La lista del sarto

ottobre 30th, 2009 by Ludovico Bruno | No Comments

La lista del sarto

Da quando la moda è scesa in strada, è diventata più accessibile. Prima il fatto stesso di essere di moda rispecchiava un’élite, un’alta società che, meno stressata dalla concorrenza, poteva permettersi il lusso di stare a contarsi le piume in totale serenità.
Poi è arrivato il ready to wear, il boom economico, l’America, le fibre povere, i grandi magazzini, i discount, i jeans, la cultura pop, le seconde linee… fino alla barbarie dell’umano buongusto: il pronto-moda (ovvero quei colossi che ti sfornano sei collezioni l’anno con uno “stokkaggio” planetario, dai costi irrisori e una creatività da compito scopiazzato di quinta elementare).
Oramai, quindi, la moda è talmente popolare e fondamentale da essere “il tutto”. E se la moda è tutto, va da sé che tutto è moda; ma, fortunatamente, non tutto è di moda.
Contemporanea e mutevole, la moda spara a salve tendenze e dettami che si dissipano nell’aria alla velocità di una stagione. Abbiamo molti più colori sulla nostra tavolozza, con la quale, ogni mattina, ci dipingiamo addosso il nostro ritratto di come vorremmo vederci. La differenza non la fa più il vestito in sé, ma il ruolo mediatico e sociale che può avere su di noi, cosa può darci e come può differenziarci per essere visti da chi è importante che veda.
Facciamo un esempio. Mettiamo a confronto una signora che negli anni ‘60 va in Avenue Montaigne, al 20 entra da Dior ed esce con un meraviglioso abito a clessidra rosa antico; quella signora potrà andare in giro per tutta Parigi senza mai imbattersi nello stesso abito, è unica, sa di esserlo e si sente speciale.
Prendiamo ora una ragazza di oggi (dove il marchio Dior lo trovi perfino sul cerchietto della commessa della Upim) che entra magari da Zara e si compra con 39,90 euro un vestitino nero; quella ragazza terrorizzata scapperà a casa di corsa nella sicurezza a priori di incappare in altre ragazze con lo stesso vestito.
Dov’è la glorificazione di un abito contemporaneo quindi? È nella eco mediatica che può avere. Quella ragazza viene fermata per strada per degli scatti che finiscono su un blog di tendenze dove compare lei nell’arguzia di aver scelto quel giustissimo vestito nero di Zara che, giocato con i sapienti accessori, in quel momento, si glorifica a “il vestito” nero di Zara, così da potersi sentire esclusiva al pari della signora che cinquant’anni prima entrava da Dior.
Vince chi si differenzia nell’indifferenza.
È l’essenza della moda contemporanea che, a differenza di quello che si è detto, non parte dal basso, ma dal basso arriva per farlo emergere.
Voglio focalizzare l’attenzione su uno dei canali più influenti degli ultimi cinque anni, un canale che si nutre della rappresentazione del popolare trasformandola in particolare, dandoci un limpido esempio di stile democratico: il blog “The Sartorialist”.
Scott Shuman, fotografo americano, dopo una breve carriera come designer, decide di condividere con l’etere i propri scatti ritraenti persone normali con un evidente senso dello stile. Parte da Bryant Park e in pochi anni arriva a essere l’occhio critico della moda di strada che, tra Milano, Parigi e New York, detta le nuove tendenze per creare una nuova idea di stile metropolitano.
Il suo blog conta più di 60.000 visite al giorno ed è stato inserito dal Times tra i cento siti più influenti del pianeta. Scott opera come un sapiente e lungimirante esploratore del settore investito dell’arduo compito di selezionare solo quelle persone che maggiormente intuiscono l’idea di stile, che come ricompensa potranno avere l’esclusivo privilegio di apparire sulla sua homepage.
Il ruolo di The Sartorialist è centrale nella moda contemporanea, funge da punto di riferimento, da sparti acque, giudice severo su cosa è stile e cosa non lo è.
Le sue fotografie hanno il potere mediatico di un tappeto rosso, di un traguardo, di un modo per poter dire: “Ce l’ho fatta, ci ho capito finalmente qualcosa”. Inoltre è retto da una sinergia vincente che si instaura tra il modello, ovvero quei selezionatissimi che prestano il loro stile (ma che allo stesso tempo ucciderebbero per quei famosi quindici minuti di notorietà), e Scott che, sciolto da qualsiasi fruitore, si serve dei sui manichini per illustrare la sua idea di stile, personale ma di matrice popolare, e quindi universale.
Il nostro arbiter elegantiarum, come dicevamo, ha costruito un nuovo canale, un canale diretto e semplice tra moda e utenza: le foto sono semplici, a figura intera, senza modifiche, su fondo bianco, pulito. Ritraggono volti delle gente comune, per strada, sempre felici, sempre sorridenti, è democratico. Tra le sue pagine le algide e spigolose regine del Fashion System posano accanto a barboni del Queens: la foto di Franca Sozzani è seguita da quella di un imbianchino di un backstage a una sfilata; persino lui può brillare per eleganza.
Per The Sartorialist, specchio della moda contemporanea, l’eleganza non è nella ricchezza, nel lusso estremo, nello sfarzo, ma nella nostra capacità di mescolare e interpretare, di fornire un tassello in più che completi il caleidoscopico nuovo mondo del fashion.
Ogni foto caricata riceve immediatamente centinaia di commenti di confronto, e le migliori sono perfino finite sul primo libro auto celebrativo, edito lo scorso mese, in cui The Sartorialist si racconta tramite oltre trecento pagine di scatti. Un bel traguardo, un bel percorso, seguito da milioni di altri bloggers che si ispirano alla fortunata formula per inserire tra le loro pagine virtuali scatti rubati di persone, dell’ultimo accessorio, di sfilate, di feste esclusive, tutto visto in maniera estremamente personale, forse troppo.
Il successo di Scott Shuman e di The Sartorialist si deve proprio a questo, al meraviglioso anonimato. Quando entri nel suo sito vedi delle persone bellissime, anche nella loro estrema umiltà e umanità; non vedi i contorni, ma una linea guida c’è; non vedi lo steccato, ma segui comunque un sentiero; non vedi la presunzione, ma l’esperienza; non percepisci la regola, il dettame, l’In & Out, ma gli equilibri che regolano il sito ci sono eccome. Le persone sono come le vedresti in un vecchio album fotografico, quello di cui non ti accorgerai è la selezione che viene fatta per costruire quell’album.
E così …


