“Ma io per il terremoto non do nemmeno un euro…”

aprile 26th, 2009 by Redazione | 1 Comment

Segnaliamo ai nostri lettori una breve e provocatoria analisi della gestione del sisma in Abruzzo. Al di là di condividerne o meno l’impostazione generale, il testo contiene diversi interessanti spunti di riflessione:
Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.
Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no – stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare.
Non do un euro perché è la beneficienza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, purtroppo, la beneficienza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull’orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l’uno con l’altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro.
Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l’economia del nostro Paese.
E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella.
C’è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato – come tutti gli altri – da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n’era proprio bisogno?
Avrei potuto anche uscirlo, un euro, forse due. Poi Berlusconi ha parlato di “new town” e io ho pensato a Milano 2 , al lago dei cigni, e al neologismo: “new town”. Dove l’ha preso? Dove l’ha letto? Da quanto tempo l’aveva in mente?
Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce “new town”. E’ un brand. Come la gomma del ponte.
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme – da generazioni – gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.
Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente.
Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima?
Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L’Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo.
Ecco, nella nostra città, Marsala, c’è una scuola, la più popolosa, l’Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d’affitto fino ad ora, per quella scuola, dove – per dirne una – nella palestra lo scorso Ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco!! Non il terremoto! Lo scirocco! C’è una scala Mercalli per lo scirocco? O ce la dobbiamo inventare?) il controsoffitto in amianto.
Ecco, in quei milioni di euro c’è, annegato, con gli altri, anche l’euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto.
Stavo per digitarlo, l’sms della coscienza a posto, poi al Tg1 hanno sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, …


Lettera al Presidente

aprile 20th, 2009 by Redazione | No Comments

Lettera al Presidente

Caro Presidente,
mi chiamo Armando Di Giorgio e sono un abitante di una piccola cittadina vicino L’Aquila. Il suo nome è Popoli, ridente, rigogliosa, tradizionale, tranquilla.
Un primo appello che vorrei rivolgerle, e che spero possa stimolare la sua attenzione, riguarda la centralità che in questi giorni nefasti L’Abruzzo, e L’Aquila in particolare, stanno giustamente avendo dalla collettività nazionale nel suo complesso. Ci riempiono di gioia gli attestati di affetto, le manifestazioni di vicinanza e tutte le azioni concrete di solidarietà che il Paese ci sta tributando. Non ci fanno sentire soli in questi momenti di paura e, troppo spesso, di lutto. Sentiamo su di noi un’attenzione mai sperimentata prima, ci sentiamo premiati da una luce che mai i riflettori nazionali ci avevano concesso.
Dunque, in questo senso, il mio appello è duplice ed è, primariamente, rivolto alla necessità che questi riflettori non si spengano, come sempre avviene, quando l’attenzione mediatica verrà a scemare, perché è questo quello che avviene quando la tragedia non fa più notizia.
In secondo luogo, vorrei strapparle una promessa per l’impegno a porre finalmente al centro delle politiche pubbliche nazionali una regione che, come le dicevo poc’anzi, molta parte dell’Italia sta scoprendo in questi giorni. Mi creda quando le dico che la mia – ormai nostra – Regione è stata spesso trascurata dall’impegno pubblico nazionale, quell’impegno capace di costruire strade, ospedali e scuole d’eccellenza, potendo contare sul fatto che l’abruzzese non si lamenta, non alza la voce, accetta e tira dritto. E se avesse bisogno di un esempio di quanto dico, le posso offrire come testimonianza la straordinaria ricchezza del nostro paesaggio – mare, montagna e collina – che mai, mi creda mai, ha avuto un inquadramento o è stato oggetto di una riflessione di respiro nazionale al fine di essere organizzata e valorizzata come attrazione turistica per lo straniero. Se pensa che il treno che collega la capitale a Pescara impiega quasi quattro ore, capirà come un turista possa risultarne facilmente scoraggiato. Ma non vorrei ridurre tutto ad una mancanza di attenzione in ambito turistico e vorrei estendere la riflessione alla scarso sostegno pubblico all’industria o anche al terziario, laddove, se comparato con altre regioni dello stivale, quelle che godono più spesso dei cosiddetti “riflettori” perché riescono ad alzare più di noi la voce, ebbene, è di molto inferiore, se non altro nella sua percezione collettiva.
Quel poco – o tanto, dipende dai punti di vista – che c’è, si è costruito da sé, spesso senza infrastrutture o fondi nazionali che lo sostenessero.
Adesso, e questo lo pensiamo tutti, è il momento di porre al centro la nostra regione. Ora tocca a noi. È necessario che tutti remino nella direzione che mira a tradurre una immane sciagura in una occasione per un rilancio, anzi per un lancio, perché prima non c’era stato nessun trampolino. L’Aquila deve diventare il fiore all’occhiello dell’intera nazione, deve diventare l’esempio di come si riorganizza una città, di come la si faccia risorgere dal nulla in modo efficiente, condiviso, ma soprattutto brillante.
È una sfida che lei deve imporre alla sua classe politica, al presidente del consiglio e ai suoi ministri. Dica loro che è nella ricostruzione e nel decollo di questa regione che si misura quanto la loro presenza sui luoghi del terremoto fosse strumentale o, al contrario, fosse sinceramente sentita, ricordando, anche, che non ci si può vantare di essere stati vicini alla nostra popolazione in questo momento, è un dovere, a meno che non si parli di sciamani e non di politici.
Mi permetta, in conclusione di questa epistola, di sollecitarla su un ultimo punto che riguarda il mio paese, Popoli, in provincia di Pescara. Nonostante la vicinanza all’epicentro (30 km) ed il livello di danni subiti dal terremoto – del quale troverà facile informarsi – non siamo ancora stati inseriti tra i comuni colpiti, quando, allo stesso tempo, paesi più distanti (e conseguentemente meno colpiti) della provincia de L’Aquila sono stati immediatamente inclusi. Questo ci ha precluso un’attenzione maggiore in questi giorni, in termini di soccorso, di costruzione di tendopoli e di tanto altro.
Non vorrei che questioni amministrative – nello specifico la nostra appartenenza ad un’altra provincia – possano creare dei ritardi in tutto ciò che c’è da fare. Se non altro vorremmo la prova che quelle politiche decisionali, quelle meramente orientate alle gestione dei fondi, possano essere messe da parte in questi momenti. Spero che lei possa aiutarci in questo senso.
La ringrazio per l’attenzione e la saluto con affetto.
Armando Luigi Di Giorgio


