Roger Abranavel dalle colonne del Corriere, suggerirei di creare scuole serie per l’insegnamento in grado di insegnare a insegnare: non basta essere laureati in algebra per fare lezione di matematica al liceo, come non basta essere una grande filologo per insegnare greco e latino. Le competenze di questi due esempi di laureati sono più che sufficienti, ma probabilmente manca la capacità di spiegare a ragazzi di quattordici anni greco e matematica in modo tale da rendere appetibili due materie così complesse. Questo è il punto: l’insegnante è un divulgatore, un comunicatore (nell’ambito liceale) e la sua grande abilità deve essere legata alla sfera della comunicazione di quanto ha studiato. Bisogna scindere la figura dello studioso da quella dell’insegnante. Vero è che l’insegnante deve studiare, ma si tratta di un tipo di studio diverso da quello accademico-scientifico: è uno studio attivo, estremamente vitale, perché il suo fine è quello di rendere divulgabile quanto si è studiato, non di raggiungere un’alta precisione scientifica. Queste “scuole per docenti” devono essere ben lontane dalla tristezza che pervadeva le vecchie SSIS e SILS, dove si vendeva un po’ di psicologia e un po’ di materie di indirizzo, in modo svogliato e inconcludente.
Sarebbe auspicabile una laurea magistrale rivolta proprio all’insegnamento. Per un liceo le nozioni offerte da una laurea triennale sono più che sufficienti!
Ogni riforma della scuola è stata accolta con grande disgusto dagli insegnanti e, sinceramente, non penso per gretto conservatorismo da parte del personale docente.
Si è trattato, quasi sempre, di riforme calate dall’alto da parte di figure che con la scuola c’entravano molto poco; ministri che col campo educativo avevano pochissimo a che fare, molto di meno anche dei più impreparati tra gli insegnanti che, nel bene e nel male, la mattina erano dietro la cattedra a fare il proprio dovere.
Nonostante le grandi necessità di riforma in cui si ritrova la scuola italiana, tutto sommato conviene sperare che in questi anni non vengano apportati drastici cambiamenti all’istruzione: è meglio che la situazione non venga toccata da chi ha affermato che gli orizzonti culturali devono coincidere con le mitiche “tre i” (inglese, internet, impresa).


O si cambia o si muore. L’Università italiana a 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle Specie.

aprile 11th, 2009 by Rocco Polin | 5 Comments

O si cambia o si muore. L’Università italiana a 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle Specie.