Forse il problema non sono i partiti

giugno 2nd, 2009 by Rocco Polin | 2 Comments

Forse il problema non sono i partiti

Milano. Via Ripamonti (dove una volta era tutta campagna) Interno supermercato. Sezione frutta e verdura.
Una signora sulla cinquantina pesa quattro pesche. 5 euro. Si gira verso un’altra signora, pressapoco della sua età in cerca di solidarietà.
La signora le fa un sorriso rassegnato:
“Cosa vuole, signora mia, da quando c’è l’euro costa tutto di più. Hanno fatto il cambio un euro mille lire. E come al solito a rimetterci è la povera gente”
“Ah, certo. L’euro di Prodi. Ci ha portato in Europa. Sì, ma con le pezze al culo, mi perdoni l’espressione”
“Adesso vediamo il Berlusconi. Ha fatto così bene alle sue imprese, vedi mai che sia in grado di fare qualcosa anche per noi. Se solo i giudici lo lasciassero lavorare”
“Mah guardi, secondo me la verità è che sono tutti uguali. Destra e sinistra. Una volta eletti fanno solo i loro interessi. A me poi il Berlusconi proprio non mi va giù. Sa, sono interista… Ho votato Di Pietro che mi sembrava uno del popolo, poi i Pensionati. Alle ultime la Lega che di questi clandestini proprio non ne posso più”
“Non me ne parli. E badi che io non sono razzista. Ci ho una cameriera filippina bravissima e anche al mio nipotino che in classe ha fatto amicizia con un negretto non gli dico mica niente. Il problema non è il colore della pelle, è che questi non ci hanno voglia di lavorare”
“Sa cos’è? è che vedono in TV la ruota della fortuna e pensano che da noi sia il paese della cuccagna, poi arrivano qui e scoprono che è tutto diverso. E allora cominciano a rubare. Ce ne sono anche di bravi, non dico mica di no. I neri per esempio sono più simpatci, mica come questi albanesi o marocchini”
“Che poi guardi che è solo in Italia che succede così. Negli altri paesi li fanno rigare diritti. Mica come qui”
“La verità e che si stava meglio quando si stava peggio. La mia povera mamma me lo diceva sempre, quando c’era Lui si dormiva con la porta aperta”
“E i treni arrivavano in orario. Mica come oggi. Ma cosa ci vuol fare? I giovani non hanno più rispetto, si rimbecilliscono davanti ai viedogiochi e pensano che tutto gli sia dovuto”
“Parole sante, signora mia, parole sante. Oggi giorno non c’è più rispetto nemmeno per la Chiesa. Questi gay ad esempio… ma insomma se proprio devono fare, facciano a casa loro. Che bisogno c’è di scendere in piazza?”
“Ci manca solo che adesso gli facciano adottare i bambini così ci diventano tutti omosessuali. Ma insomma, il matrimonio è fatto tra un uomo e una donna. È naturale non le pare?”
“Certamente. Il problema è che gli italiani non fanno più figli. Se va avanti così diventeremo un paese islamico”
“Guardi.. sta cominciando a nevicare…”
“ah la neve, starei a guardarla per ore, mi da un tale senso di pace… certo però che ogni anno arriva più presto, come si dice non ci sono più le mezze stagioni, che sembrerà una banalità eppure è vero”
“sempre così, le cose più banali sono poi le piu vere. Lei a proposito cosa fa questo Natale? va in montagna?”
“A dire il vero il Natale lo passo con i miei, poi per capodanno porto la famiglia a Venezia. Sa dobbiamo godercela prima che scompaia”
“Fa proprio bene. Che ormai andiamo tutti all’estero e non apprezziamo il nostro bel paese. C’è gente che è stata tre volte a Londra e magari non ha mai visto Firenze. Che poi vai all’estero ed è sempre pieno di italiani. Ci facciamo sempre riconoscere. Io queste vacanze andro al mare, trovo che d’inverno abbia un fascino particolare”
“Infatti. Io devo dirle che avrei preferito andare sul Mar Rosso come l’hanno scorso. Però sa la crisi…. Venezia l’ho sempre trovata un po triste. Come dire.. è bella ma non so se ci vivrei”
“Quanto ha ragione. E poi Venezia è calda d’estate e fredda d’inverno”
“Il problema non è tanto il caldo. È l’umido”
……
“Allora queste pesche? che fa le prende?”
“ma no guardi le lascio, costano un’occhio della testa e poi vedrà che non sanno di niente. La frutta al supermercato non la si può più comprare”
“Lo diceva giusto ieri Emilio Fede, la colpa è degli euroburocrati che ci obbligano a importare la frutta congelata dall’estero, cosi poi dobbiamo far marcire la roba delle nostre campagne”
“quest’anno però la TV dice che il raccolto sarà scarso a causa dell’ondata di caldo eccezionale e poi insomma, con questa febbre suina, vatti a fidare. Io compro del pesce. Ma lo sa che a Milano abbiamo il pesce più fresco d’Italia?”
“Si, si, più fresco che a Genova. Ne parlo sempre con il cassiere della mia banca che è ligure”
“Ah, le banche, buone quelle. Sono degli strozzini legalizzati. Io ormai i soldi li tengo sotto il materasso”
“Fa proprio bene. Mio martio dice sempre che bisogna investire sul mattone, è l’unico investimento sicuro”
“a proposito, ha visto la Fiat? pare che compriamo le aziende americane”
“sì, sì. Anche se devo dirle che io mi fido solo delle macchine tedesche. I tedeschi sono gente precisa”
“Sì ma deve ammettere che anche quando dicono grazie sembra che ti stiano dando un’ordine. E poi la Fiat quando si rompe te la ripara anche l’elettricista”
“Io lo dico sempre a mio nipote che dovrebbe fare il meccanico. Quelli sono i lavori con cui si guadagna. Come l’idraulico. Che quando ne hai bisogno è sempre impegnato e quando finalmente arriva si fa pagare un patrimonio per un lavoro di dieci minuti con la scusa dei pezzi di ricambio”
“La penso anche io come lei. Cosa servirà poi studiare il latino che non lo parla piu nessuno?”
“Be senta adesso devo andare. Vedrà quanto tempo ci si mettera per tornare a casa. Bastano due fiocchi di neve per mandare in tilt la citta. E già trovare parcheggio è impossibile in condizioni normali”
“La verità è che bisognerebbe non usare la macchina. Ma come si fa? con questi trasporti pubblici… Io la mattina prendo il 54 per andare a trovare i miei nipoti. Non arriva mai”
“E poi quando arriva ce ne sono tre in fila..”
“Esatto”
“Be signora, …