Là dove non batte il sole

febbraio 8th, 2009 by William Sbrega | 8 Comments

Là dove non batte il sole

Quando a febbraio 2008 l’ex-sindaco di Catania Scapagnini si dimise, le strade erano buie e gli angoli erano intasati dalla spazzatura perché non c’erano soldi per pagare le bollette della luce e i netturbini erano in sciopero. La città all’ombra del vulcano era sull’orlo del fallimento e i cittadini si chiedevano com’era possibile che quell’amministrazione disastrosa avesse accumulato debiti per circa un miliardo di euro (stimati). Sui giornali nazionali la notizia passò quasi inosservata, così come passò inosservata l’elezione del famigerato Scapagnini alla Camera dei deputati. Tutti i 300.000 abitanti, esclusi i netturbini che non ricevevano lo stipendio da mesi, si preoccupavano maggiormente delle sorti del Catania Calcio che della politica locale e si preparavano alla consueta torrida estate che ogni anno nasconde tutti i problemi sotto un cumulo di sabbia. E se già gli italiani avevano poco di cui lamentarsi, ancor meno si preoccupavano i colossi bancari mondiali, che bene o male nelle beghe della casta italiana non ci si sono mai infilati. Pochi euro su Napoli (2492 euro di indebitamento per abitante), zero su Catania (3367 euro, quasi fallita), zero su Taranto (3402 euro, fallita). Perché anche le banche, come Cristo, si sono fermate ad Eboli. Perché gli enti locali italiani, e in particolare quelli meridionali, sono molto rischiosi, anche dal punto di vista reputazionale. Pizza, mandolino e mafia, altro che Scandinavia. Eppure…
Eppure, quando ho iniziato a scrivere il mio articolo, il sole era sorto da appena un’ora, in Islanda. Quando lo finirò, sarà già tramontato. Credo che basti questo motivo per non investire anche un solo euro in quella nazione. E non solo.
L’Islanda è un’isola dimenticata da dio e da tutti, situata nell’oceano Atlantico a soli 60 km dal circolo polare artico. Questo è per non farvi confondere con l’Irlanda, dove però, in compenso c’è più freddo, data la mancanza dei vulcani e della corrente del golfo, ben bilanciati dall’ (ab)uso di alcol da parte degli indigeni. Ora tutti penseranno: “ma che dice questo? L’Islanda dev’essere una terra bellissima, affascinante!”. Vabbè… scagli la prima pietra chi è stato in Islanda. In ogni caso non è questa nazione bellissima l’oggetto dei miei insulti. Il numero degli abitanti è più o meno quello di Catania, ma non è l’unica somiglianza: anche la lingua locale è molto simile a quella etnea. Infatti, uno dei proverbi islandesi più famosi, “Margur verður af aurum api” è facilmente comprensibile in Sicilia. Del resto sono entrambe regioni conquistate in passato dai normanni. In più anche Catania ha un vulcano e anche Catania ha il mare. Insomma, una faccia una razza, come direbbe il Turco del film premio oscar “Mediterraneo”.
L’ultima cosa che hanno in comune è il quasi-fallimento, mentre molto meno simile è il motivo che li ha portati a questo. Se mentre per Catania si può parlare di amministrazione incapace, e quindi di cause endogene, in Islanda il fallimento l’ha portato in dono la globalizzazione, come l’aviaria.