Lo stato dell’Università italiana è miserabile. Su questo direi che siamo tutti d’accordo. Un giovane italiano di belle speranze ha due possibili scelte: rimanere in Italia e laurearsi in un’Università di serie B (o più spesso serie C) o andare all’estero. Nel primo caso sceglie consapevolmente di rimanere a marcire nella periferia dell’Impero nel secondo caso presto o tardi si troverà a dover scegliere tra un esilio permanente e un ritorno umiliante in un paese che non lo saprà ne vorrà valorizzare.
Ultimamente gli studenti Italiani si sono mobilitate contro la riforma Gelmini. Trovandomi in California ho seguito come ho potuto la mobilitazione. La riassumerei così. Ci siamo mobilitati per una ragione giusta ma non cruciale che aveva il vantaggio di essere facilmente comprensibile e condivisibile per tutti (no ai tagli nei finanziamenti). Una volta mobilitati abbiamo finalmente cercato di parlare anche dei problemi veri dell’Università (che fin dall’inizio sapevamo non essere legati alla mancanza di soldi), ovvero le baronie, i concorsi truccati eccetera. La mobilitazione, per sua natura ampia e variegata, è presto diventata oggetto di strumentalizzazioni politiche (da sinistra) o ridicoli rigurgiti fuori dal tempo (i comizi di Scalzone o i proclami degli anarchici). Naturalmente i media erano decisamente più interessati a Scalzone o alle dichiarazioni di Veltroni che ai problemi della nostra Università. Alla fine, come al solito, tutti si è sgonfiato e la nostra mobilitazione rischia persino di aver portato acqua al mulino di coloro che di questa Università disastrosa non vogliono cambiare nulla, preservando un sistema che fa acqua da tutte le parti ma che garantisce ad alcuni potere e prestigio.
Io credo che l’Università Italiana sia in una situazione tale da aver bisogno non di una serie di riforme ma di una rivoluzione. E che l’unica possibilità di provocare questa rivoluzione in un sistema conservatore e immobilista come il nostro sia l’immediata abolizione del valore legale del titolo di studio e l’introduzione di un crudele sistema di numero chiuso al fine di creare (diciamocelo senza ipocrisie) delle Università di serie A e delle Università di serie B (perché è chiaro che senza serie B non ci può essere una serie A).
Mi dite che la selezione finirà per rispecchiare in gran parte una selezione di classe? Che passeranno solo i privilegiati figli di buona famiglia con una solida cultura alle spalle, iscritti dai genitori al Liceo Classico del centro e mandati in Inghilterra d’estate a studiare l’inglese? E sia. Se le nostre scuole elementari, medie e superiori non sono state in grado di colmare questo gap non si può pretendere che lo faccia l’Università. Tanto più che la selezione avviene comunque, inevitabilmente, ora in modo ancora più subdolo e fascista in quanto è una selezione invisibile, che si basa sui contatti, sulle raccomandazioni, piuttosto che su esami di ammissione almeno formalmente eguali per tutti.
Mi dite che le poche Università di serie A attireranno tutti i finanziamenti e tutti i migliori professori facendo si che la serie B si trasformi presto in serie C? E sia. Lo scopo della serie A in fondo è proprio questo. Naturalmente poi starà allo Stato provvedere adeguatamente al finanziamento delle Università di serie B, compito reso più facile nel caso alcune Università di eccellenza siano ormai in grado di mantenersi attraverso donazioni e finanziamenti privati. Si può inoltre sperare che la presenza sul territorio nazionale di alcune Università di eccellenza possa avere effetti di spill over anche sulle altre. E se questo non dovesse succedere amen..
Mi dite che sto proponendo una riforma di estrema destra? E sia. Non so se come dice Giavazzi il merito (come la doccia e la mortadella secondo Gaber) sia di sinistra. Probabilmente ha ragione Bobbio, la sinistra è innanzi tutto eguaglianza e allora questa mia riforma è evidentemente di destra. Me ne frego (tanto per rimanere in tema..). Se vogliamo che l’Italia torni ad essere una nazione rilevate, credo che questa riforma sia necessaria.
Esattamente un secolo e mezzo fa Charles Darwin, il più importante ideologo di destra e forse il più grande filosofo di tutti i tempi, scriveva “nothing is easier than to admit in words the truth of the universal struggle for life, or more difficult than constantly to bear this conclusion in mind”. E’ ora di fare i conti sul serio con questa verità, tanto più rilevante da quando l’Università è diventata di massa. Scrive sempre Darwin “a struggle for existence inevitably follows from the high rate at which all organic beings tend to increase”. “The great battle for life” è una verità innegabile, se in Italia ci rifiuteremo di combatterla condanneremo il nostro paese all’estinzione, intellettuale e politica.