Zibaldone d’inizio primavera di un dandy suo malgrado

marzo 20th, 2009 by Alessandro Berni | 2 Comments

Zibaldone d’inizio primavera di un dandy suo malgrado

Rose. Nessuna novità: rosse, per promettere le passioni di un forte e fugace amore. Bianche, per la propria madre. Gialle, mai. Significano gelosia oppure amicizia, sentimenti che un dandy suo malgrado non conosce e quindi non può regalare. Blu, per gli amori impossibili. Non sorprende che non le abbia mai date in dono.
Guardaroba. È internazionale, di indumenti incontrati (mai cercati) durante le sue lunghe passeggiate. Il vintage è una risorsa, ma solo se ricevuto come dono da persone a lui care.
I brand esposti, le marche in vista sono di cattivo gusto. Se un capo è d’alta moda deve essere segnalato (tollerato) solo da un’etichetta interna. Un partner occasionale potrebbe notarlo intanto che raccoglie i suoi abiti buttati in giro durante la notte quando lui, dandy suo malgrado, beato e a giorno inoltrato sta ancora dormendo. Questo, renderebbe malinconico il risveglio. Da evitare che succeda.
Scarpe. La comodità resta un gran pregio. L’affezione per un bagaglio leggero ne permette appena dieci paia.
I modelli a punta, bene in forma, sono nell’armadio della dimora di famiglia. Resteranno lì ad aspettare, dopo che personalmente si è pulito l’ultimo paio scelto alla fine dell’ultima cena di Natale.
La prossima preferenza sarà per un paio aperto in cuoio marrone, invecchiato.
Profumi. L’odore della pelle dell’essere che ama resta il favorito. Da parte sua, la fragranza di un dandy suo malgrado è per eletti, è indimenticabile.
Cappelli. Mai per necessità. Senza benda, a coprire le proprie malinconie; con la benda larga per salutare il proprio gusto per la vita. Rimangono l’oggetto più facile da smarrire, da regalare. Quando c’è da incontrare qualcuno, è sempre una buona cosa presentarsi all’appuntamento con un cappello mai visto durante gli incontri precedenti. La scelta non è banale: un solo partner ed infiniti cappelli o un solo cappello ed infiniti partner? La risposta è mobile.
Regali. Sì. Ogni giorno. D’improvvisi e meravigliosi.
A tavola. Champagne e fragole rimane la colazione da preferire. Si mangia sempre per noia. Si smette molto prima di essere già sazi.
Il denaro. Nella sua vita, in disparte, puo’ restare.
Viaggi. L’invisibile agli occhi è il posto dove abita. La realtà è una finestra da scostare di tanto in tanto, senza prenotare.
Il telefono cellulare. A proposito di questo argomento, pochezze da dire. Di inizio secolo o ultra-moderno, non è più un segnale. La suoneria, resta discreta. Nella tasca della moleskine almeno 3 sim ancora attive di 3 Paesi diversi per cui non si ha nostalgia. Nelle  varie rubriche, troppi numeri che non servono più.
Internet. È invadente. Si dispiace con se stesso ogni volta che lo usa per informarsi su come va il mondo. Le poste elettroniche sono discrete, ma quanta spazzatura! Facebook e Myspace sono una curiosità risolta. Asmallworld è pingue di vecchi volti che evita da tempo, rudemente. Attraverso questi strumenti comunica sempre meno, sempre più profondamente.
Lavoro. Quando è nominata questa parola, senza niente osservare, semplicemente se ne va. Comincia a mancare.
È primavera. Finalmente può vestire di sud-america: Il blu inconfondibile del cielo di Rio; il rosso scarlatto del vino dei rivoluzionari; raso chiaro e stropicciato da un tango argentino; un gioiello giallo delle stelle della croce del sud. Passeggiare senza meta è un dovere del proprio Piacere. È il momento di conoscere persone nuove. Insieme a loro ci si ubriaca, ci si ubriaca in continuazione, di poesia, d’ironia e di virtù.
La crisi. Non è più di moda e lui lo sa bene.
L’ultima riflessione. Un dandy suo malgrado non segue i pensieri letti su uno zibaldone. Riflette su come vive, ne scrive uno.