Come ogni paese del mondo, la giovane Islanda emette titoli di stato, quindi si indebita, per rifinanziare il debito esistente, per pagare pensioni, sanità e quant’altro. I suoi titoli sono sempre stati considerati molto solvibili e liquidi, specialmente grazie al PIL molto alto (circa 13 miliardi di dollari nel 2006) e per la sua elevata crescita negli ultimi anni. Gli analisti, davanti a un monitor, ma in assenza di una cartina geografica, avevano imparato a conoscere il paese e col tempo avevano iniziato a leggere ogni anno un solo dato: PIL cresciuto del 6%, del 8%, del 5%, ecc… e questo gli bastava. Quando poi si sono accorti anche che, per dare un taglio all’inflazione galoppante e per impedire ai cittadini di indebitarsi in maniera eccessiva, il direttore della Banca centrale Islandese aumentava costantemente i tassi d’interesse di riferimento, hanno deciso di far scattare il giochetto del Carry trade. Il carry trade è l’operazione più semplice e redditizia del mondo, se si è in grado di farla: prendi in prestito denaro in Giappone, dove i tassi sono sempre tra lo 0% e lo 0,5%, e lo investi in paesi come l’Islanda, dove i tassi sono arrivati anche molto vicini al 15%, prima di essere portati al 18% dal FME. Stesso gioco si fa con Nuova Zelanda, Ungheria e Turchia. Soldi facili, insomma.
« Margur verður af aurum api ».
Nel fratempo, il debito dello stato saliva, e saliva anche quello delle uniche 3 banche islandesi, la Glitnir, la Kaphting, la Landsbanki (chissà se Catania ha 3 banche… E soprattutto, se sì, come si chiamano?). Prima del collasso il loro debito ammontava a nove volte il PIL dell’intero paese! Avevano investimenti in tutto il mondo e tutto il mondo aveva investimenti lì. Ma un bel giorno di settembre mi svegliaiiii, il buio della notteeee…. (i nomadi tornano sempre di moda).
La liquidità svanì. Il carry trade? Puffff
La Glitnir fu la prima, a cadere. Una sua emissione andò per metà invenduta e a quel punto erano necessari più di 600 milioni di dollari cash per sopravvivere. Anche perché la corona islandese nel frattempo aveva più che dimezzato il suo valore rispetto alle più importanti valute del mondo. Allora lo stato tentò di nazionalizzarla al 75%, ma l’FME (l’Autorità Finanziaria islandese) lo impedì, perché il governo aveva già un ammontare di debito pubblico in essere superiore al normale. Vi ricordate i 3367 euro di debito per abitante di Catania? Ogni Islandese ne ha ad oggi ben 160.000 a capoccia. Poi venne il momento della Landsbanki e della Kaphting, sommerse da debiti che ormai, data la situazione del settore bancario mondiale, nessuno era più in grado di rifinanziare. Molti di quelli che prima credevano di far soldi facili avevano da tempo abbandonato l’isola. Gli altri, protagonisti di un “Lost” ancora più intrigante e burocratico, erano rimasti con le pive nel sacco. Chi sono? Si presume che le banche tedesche abbiano in mano ben 21 miliardi di dollari di carta provenienti da stato e banche islandesi. Il resto è sparso un po’ per tutto il mondo, perché i rendimenti offerti dalle obbligazioni erano così alti che allettavano anche …


Siamo azionisti di questo Stato!