Cambiare tutto per non cambiare mai

novembre 10th, 2008 by Pamela Campa | No Comments

Cambiare tutto per non cambiare mai

Dopo l’approvazione del decreto Gelmini e degli altri provvedimenti che s’inquadrano nel progetto di riforma del sistema di istruzione italiano, alcune cose cambieranno. Alcuni cambiamenti saranno irrilevanti (valutazione del comportamento espressa in decimi nella scuola primaria); altri avranno effetti diretti e indiretti considerevoli (l’istituzione del maestro unico operativo per 24 ore la settimana influenzerà direttamente la disponibilità di tempo pieno presso le scuole italiane, indirettamente il tasso di occupazione delle madri di bambini in età scolastica). Molti di questi cambiamenti avranno un costo. Tra tutti, credo che il più alto sia il costo opportunità della riforma in fieri. In un momento particolarmente teso della vita economica e sociale italiana e internazionale, in cui tante sfide devono essere affrontate e decisioni importanti devono essere prese, governo e opposizione si sono scontrati ferocemente sul decreto Gelmini, i ragazzi sono scesi in piazza, le famiglie hanno organizzato fiaccolate, le forze di polizia sono state scomodate. Tante energie, capitale fisico e umano sono stati spesi per o contro qualche provvedimento senza alcuna conseguenza, qualcun altro di portata rilevante, nessuno però mai all’altezza, per forza d’urto e innovazione, dei cambiamenti che la nostra scuola e universita’ richiederebbero.
Questo è il vero costo del decreto Gelmini. Tanto dire, scrivere, proclamare, protestare, per nulla. Il tempo, le energie, lo spiegamento di forze, l’attivismo del governo, l’affaccendamento della ministra, sarebbero potuti essere impiegati per far altro.
Per intervenire sui pochi punti deboli della scuola elementare italiana, prima per qualità in tante classifiche internazionali, ma con un difetto a mio avviso ormai non sopportabile: il mancato insegnamento in modo sistematico, efficace e proficuo dell’inglese. L’arretratezza dell’Italia per percentuale di popolazione che parla fluentemente l’inglese limita le possibilità di crescita degli individui, che non possono come lavoratori, studenti, viaggiatori, beneficiare degli effetti straordinariamente positivi che il confronto internazionale comporta; e penalizza inoltre le possibilità di crescita della stessa Italia: non raramente ho ascoltato lamentele di cittadini stranieri in visita nel Bel Paese, che si sono innamorati del bello di cui siamo maestri, e che come innamorati che non riescono a comunicare tra loro hanno sofferto per le difficoltà ad ordinare una buona lasagna al ristorante, o a chiedere informazioni ad un vigile urbano per visitare una bellissima piazza da qualche parte in città.
Queste energie sarebbero potute essere usate per introdurre gli incentivi nella scuola e nell’università italiane. Portare il mercato nell’istruzione non significa privatizzare gli istituti e le università; significa riprodurre nelle scuole e nelle università quella concorrenza e meritocrazia che fanno sì che in un sistema di mercato ben funzionante chi fa bene sia premiato, e chi sbaglia paghi. Esistono vari modi per creare i corretti incentivi, che non hanno nulla a che vedere con la privatizzazione. Nella scuola, si potrebbero mettere a punto dei sistemi di verifica dei progressi degli alunni, che tengano conto del punto di partenza degli stessi, magari confrontando i risultati realizzati in varie discipline insegnate da docenti diversi (il maestro unico rema contro questa possibilità). Nell’università, i docenti potrebbero essere assunti e retribuiti sulla base di criteri oggettivi di produttività (non è impossibile trovarne di efficaci: ad esempio, l’istituzione IDEAS -  http://ideas.repec.org/ – aggiorna ogni mese un ranking di professori in Economics, sulla base del numero di pubblicazioni, i lavori citati, la qualità delle pubblicazioni stesse; un’idea di questo tipo potrebbe essere estesa a diverse discipline e integrata con altri criteri di valutazione, tra cui le performance nell’insegnamento).
Tutto quel lavoro sarebbe stato utile per mettere a punto un sistema di incremento della spesa per ricerca e sviluppo in Italia. Nel 2006 la percentuale di spesa pubblica italiana in ricerca è sviluppo sulla spesa pubblica totale è stata dello 0,61%, contro una media dell’Europa a 15 dello 0,78% (Fonte EUROSTAT). In generale il finanziamento pubblico della ricerca è imprescindibile, in quanto bene di merito, i cui benefici sono cioè sociali, non strettamente privati, e per questo è ragionevole che anche i costi lo siano. In Italia la “mano pubblica” è ancor più imprescindibile, in virtù di un tessuto imprenditoriale basato soprattutto sulla piccola impresa, che non ha le risorse necessarie per gli investimenti in ricerca avanzata all’altezza di un Paese sviluppato. La Svezia, che ha la quarta percentuale di spesa pubblica in R&D al mondo, sta progettando un’espansione della stessa, come principale e prioritario intervento contro la crisi economica internazionale.
Tutto questo sarebbe potuto essere. Ma non è stato, e non sarà. Alcune cose cambieranno, per lasciare invariate le più, e la crisi economica incalzante rischia di rendere questo immobilismo fatale.
Se è stato chiaro a tutti che bisognava salvare le banche per salvare il sistema economico intero,  perché non è chiaro che bisogna salvare l’istruzione per non far mancare linfa vitale all’intera società?



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