Ce n’è per tutti

dicembre 4th, 2008 by Miša Capnist | 13 Comments

Ce n’è per tutti

Fin dalla prima infanzia mi sono sempre – sempre!,  sentito dire da mia madre: “non si chiede scusa”. A prima vista sembra una dichiarazione tracotante, portatrice di quella sana insolenza arma del viveur. Leggendo fra le righe, il teorema denuncia una spiazzante chiarezza, e si confuta, come tutti i dettami dell’educazione, grazie ad un tranchant: non metterti nella condizione di doverti scusare. Non passare davanti alle persone chiedendo scusa: passa da dietro. Non scusarti quando commetti un errore: evitalo. Prevenire il disagio altrui piuttosto che causarlo, chiedere piuttosto che imporsi, presentare un avvenimento come dato.
Così come quando il marciapiede su cui si passeggia è deserto, e ci si sente urtare da un passante, inutile che questi si profonda in formali gorgheggi di scuse: non avresti dovuto farlo e basta. Point barre.
A Parigi spesseggiano accadimenti di non prevenzione del fastidio e, anzi, con l’inverno che ormai ha sfondate le porte, i “pardon“, quando ci se li sentono rivolti, sono veri e propri buffetti sul naso ghiacciato.  Oppure accusi letteralmente il colpo e arrossisci di collera.
Non sono solo le bocche della metropolitana a vomitare orde di barbari, ma anche gli ingressi dei negozi, i cafés, i musei, le strade, le automobili, i parcheggi delle biciclette a libero servizio.  Parigi è un inferno. E non fatico affatto ad immaginarmi questo popolo nordico che, qualche anno fa, coperto da pelli d’orso, ed accompagnato da urla disumane cercava di distruggere le dorate aquile romane simbolo dell’Impero.
Una diffusa villania preventiva aleggia nella città dell’Amore. L’antipatia gratuita che sempre si riconosce ai francesi, in questo dicembre viene acuita dalle raffiche di vento, dalla neve che ancora non fiocca abbastanza per farci tacere tutti col piacere della contemplazione, dalla crisi economica e dal loro cattivo gusto.
Mi compiaccio, a titolo di ricercatore qualitativo e quindi soggettivo, nel riportare il frutto dei miei studi sociologici chiarificati in due esempi di vita vissuta.
La settimana scorsa telefono ad un teatro in cui non avevo mai messo piede di cui non conoscevo la sala. Volevo passare una serata in compagnia, e penavo di invitare un’amica a vedere una nuova commedia che vede implicato nel ruolo principale un ragazzo uscito dalla nostra stessa accademia. Chiamo per reperire le informazioni di cui sotto.
Informazioni sulla prenotazione, sulla conformazione fisica della sala, se si tratta di un teatro all’italiana o alla francese, per avere due poltrone vicine, per sapere quali fossero dei buoni posti. La réceptionniste, sbuffante come una teiera inglese o tout court arrogante come una réceptionniste, in brevissimo tempo si spazientisce e mi propone due poltrone, l’una dietro l’altra, facendosi sfuggire che la sala sarebbe stata quasi vuota – e ho capito bene, perché vuota si dice vide, e piena si dice pleine, o complète: non posso essermi sbagliato. Spiegarle che volevo due posti vicini (à coté – contigues – proches- coude à coude – vous me comprenez?) si è rivelato talmente infastidente da ascoltare che, ad un certo punto, prima di riattaccare il ricevitore, l’esponente del gentil sesso ha abbaiato un “ma insomma, mica la devo vedere io, la pièce!”, lasciandomi di stucco.
Serata andata a ramengo.
Esperienza simillima e altrettanto indisponente posso citarla quando ho telefonato allo standard dell’ospedale Lariboisière per farmi passare il reparto di dermatologia, e mi sono sentito rispondere che l’ospedale Lariboisière non ospita la dermatologia. Ho chiesto alla signorina di dirmi quale fosse il suo nome, e lei ha riattaccato. Rintraccio il numero della dermatologia e quando, riuscendo con erculea fatica a prendere un appuntamento per il mese successivo, chiedo alla segretaria l’indirizzo dell’ospedale lei, indignata, mi dice che si trova vicino alla stazione Nord, e io rispondo: alla fermata Gare du Nord?, mi sbraita un sì che vuol dire il-malato-sei-tu, e scopro che, ovviamente, la stazione più vicina non era quella della Gare du Nord.
Due esempi esplicativi e certo non esaustivi della sociologia parigina. O sedicente tale, perché il più delle volte, i parigini, di parigino hanno solo la carta d’identità. E ancora.
Forse perché in una metropoli e – ma quanto ne stiamo parlando al Tamarindo? – si vuole difendere la propria sfera intima, il proprio Io, parte della popolazione si sente legittimata ad una preventiva mancanza di attenzione all’altro. Uno scrupolo diffuso che mi lascia l’amaro in bocca, pensando ai miei giri in autobus napoletani, in cui chiunque ha un percorso privilegiato da indicare perché ” si passa di fronte a una chiesa che è un babbà”, o “è il più sicuro per voi, che siete un turista”, “è più corto” “è più tipico”.
A Parigi, quando parli un francese di livello un pelo superiore a quello di un turista, sei un attentato vivente alla pariginità. Ad una richiesta d’informazione che implichi un impercettibile movimento di poirottiane grey cells, la risposta-tipo è: “ché pas” (je ne sais pas, in gergo da strada), accompagnato da un’espressione del viso attonita per la tua imbecillità, preceduta da una contrazione labiale violata da un’intermittente raffica di vento polmonare. Una pernacchietta, insomma.
Nessuno sa niente della città in cui vive, nessuno sa niente del palazzo in cui il proprio ufficio si trova, nessuno sa niente del proprio condominio, nessuno sa niente della dislocazione della merce nel negozio in cui lavora, nessuno sa niente di taxi, metropolitane, autobus, passaggi pedonali, tour Eiffel, musei, nessuno sa dove sia il comune….
Poi però…
Poi però sabato notte ha nevicato.
Offrivo una soirée a casa ai miei amici.
Una di loro si alza, e grida: Nevica!
I fiocchi, grandi e pesanti, silenziosi e soffici, di fronte alla mia finestra, sui tetti dirimpetto. Nessun altro rumore che la neve – sorda – che si posa. E le acute grida gioiose e infantili  della mia amica.
Parigini freddi e cortesi.
Una volta presi non ci si lascia più. Una volta presi appiccano fuoco ai giardini pubblici per te. Una volta presi ci si gettano anche.
Fedeli, presuntuosi, scorbutici parigini miei.
Noi ci amiamo!


Gli Italiani e le parolacce…

novembre 7th, 2008 by Laure Blanchard | 10 Comments

Gli Italiani e le parolacce…

Giorni fa, di passaggio a Torino e non avendo più libri, ne ho preso uno da un’amica. Così, ho pensato, scoprirò un autore italiano, e poi leggere in italiano non mi fa male ora che sono tornata in Francia.
Il libro in questione è Una vita che ti aspetto di Fabio Volo…ed è stata una rivelazione!
Rivelazione proprio nel senso di svelare. Infatti, Fabio Volo mi ha permesso di capire una cosa che avevo notato da un po’: la grande propensione degli Italiani per le parolacce!
Già a Torino e poi a Roma, più di una volta sono stata colpita dal modo di parlare, un po’ grezzo (per non dire volgare), di tanta gente.
Come mai un popolo così raffinato, capace di tradurre così bene i grandi autori latini, parla così male? La risposta che mi è venuta leggendo questo libro è una: il pudore! Strana idea, direte, di collegare parolacce e pudore, eppure mi sembra ovvio.
Prendiamo l’esempio di questo povero ragazzo di cui parla Volo nel libro. Si tratta di Francesco, un trentenne materialista, che possiede tutto ciò che vuole: ha una vita facile, tra un lavoro ben pagato, amici per andare a ballare o fumarsi una canna e ragazze a profusione nel suo letto. Tutta la prima parte del libro, dedicata a questa vita spensierata, comporta passaggi volgari sia nei dialoghi, sia nel pensiero del protagonista. Poi, man mano che Francesco comincia a rimettere ordine nella sua vita, condivide con se stesso e con noi una riflessione sul senso dell’esistenza, e allora le parole diventano più belle, piene di senso e di purezza. Prima mentiva, provava a fare bella figura, cioè la figura del figo che non teme niente, che non ubbidisce a nessuno e ha una vita disordinata, priva di riflessione ma piena di parole vuote e brutte.
Ho collegato questo a un episodio della mia vita in Italia. Durante un ritiro, infatti, sono rimasta molto sconvolta perché avevo sentito un prete dire parolacce. Non capivo perché per dire ai giovani di muoversi, di non aver paura, un frate dovesse usare parole come “cazzo!” .
Forse ora lo capisco…
In questa società latina che è quella italiana, si cerca sempre di “salvare le apparenze”, cioè di fare bella figura. In questo contesto non si devono lasciar apparire le proprie debolezze, e si usa quindi la maschera della volgarità. Se il prete avesse parlato a quei giovani con parole dolci e personali, con lo scopo di parlare cuore a cuore, condividendo una riflessione sincera, forse avrebbe fallito, mentre usando il tono della derisione è riuscito a cogliere l’attenzione, come se non stesse toccando il giardino segreto di ognuno.
Comunque, non pensiate che io stia recitando la parte della francese antipatica e sprezzante. Non sto dicendo che tutti gli Italiani sono volgari e maleducati, per carità!
Consideriamo piuttosto che il mondo è un teatro…e l’Italia recita costantemente con il tutto esaurito. In questo grande teatro, ognuno porta una maschera e si traveste per proteggere meglio ciò che è veramente; la volgarità per alcuni sembra allora una maschera tanto comoda per nascondere al resto del mondo la parte più sincera, sottile e delicata della personalità, purtroppo sinonimo di debolezza!