novembre 6th, 2008 by Guicciardo Sassoli de Bianchi | 1 Comment

Chi l’ha detto che non si possa fare niente per migliorare la trasparenza della nostra pubblica amministrazione? Intervistiamo Federico Sassoli de Bianchi, Presidente di Civicum, fondazione che si dedica ad una battaglia etica e fondamentale per ottenere più chiarezza per i cittadini su come vengono gestite le risorse pubbliche delle nostre città.
Quali spese sostengono i comuni, e con quali risultati? Quali sono le città che amministrano meglio le proprie risorse e con quali indici di efficienza?
A queste domande verrebbe  da rispondere “non lo sapremo mai”. E invece è possibile avere delle risposte. Basta entrare nell’ufficio del proprio comune di residenza e dire:
“Posso vedere il vostro bilancio? È un mio diritto”.


La commedia dell’”arte”

giugno 7th, 2008 by Riccardo Marvaldi | 4 Comments

La commedia dell'

Agli occhi dei più, la vicende napoletane hanno un carattere insieme evocativo e paradossale, in ogni caso estremamente affascinante. Una delle particolarità è il fatto che tale situazione, pur nell’intensa ed espressionista drammaticità dei resoconti e delle immagini,dopo mesi (se non anni) di quotidiana vergogna, non riesca ancora ad assurgere compiutamente a “tragedia”. Non riesca cioé ad essere compiutamente metabolizzata e compresa in tutta la sua gravità.
In uno sviluppo così barocco, ricchissimo di colpi di scena, soluzioni improvvise ed inconsistenti, il tutto sembra scivolare in un abisso sempre più profondo, un’infinita riproposizione di schemi e situazioni già viste e sperimentate, senza alcuna apparente evoluzione. Una parata di ruoli, personaggi e situazioni nella miglior tradizione della Commedia Dell’Arte.
Il capitolo più paradossale è sicuramente quello sulle responsabilità. Le voci ed i dibattiti si inseguono, senza mai arrivare ad un qualcosa di concreto, schiacciate un fatalismo dirompente, figlio di un approccio molto mediterraneo e di una abitudine al paradosso, esercitata, spesso con genuine punte d’orgoglio, fino all’inverosimile. Proprio in questo, Napoli è lo specchio dell’Italia intera: immagine riflessa e deformata, spiega con impietosa lucidità le malattie di un Paese intero. Il nome è lo stesso: accountability. O meglio, la sua assenza.
Il termine è tanto brutto quanto difficilmente pronunciabile, così distante dalla lingua italiana quanto ne è distante il senso dalla realtà del nostro Paese. Solo sommariamente potrebbe esser tradotto con responsabilità, e sicuramente non con la responsabilità con cui siamo abituati, ormai da tempo, a fare i conti.
Il punto è che, in Italia, per ogni disfunzione, sembra non esistere mai un responsabile. Non intendo un solo responsabile, concetto vicino a quello di capro espiatorio, tipico processo di deresponsabilizzazione collettiva in cui siamo campioni, ma una effettiva scala di attribuzione puntuale delle responsabilità, alla base di un qualsivoglia sistema non solo strettamente giurisdizionale ma anche (e soprattutto) civile e politico. In Italia, nell’esser tutti coinvolti, non lo è mai nessuno, in una sorta di distribuzione della propria quota di responsabilità ad un “altro” indefinito, da cui ci si sente estranei nelle difficoltà, ma di cui ci si serve per non sentirsi colpevoli. Insomma, un modo come un altro per sentirsi puliti, così lontano dall’insegnamento cristiano di remissione dei peccati, di spontanea assunzione delle responsabilità proprie ed altrui, forse unico strumento psicologico per poter fronteggiare le crisi in maniera compatta. Ulteriore dimostrazione che l’Italia non è certo un Paese di Santi, Poeti e Navigatori, oltre al fatto che, probabilmente, bisognerebbe smetterla con la retorica a buon mercato delle “eredità culturali”.
La decenza si perde nella banalizzazione. Si scopre così che i responsabili non sono i politici, che non si sono (quasi) mai dimessi ed a cui è sempre stato impedito, presi singolarmente, di risolvere la situazione. Non lo sono i poveri cittadini, da sempre solo vittime delle loro stesse creazioni, la camorra ed il malgoverno. Non lo sono gli intellettuali, ripiegati in un iperuraneo di raffinatezza dolce e barocca, con quel suo gusto carico di ricercata bellezza nell’unione di sfarzo e morte (sempre meno figurata), e così irrimediabilmente incompresi dalle “masse”. In breve, non lo è nessuno – o meglio, nessuno si sente responsabile.