“Parigi è morta, non c’è niente da fare”

settembre 2nd, 2008 by Miša Capnist | 1 Comment

“Parigi è morta, non c’è niente da fare”

Esuberante inizio di discussione, che più che rompere il ghiaccio erige muri di cemento, in cui mi sono trovato coinvolto ieri sera, sul tetto dei grandi magazzini Printemps, diretti concorrenti de les galeries Lafayette, in cui, estivamente seduti ai tavolini – Sacré Coeur all’orizzonte mancino, Notre Dame de Paris e guglie gotiche a perdita d’occhio sulla destra – sorseggiavamo champagne. Raccapricciante presa di posizione tipica degli autoctoni, questa frase riunisce in sé tutti i misteri della storia, e la storia delle pigre menti che concepiscono e mettono in parola questo pensiero.

Presa di posizione che capisco e condivido, quando si parla della propria città non in senso fisico del termine, ma nella più ampia e complessa accezione di propria città in quanto creata da sé. Creati da sé o dai genitori sono l’entourage, create da sé sono le scelte di vita che si conduce, creato da sé il piacere o la noia di doversi spostare dal proprio quartiere a quello dell’amico, della scuola, o del lavoro.
Con un “Parigi è morta perché sei pigro”, liquido l’avventore incuriosito dal mio accento, dai cui virtuosismi intellettuali non posso che definirmi infastidito.
Parigi non può essere morta perché la festa nazionale della presa della Bastiglia dura due giorni, perché tutte le caserme dei pompieri, la vigilia, aprono le loro porte ai cittadini, proponendo balli e aperitivi fino a notte inoltrata. Parigi non può essere morta perché il giorno dopo i fuochi celebrativi di quest’infausta rivoluzione, sono sontuosi visti dall’esplanade della tour Eiffel che, per tradizione, sono presi d’assalto fin dalle prime molle ore del pomeriggio.

Parigi non può essere morta perché gli argini dei canali si trasformano in terrasses dei café, in luoghi da pic-nic, in campi da bocce, in mercatini serali, e le loro acque così calme sono terreno di sfida in canoa.
Parigi non è morta perché nelle sue fontane ci si bagna, durante queste giornate afose di fine luglio.
Parigi non è morta perché negli ultimi piani dei palazzi, seduti ad un tavolino o su un tetto di lamiera, ci si prende l’aperitivo godendosi i non ultimi raggi di questo altissimo sole che lusinga fino alle dieci.
Parigi non è morta perché agli angoli delle strade spuntano gli scarti dei traslochi e chi – fra studenti squattrinati e squattrinati – deve arredarsi casa, lo può fare con delizia e creatività.

Anche se comprensibilmente una calda giornata parigina può portare a momenti di flânerie che è uno stato meno elegantemente – non per sensualità – tradotto dall’italiano cazzeggio, la città si offre, impudica nella sua avidità di piaceri: al parc de la Villette il comune propone cinema all’aperto gratis, e le rive della Senna ospitano livellate spiagge di sabbia finissima con docce, piscine sulle zattere in mezzo al fiume, anche là mercatini a non finire.
Considerando i concerti che ogni dipartimento comunale (e a Parigi ce ne sono 20) offre a rotazione fino a fine estate ai cittadini, tutti i bar e i ristoranti che comunque restano aperti, i musei, le istallazioni all’aperto nei giardini delle tuileries, l’immenso e fiabesco parco des buttes Chaumont con le sue cascate artificiali su rocce altrettanto artificiali e la sua allure da panorama secentesco, i giardini di Versailles con gli spettacoli delle Grandes eaux musicales (che consiste nell’azionare tutte le fontane del giardino, i cui zampilli seguono le note delle opere di Lully, restando illuminate da fasci di fuoco, e profumando l’aria di essenze pregiate), considerando, dicevo, queste ricchezze, la stimolazione della sfera sensoriale nella sua totalità, possiamo credere di stare assistendo al funerale di Parigi o al nostro?
Le nostre città natali non ci sembrano loro stesse migliori ogni volta che ci rientriamo? Non sono queste le città in cui abbiamo mosso i primi passi sociali, in cui abbiamo vissuto le nostre prime esperienze estetiche? Ci dicevamo che erano morte; eppure, ecco che quando rientriamo ci accorgiamo di tutta una serie di personaggi nuovi, ma che nuovi non possono essere, poiché ci sono coetanei, che fanno parte di tutta una serie di altri mondi con i quali non eravamo mai entrati in contatto fino al giorno del nostro rientro. Solo quando ce ne andiamo ci accorgiamo che delle vite parallele scorrevano nelle nostre strade, e noi non le avevamo viste mai, perché le abitudini ci facevano fare il contrario, perché il senso dell’avventura non era ancora il nostro forte, perché non ci veniva neanche in mente la possibilità dell’esistenza di Altro.
Non è forse vero che, prendendo un aperitivo con gli “amici di sempre”, ogni tanto ne arriva uno con una new entry dall’aspetto interessante, e noi pensiamo “lui sì, vedi che ganzo, lui si butta sull’estero”, e poi scopriamo che abita nella nostra stessa città-mummia da sempre, e che il suo percorso è stato da sempre differente dal nostro, e che conosce luoghi mai immaginati proprio dietro l’angolo, e che partecipa ad iniziative entusiasmanti e impensate ospiti della nostra provincia (spesso, per l’onor del vero, non troppo ben illuminate dalle nostre giunte comunali così estranee al marketing, come dice M.I. Corradi nel suo articolo)?.
E quel bar, in cui per anni i nostri genitori ci hanno proibito di metter piede e noi, ligi e noiosi abbiamo seguito gli ordini, è proprio una figata.
Ecco quindi, tornando al progetto primordiale che animava questo spazio che il Tamarindo ha concepito con lusinga rivolgendosi a me, il primo consiglio che oso darvi, nel suggerirvi un’estate magnifica e piena di nuovi incontri: non ci si lamenta.
Anche se devo ammettere che in francese suona tanto meno fastidioso.