Proprio gli intellettuali, d’altra parte, meritano una riflessione più approfondita. Pochi giorni fa l’analisi, amara e lucidissima, di Panebianco sul Corriere. Concretizzando i dubbi di molti, si chiedeva dov’erano le cosiddette élite, quel milieu culturale che, in teoria dovrebbe essere a capo della società civile. Dov’è dunque la reazione di fronte allo sfacelo? Dove sono quelle forze catartiche che dovrebbero animare tutta Napoli, in un percorso virtuoso che ha inizio proprio dal singolo cittadino?
È la descrizione di un’inerzia incomprensibile, di una rassegnazione difficile da comprendere, in Italia ed ancor più all’estero. La realtà, forse, è ancora diversa, e ci racconta di una incomunicabilità strutturale tra i diversi livelli sociali (ad essere onesti, non certo una caratteristica della sola Campania1), tipica di società non completamente sviluppate, con eccessivi gradi di concentrazione di ricchezza o di cultura (che, naturalmente, comprende il senso civico2), in cui le élite sono irrimediabilmente scollegate dalla società. La società civile esiste ed è viva, si è risposto, ma non è ascoltata, non ha presa3. È un grido d’aiuto, una dichiarazione di impotenza, che certifica la morte del concetto non solo di intellettuale engagé, ma dello stesso concetto di cultura, che, quando non trasmessa e slegata dalla storia e dalla società, diventa caricatura di se stessa, Don Ferrante del nostro secolo.
In qualche modo, ritorna una questione centrale nella Storia d’Italia: quella della leadership, per usare un’altra parola straniera, da sempre così intrisa di fatalismo, da sempre vissuta non come forma di rappresentanza di interessi comuni, ma attesa messianica e manichea del “salvatore”, di colui che, con magico colpo di spugna e senza sforzi particolari, risolva tutti i problemi, quasi che questi fossero bazzecole originate chissà dove.
Nel momento in cui tutte queste questioni si incontrano, in questo caso a Napoli, si arriva all’apoteosi del paradosso. Ormai l’unica via sembra essere quella dell’intervento di autorità esterne, del dictator di classica memoria, come sostenuto di recente, in maniera convincente, proprio sulle pagine del Tamarindo. Ma niente è a costo zero, e niente è così semplice. Il dictator, declinato nelle forme più moderne del supercommissario o superfunzionario, concreta la propria esistenza su di un regime di necessità, che gli garantisce la delega, temporanea, all’esercizio di un potere che, per essere efficace, dev’essere assoluto, quindi extra-legem.
È, allo stato attuale delle cose, una soluzione probabilmente irrinunciabile, ma è anche una soluzione che potrebbe favorire proprio ciò che vuole combattere. Paradossalmente infatti, la natura di tale potere, proprio nel creare una qualche zona immune al potere giurisdizionale normale, è molto vicina alla prassi ed alla natura della camorra stessa (e delle mafie in generale), maestra nel creare e mantenere zone a legalità limitata. Il rischio per lo Stato è quello di esser percepito non troppo diversamente dalla camorra stessa, nel momento in cui esercita un potere non del tutto accettato o condiviso dalla maggioranza della popolazione, né sottoposto ad un controllo efficace. Si potrebbe, per assurdo, …


L’altra casta

marzo 20th, 2008 by Laure Blanchard | 3 Comments

L'altra casta

In questi anni in cui la storia d’amore tra il popolo e i suoi rappresentanti assomiglia più a un divorzio che a un idillio, si è parlato della classe dirigente come di una casta impenetrabile e gelosa dei propri vantaggi, ovvero un club di fortunati che più che aver vinto le elezioni sembrava aver vinto alla lotteria.
Che la situazione politica in Italia non sia del tutto brillante è cosa risaputa. Chi però volesse indirizzare il proprio sguardo oltre alle facili semplificazioni, riscontrerebbe immediatamente le differenze esistenti fra le diverse componenti di questa realtà, alcune delle quali si distinguono per preparazione ed efficacia.
Scopo di questo articolo è dunque quello di mettere da parte per un attimo il dibattito e le polemiche a proposito dei politici per parlare di quelli che lavorano nell’ombra, al servizio delle istituzioni: i funzionari del Parlamento.
Questi funzionari che ho avuto l’occasione di incontrare, intervistare o a cui ho potuto rivolgermi per chiedere un aiuto nel corso dell’elaborazione di progetti di legge, sono troppo spesso dimenticati e ignorati dall’opinione pubblica nonostante l’importanza del lavoro da essi svolto. I politici hanno per funzione di rappresentare i cittadini e quindi non devono essere né laureati in giurisprudenza né esperti nella materia della Commissione a cui sono stati assegnati. Per permettergli di partecipare ai lavori parlamentari sono pertanto affiancati dal personale tecnico.
I consiglieri che lavorano al Parlamento sono i garanti della continuità dell’istituzione. In Francia questi funzionari sono gli eredi dei segretari-redattori che dalla Rivoluzione sono perno della vita parlamentare ed elemento di stabilità. Le legislature si susseguono, ma il corpo amministrativo rimane e non cambia il metodo di lavorare. I funzionari sono neutrali e apolitici. Sono capaci e pronti a lavorare con qualsiasi parlamentare e su qualsiasi argomento. Il loro impegno e la loro identità sono così legati alla tecnica e all’anonimato come la funzione del parlamentare è legata alla politica e all’attività di pubblicizzazione del suo progetto di legge. Sono assunti, formati, promossi o sanzionati senza l’intervento dei parlamentari e quindi sono atti a fornirgli aiuto e consigli senza preoccuparsi di piacere o dispiacere.
Il ruolo dei funzionari non è noto eppure si rivela necessario. Prendiamo come esempio il lavoro dei funzionari del servizio studi. L’attività parlamentare è diventata sempre più tecnica e complessa (ad esempio le norme comunitarie sono meramente tecniche e tocca ai parlamentari valutare la compatibilità con la norma nazionale e ratificarle) e pertanto, dagli anni ‘70, in ogni Commissione permanente è presente un funzionario del servizio studi. Il funzionario effettua un lavoro di ricerca e di raccolta dei fonti per documentare l’attività che si svolge in seno alla Commissione stessa. Ogni funzionario addetto a una Commissione partecipa alle sedute e soprattutto alle riunioni dell’Ufficio di Presidenza della stessa. Di conseguenza, il funzionario sa che cosa la Commissione andrà a mettere in agenda e può predisporre la documentazione per le sedute seguenti. Senza questo lavoro a priori, i parlamentari farebbero fatica svolgere le funzioni che la Costituzione gli assegna in modo corretto.
Qualcuno dirà: ma se sono cosi bravi e virtuosi, perché abbiamo anche bisogno di uomini politici? Non si potrebbe inventare un sistema politico soltanto composto di un personale tecnico di alto livello? La risposta è no! No, perché un tecnico sarà sempre un tecnico. Gli esperti infatti aiutano molto i Parlamentari, ma non possono sostituirli, perché agiscono secondo una logica differente. Più che lavorare per il buon andamento della democrazia, il benessere dei cittadini o l’accontentare degli elettori, essi devono rispondere a un problema dando una risposta tecnica. Così anche se una soluzione tecnica può sedurre dal punto di vista intellettuale, il compito e l’arte del politico consistono nel valutare se la risposta possa corrispondere a bisogni e aspettative degli elettori. Ogni decisione tecnica può avere conseguenze politiche e deve iscriversi in un programma politico coerente, già tracciato in campagna elettorale o dall’appartenenza politica del parlamentare.
I funzionari vedono comunque il loro peso rafforzato e stanno diventando sempre più necessari ai decisori politici. La complessità crescente dei lavori cui partecipano i parlamentari e l’alto livello di tecnicità richiesto, sottolineato prima a proposito del lavoro in Commissione, fa sì che i dibattiti diventino meno ideologizzati e schierati. L’idea di “governance” inerente a una concezione della democrazia basata sugli interessi sembra imporsi a scapito del concetto di democrazia delle opinioni per il quale il discorso politico è un elemento centrale. La competenza e la capacità ad acquisire conoscenze tecniche su un dossier si sostituiscono all’appartenenza politica. L’attività parlamentare permane una componente essenziale del sistema politico delle democrazie dette parlamentari, il lavoro svolto dai parlamentari non deve essere sottovalutato perché necessita un coinvolgimento, l’acquisizione di competenze sul campo, cosa che non è del tutto facile e visibile. La politica subisce mutamenti di natura culturale, le maggioranze cambiano e il numero di neodeputati è alto a ogni legislatura. Tuttavia le tradizioni di lavoro legate a un personale parlamentare stabile, neutrale e preparato sono una garanzia della continuità del lavoro in Parlamento!



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