Inno alla grazia 2.0

agosto 29th, 2008 by Federico Berlingieri | 8 Comments

Inno alla grazia 2.0

La straordinarietà dei grandi classici della letteratura risiede nel fatto che sapendoli leggere, essi sono in grado di proporre questioni, temi, problemi validi ed esistenti da sempre. Spesso è proprio in questo che si manifestano il genio dell’autore e la sua capacità di dare forma ai tratti universali che accompagnano l’umanità fin dalla sua nascita e che la abbandoneranno solo con la fine. Cogliere e capire l’essenza della specie umana, intercettare un’indole potenzialmente valida per MacBeth come per Veltroni (il predestinato trama per eliminare il re; cade il governo Prodi) rappresenta, assieme alle scelte formali, la concretizzazione del talento letterario.
Gli esempi si sprecano: il “Bel Ami” di Guy de Maupassant non è forse un meraviglioso predecessore dell’odierno strisciante arrivista, nuova figura professionale dell’epoca contemporanea? L’impareggiabile Amleto non ha semplicemente cambiato pelle ed ambiente facendo sognare generazioni di bambini e no ne “il Re Leone”? Meglio evitare poi i fin troppo facili parallelismi sulla sconfinata letteratura dei “patti col diavolo” e gli innumerevoli “Faust” del nostro Parlamento. E poco importa se la nostra generazione crescerà convinta che “l’antipolitica” nacque da un’intuizione del geniale arruffapopolo Beppe Grillo e non fu fenomeno già in uso dai tempi di Dante; più che di una vitale critica indipendente, l’Italiano medio necessita di continui pretesti per pasciarsi nel suo tipico immobilismo al grido di “è colpa loro, non mia!”.
Le sempre più frequenti arringhe decostruttive sono amate per la loro straordinaria comodità. Esse poggiano su problemi sempre più complessi il velo dell’irrisolvibilità, una manna che solleva tutti dallo sforzo di capire e di agire. Tristemente noto che su questa diffusa forma mentis sono capaci di adagiarsi intere società di persone, soprattutto nell’amato sud Italia in ginocchio certo non da oggi.
Di fronte a tutto ciò sicuramente i classici non possono nulla; a maggior ragione, se non li si preferirà nemmeno ad una puntata di “X Factor”, la comprensione effettiva della realtà rimarrà a livello infimo e con essa la capacità di migliorarla.
Sia ringraziato il cielo che con l’azienda e/o le amicizie di papà molti potranno in ogni caso batter cassa, il Cayenne e le serate al “Briatore’s Zoo” saranno salve, e il resto, infondo, non è che sia poi così importante.
 
Nella letteratura di qualità capita che attorno all’obiettivo tematico principale gravitino parecchie sfumature spesso capaci di costruire tra autore e lettore un vero ponte comunicativo, propedeutico ad una lettura interessata e completa. Ho vissuto la sensazione che questo ponte funzionasse a dovere l’ultima volta alcuni mesi fa, durante la lettura del “Libro del Cortigiano” e de “Le Vergini delle Rocce” di dannunziana memoria: con queste due opere la connessione classici – attualità mi è parsa talmente necessaria da diventare doverosa.

In riferimento all’opera del Castiglione può sembrare strano, di primo acchito, tentare un’interpretazione contemporanea di un trattato in cui la parola “mediocrità” viene trasformata da una delle peggiori offese del ventunesimo secolo ad emblema del sapersi comportare. Nell’epoca in cui stupire significa esistere è forte il rischio di passare per anacronistici nel cercare di capire per quale motivo l’unica opera italiana cinquecentesca conosciuta a menadito nell’Europa dell’ancien régime ha ancora qualcosa da insegnarci. Basta terminare il 1° libro per trovare delle risposte.
Pur riconoscendo senza difficoltà l’istanza omologante del trattato ed il goffo paradosso di insegnare regole di comportamento a chi, in teoria, non dovrebbe necessitare delle lezioni di nessuno, è impossibile non rilevare spunti ricchi di tradizione e di straordinaria necessità.
Il principio fondamentale di tutte le gesta umane è la grazia, “regula universalissima”, colei che deve essere ispiratrice di ogni azione formale e “tecnica”, ma soprattutto sostanziale, come nel caso dei rapporti umani. Il rifiuto delle esagerazioni e dell’artificiosità (per il Canossa uno dei peggiori difetti possibili), l’attenzione alle libertà di cui si può o meno disporre, il rapporto con l’interlocutore verso il quale porsi in modo rispettoso ma schietto, conducono all’obiettivo attraverso una forma che lentamente scivola nella sostanza diventando nobiltà non necessariamente o quantomeno non esclusivamente araldica.
Chissà cosa penserebbe il raffinato espositore della “regula universalissima”, leggendo la feroce concretezza di D’Annunzio, che testualmente sbotta: “(…) si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui né il parrucchiere né il sarto né il calzolaio avevan potuto togliere l’impronta ignobile; (…) riconoscibili dalla goffaggine insolente delle loro pose, all’impaccio delle loro mani rapaci (…) E parevano dire: Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!”
La delicata e ossessiva ricerca della forma che si fa sostanza non trova qui alcuno spazio; quella del Vate è una rabbiosa sequela d’insulti attribuiti ad una borghesia “palazzinara” inarrestabilmente in ascesa, ma palesemente incapace di gestire un cambiamento di stato sociale repentino. Sul misero affresco dannunziano il riferimento all’attualità ha compiti estremamente diversi rispetto agli elaborati ragionamenti cinquecenteschi; non si tratta più di proporre una strada da percorrere, bensì di analizzare un dato di fatto: il trionfo della “non grazia”.
L’immagine dell’involuzione di una classe sociale svincolata da ogni freno, spinta dall’unica volontà di mettere mani ovunque, di dominare, di comprare tutti, di essere il centro del potere, ci proietta bruscamente nell’anno del Signore duemilaotto. Chi parla di regole etiche in economia e di moralità non può che essere un perdente palesemente incapace, alla disperata ricerca di una giustificazione per il suo fallimento. Tutto è mezzo di un solo fine: la propria affermazione.
In questi ultimi ragionamenti è riconoscibile un pensiero esposto meravigliosamente da Roberto Saviano nel suo “Gomorra”; per uno strano scherzo della letteratura la brama di ascesa socioeconomica ed un aspetto della mentalità mafiosa finiscono nello stesso pozzo di riflessioni.
Questo accostamento conclude le mie visionarie considerazioni sulla formale e sostanziale decadenza della grazia, contro la quale l’invito è di opporsi fino all’ultimo respiro.


Famiglia a banda larga

luglio 2nd, 2008 by Maria Domizia Grispini | 7 Comments

La famiglia di oggi, è diversa, è cambiata ed appare felice. Il più delle volte è, infatti, un gruppo disordinato e scoordinato di individui che si nascondono dietro una maschera. Sembrerebbe non avere più senso cercare di risolvere le diatribe familiari quando la soluzione più agevole è mollare tutto e subito. Non ci possiamo permettere di perdere tempo.
Eh si! Perché no?! Alla fine va anche di moda, ed è una bella esperienza sposarsi: una bella festa, uno splendido vestito, tanti invitati, bei regali, il viaggio di nozze…Due anellini…
Tanto se ci dovessero essere delle piccole incomprensioni, ognuno per la sua strada.
Quanto può valere quella promessa di fronte all’altare se non si va d’accordo? La nostra felicità prima di tutto. È così semplice! E i bambini? Che problema c’è?! Un po’ per uno non fa male a nessuno. È così che dice il proverbio.
-Sai? Mamma e Papà si vogliono ancora bene ma non vanno più d’accordo, così hanno deciso di vivere separati e tu avrai: due case, due natali, due compleanni, due pasque e tanti tanti regali.
Questa è la migliore delle ipotesi, quando siamo tutti d’accordo ed abbiamo un bel “rapporto civile”.
Dunque, così si volta pagina. Però ora è quasi d’obbligo rifarsi una vita, troppo strano chi rimane da solo e va avanti con coraggio per amore dei propri figli. È necessario un compagno a cui appoggiarsi, magari anche lui con la nostra stessa storia, con alle spalle un matrimonio finito per le troppe divergenze, per la situazione difficile e pesante. È meglio così per tutti.
No! Nessun problema! I bambini l’hanno presa bene! Hanno compreso.
Ormai è qualche anno che ci frequentiamo, perché non andare a convivere? I nostri bambini si sono conosciuti, giocano insieme e si divertono, non avranno problemi a condividere la stessa casa come fratelli; proprio come una famiglia, o per meglio dire “ la classica famiglia allargata” che i tempi moderni spacciano per microcosmo felice.
I bambini sono sereni, perché basta che giocano e sono contenti…Questo è il sentore nella società di oggi. Ma sarà questa la vera felicità?

Se papà e mamma non stanno più bene insieme si separano ed ognuno di loro trova un altro partner, magari anche lui separato con figli al seguito, con cui inizierà una convivenza “bellissima” che nel classico matrimonio sembra impossibile; ci saranno fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre, due mamme e due papà. Infatti per il mondo non c’è convenienza alcuna nello scegliersi un unico partner per tutta la vita e giurargli fedeltà eterna, magari anche dinanzi a Dio, e con questo invecchiare, vivere insieme giorno dopo giorno, sopportarne le pesantezze e gli stadi umorali. Perché vedere il proprio coniuge che invecchia quando, invece, la vita sembra offrirti mille accattivanti occasioni?
Tutto molto facile. Un bambino di nove anni, a cui basta giocare per essere felice, non avrà alcuna difficoltà a spiegare la situazione che vive a i suoi coetanei, perché è normale. Se non si sta più bene insieme, evidentemente il matrimonio è stato un errore e non vi è difficoltà a rimediare.
Al giorno d’oggi è la “famiglia allargata” ad essere la protagonista, e si dimostra così “splendida” e “felice”, ma dietro questa denominazione si nasconde qualcosa di ben lontano dalla famiglia classica, che ormai “suona” strana insieme ad altre parole come: un solo matrimonio, tre figli o più e coniugi, che pur avendo punti di vista diversi, vanno avanti cercando di utilizzare una “bilancia” per trovare un compromesso.
L’ipotesi più sofferta è quando mamma e papà utilizzano come armi di battaglia le loro creature. Il tribunale come terreno su cui battersi a tutti costi per ottenere ragione tra giudici, avvocati ed ancor peggio tra psicologi infantili che sono lì solo per cogliere “the best interest of the child” attraverso i loro disegni, le loro parole e talvolta con domande tendenziose come: “ti ha tirato forte i capelli mamma per fare queste bellissime trecce?” Il bambino dovrà così scegliere di fronte ad un bivio: da una parte mamma e dall’altra papà. La sua mente piena di interrogativi come il perché non si possa stare tutti insieme e il perché gli vengano fatte tutte quelle domande quasi come un’interrogazione.
Gli anni passano e nel frattempo il bambino continua a giocare, sorridendo se si diverte, ma nell’animo scivolano lentamente: sgomento di ciò che non comprende e di quello che sarà di lui…cresce così, prima degli altri… la sua infanzia “strappata” con la forza.
La causa è finita e il giudice ha deciso. Ancora, continuerà a giocare perché è un bambino e i bambini giocano, è attraverso i giochi riescono ad elaborare i dolori, soffrirà silenzioso quando andrà a casa del suo amichetto che avrà: solo fratelli, una sola mamma, un solo papà, un solo Natale, una sola Pasqua, un solo compleanno, una sola piccola famiglia piena d’amore.
Dovrà vivere come normale una situazione che viene considerata così, ma che non lo è. Si sedimenterà in lui un modello familiare “anomalo”, e ciò che lo ha ferito passerà con il tempo, non farà più male, ma rimarranno evidenti le cicatrici a richiamare la memoria.
Un domani, adulto, non potrà lamentarsi della mancanza di qualcosa. Ha avuto tutto: il gioco nuovo, il motorino più figo e la decappottabile al suo diciottesimo compleanno ma rimpiangerà una sola “piccola cosa”… Un unico tetto sulla sua naturale famiglia…che rimarrà un sogno.


L’amour est un oiseau rebelle

maggio 16th, 2008 by Miša Capnist | 11 Comments

L’amour est un oiseau rebelle

Non posso, non posso non posso impedirmi.
Creatività, amore, affetto, tenerezza, sole, pic nic in riva al canal Saint Martin alla luce riflessa dalle acque increspate dallo sgocciolare lontano delle dighe. Sono incontri, evoluzioni, fiducia, gavetta. Ordine, luce, colori, profumi, ricordi, progetti, fatica, presa di coscienza, vetrine, negozi, persone, cieli sereni, giornate lunghissime. Entusiasmo, disposizione all’amore, puntualità, calma.
Non è facile prendere coscienza di quello che si è veramente. Non è facile. Si crede si crede, e poi eccola, la verità, luminosa ma nascosta. Una biblica fiamma che teniamo in vita, segretamente, inconsciamente. Che non sappiamo o non vogliamo sapere di avere. Come brucia, quella verità. Quella consapevolezza del richiamo. Quell’appuntamento con la propria intelligenza a cui spesso si cerca di arrivare tardi, per paura, per nostalgia, per lentezza, per idea che possa aspettare. Quel cambiamento di vita radicale, quello stacco netto ma delicato, e quella distanza con le idee infantili o primitive che si avevano sul futuro. Sul proprio. Immagini che cambiano, radicalmente ma serenamente. Capire cosa fa per noi, e correrci dietro. Perché stavolta è vero, stavolta siamo noi. Stavolta – cazzolina – , ci salgo in questo treno. E allora si prova un’emozione entusiasmante, una frenesia di vita, di cose, di fare, di dire, di imparare. E la testa gira, rimettere i piedi per terra, ma rendersi conto che, no: che hai capito. Che la tua vita non sarà come quella degli altri, perché quella è la tua. Anche perché, quella volta, hai deciso di andartene dall’Italia.
Lasci tutto. Tutto quello che, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto essere il tuo futuro, in modo concreto. A volte si torna. A volte non abbiamo più voglia di “non essere nessuno”. E si torna a coccolarsi nel comodo caldo passato. A volte lo si ricopre d’oro, e lo si lascia lì, nell’angolo del mitomane, per cercare di capire cosa fare per il futuro, o quasi.
Ci si destreggia in condizioni disagiate, un lavoro “finché non ne trovo un altro”, un appartamento “finché non trovo di meglio”. Il rassicurante rientro a casa accolti da un buongiorno ci sembra un lusso inquantificabile, perché ci siamo ammazzati di lavoro tutta la giornata, in una lingua che non è la nostra, in un Paese che non ci appartiene, paragonandoci in ogni istante con una realtà che non conosciamo. Eppure restiamo. Una voce – forse quella dell’ambizione, anche se preferisco pensare che sia incoscienza – ci tiene saldi ancorati all’estero.
E i progetti? Molti dei ragazzi che ho incontrato a Parigi non ne hanno. Sono qui per vedere. Vengono a farsi un’esperienza, spesso rientrando poi in Patria, e ripetendo per tutta la vita che “io la conosco Parigi. Ci ho vissuto”.
Sei mesi.
Molti dei ragazzi che conosco non pensano di fermarsi a stare in città. Molti dei ragazzi che conosco vogliono tornare a Casa. E rituffarsi nel lussuoso buongiorno di cui prima.
Non lavorano per averlo qui, il buongiorno. Non conoscono il café nascosto dietro ai giardini del Palais Royal. Per andare al lavoro non hanno sostato al semaforo rosso, rallegrandosi per quella breve sosta all’ombra del Louvre.
Non conoscono i centri sociali – molto differenti da quelli italiani – in cui si passa a fare il brunch la domenica mattina, in compagnia di musicisti, attori, creatori, stilisti e qualche rasta-punk. Ed è un peccato.
Sono convinto che conoscere veramente una città – a parte i rari veri innamorati della propria – si debba essere forestieri. E comporre un inno alla vita, musicisti dell’intelligenza, tuffandoci in quel ciclone che è la quotidianità. Captando particolari, sguinzagliando istinti, notando dettagli, ascoltando parole e vento, parlando la città. Cogliere le differenze di costume, in risposta ad alcune delle quali restiamo a bocca aperta, sdegnosamente increspata, o stirata in un sorriso interessato o divertito.
Vivere appieno la possibilità di costruirsi di nuovo, approfittare di questa chance irripetibile per reinventarsi, per non essere il figlio di nessuno, perché le raccomandazioni che riceviamo sono state completamente meritate, e noi ne andiamo fieri.
Non vogliamo scoprire se abbiamo veramente talento? Se possiamo farcela senza nasconderci nell’armadio delle pellicce della mamma? Non abbiamo il diritto di spostarci, per trovarci? Per vedere che un’altra cultura ci si confà di più che, in effetti, me voilà, io sono così: a me piace stare delle ore sotto la doccia e al bar io preferisco il succo di frutta al caffè. Fermi tutti: è stato uno sbaglio culturale!
In Francese esiste il verbo “assumer”, la cui traduzione precisa in italiano mi sfugge. En gros è comparabile – come forma mentis ma non come significato lessicale – al presente storico latino odi: dopo aver ricevuto l’informazione, prendo conoscenza dell’oggetto di cui si tratta, e mi comporto di conseguenza. Bene: io trovo che questa esperienza all’estero (posso ancora chiamare Parigi “estero”?) mi abbia salvato la vita.
Non vogliamo vedere di cosa siamo capaci?
Ci vuole pazienza, e carattere, e coraggio di vivere in una chambre de bonne col cesso sul pianerottolo facendo mille lavori o uno solo ma mal pagato i primi periodi se puoi chiamarti ricco.
Ma se arrivi a vederti, se ti tocchi, vivere è un entusiasmante combattere e sfidare, progettare e ridimensionare, prendere coscienza, respirare in un infinito presente con il proprio futuro chiaro in mente, e i modi per arrivare alla meta.
Esplodendo di sole, in un delirio da baccante, la speranza che la lama rotatoria che gira all’altezza del diaframma ci apra in due come una mela.
Viviamo, per favore, viviamo.


Lo svilimento dei sentimenti nella società contemporanea

maggio 13th, 2008 by Maria Domizia Grispini | 8 Comments

Lo svilimento dei sentimenti nella società contemporanea

Paura dei sentimenti e incertezza per il futuro in una società mediatica fortemente aggressiva. Sembra essere questa la fotografia dei giovani d’oggi incapaci di guardarsi realmente negli occhi e di ascoltarsi. Il vero problema è, quindi, la paura.
Paura di esprimere se stessi.
Nessuno potrà mai dire quello che prova, o chi lo farà, mormorerà… perché è la società che impone di indossare quella maschera formale, che rende tutti uguali.
Paura di rischiare.
Perché i sentimenti non sono spariti, ma sono solo tenuti a freno, non per il timore che non siano corrisposti, ma per la paura che si venga a sapere…Poi cosa diranno? Cosa penseranno?
Paura di perdere la propria maschera, così forte, ma anche solo di un suo piccolo spostamento che possa far intravedere anche solo una parte del vero volto.
Dove sono finiti i piccoli gesti , gli sguardi rubati, il cuore che batte, le dita che si sfiorano?
Le poche volte che accade ciò, emerge la diffidenza… il distacco è un rifugio più sicuro.
I messaggi sbagliati dei mass-media rimbombano nelle menti, come un comando da eseguire alla lettera come robot.
Una gioventù massificata dove lo scopo è il “divertimento”, ma non l’idea di divertimento che nel cuore di alcuni si cela, ma quel divertimento impostato dalla società: il falso divertimento.
Eppure basterebbe osservare con attenzione. Ogni abbraccio, carezza, bacio, è sempre più spesso una ricerca d’affetto, d’ amore, di quell’amore reale che si nasconde nel cuore di alcuni o forse della maggior parte. Ma guai a rivelare il vero sentimento! E’ segno di debolezza!
Il divertimento è un “dovere”, la maschera d’acciaio va tenuta sul volto, dimostra la nostra forza, perché se così non fosse si potrebbe essere noiosi… e chi vorrebbe avere a che fare con dei noiosi?
Parole tabù, quelle d’amore, potrebbe rivelare il cuore, che va tenuto celato a tutti i costi.
Marchiati con un sorriso che non appartiene al cuore ma è reimpostato. Sguardi persi e confusi, solo in apparenza divertiti, ma che nascondono tristezza e solitudine. Staccarsi dal “branco” fa paura, rende vulnerabili.
E pensare che ogni persona si distingue dall’altra, sorprende nel bene e nel male, è un insieme di emozioni forti, che ognuno avrebbe il diritto di esprimere. La vita solo così sarebbe veramente piena.
Paura di stare bene, questa è la vera paura, perché questo può sembrare impossibile nella nostra società; la società degli abbandoni, delle separazioni, della guerra…



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