Dallongaritmo

settembre 7th, 2009 by Antea Brugnoni | No Comments

Dallongaritmo

Quando ho conosciuto Michele dall’Ongaro stava cercando di districarsi da una folla in ovazione. A Pavia, si sentiva per la prima volta parlare del rapporto tra musica e nuove tecnologie e sembrava incredibile che qualcuno riuscisse a farlo in maniera divertente.
Quando ho rivisto Michele dall’Ongaro, a Roma, di fronte a un piatto di tartine ai gamberetti, pronta ad attanagliarlo con domande sui metodi avveniristici di rappresentazione musicale, mi ha promesso di farmi diventare intonata in un mese [facendomi andare di traverso la tartina]. Compositore, musicista e un poco scienziato, Michele dall’Ongaro ama giocare con la musica, con tutte le musiche. Ha collaborato con uomini di prestigio, è stato curatore per la Musica della Biennale di Venezia, è responsabile della programmazione musicale di Rai Radio 3 e sovrintendente dell’orchestra della Rai, eppure ha ascoltato con pazienza le mie noiose domande tentando un’ennesima volta il miracolo: spiegare la musica a chi di musica non sa niente.

Esistono suoni che possono definirsi ‘propri’ di un computer?
Certo che esistono suoni che possono dirsi “propri “ di un computer ma non credo si possa azzardare un paragone tra gli strumenti musicali tradizionali e quelli che ci mettono a disposizione le nuove tecnologie.
Si tratta forse dello strumento del nuovo millennio?
Non direi “lo strumento del nuovo millennio”, poiché il computer  non è uno strumento ma un generatore di processi:  i famosi nove oscillatori dello Studio di Fonologia della Rai di Milano erano uno “strumento”, ma – per usare una formula forse un po’ inflazionata -  per comporre “i suoni” e non per comporre “con i suoni.”
Un approccio diverso, quindi. Eppure, uno studente di composizione segue in conservatorio dei programmi classici; ne farà realmente uso, o farà solo ricorso a tecniche contemporanee?
Le cose che un compositore deve imparare e sapere sono sempre le stesse, qualunque sia il tipo di musica che intende fare (dalla computer music alla colonna sonora, dal jazz al piano-bar, dal teatro musicale alla scrittura sinfonica o cameristica).  “La musica è la scienza che insegna a modulare bene”, scrive Agostino nel suo De Musica, confermando quindi che la ricerca del movimento ben regolato è un bene in sé stessa, fine a sé stessa, che deve procurare diletto (nel senso di intenso e duraturo godimento dello spirito). La ricerca di questo obbiettivo, del modo di conseguirlo, delle sue regole interne e delle tecniche è una scienza che deve essere praticata senza limitazione alcuna.


Stop Pirates?

marzo 7th, 2009 by Vincenzo Ruocco | No Comments

Stop Pirates?

Chi crede oggi nel liberismo? La teoria della libera iniziativa e il libero commercio, con l’intervento statale limitato nell’economia attraverso la costruzione delle infrastrutture che possono favorire la pratica commerciale.
Chi crede oggi nel neoliberismo? Nouvelle vague globalizzata attraverso la rinascita della Scuola austriaca al cui interno si sono mosse teorie eterogenee che abbracciano l’idea dell’intervento dello stato attraverso azioni utili a consentire la concorrenza, e altre che puntano ad una forma estrema di quel liberismo battezzato anarco-capitalismo.
In questo periodo storico in cui molti governi proclamatisi liberisti scelgono di barricarsi in enclavi protezionistiche ci si aspetterebbero azioni di sostegno nei confronti di piccole e grandi imprese. Capita davvero?
I miei occhi osservano le copertine dei vecchi album di dischi in vinile che mio padre ha conservato negli anni con zelante piglio animistico. I 78 giri e i 45 giri fino ai 33 1/3 conosciuti come LP, i long-playing. I CD acquistati da me nel periodo dell’adolescenza, comprati in un negozio storico di Bologna, lo stesso in cui più di vent’anni prima si recava mio padre a bordo di quella FIAT 850 coupé bianca che tanto fascino possiede ancora oggi.
Nannucci era la casa degli intenditori, non solamente di quelli che vivevano all’ombra delle Due Torri ma di molti altri che arrivavano dalla Toscana, dalla costa adriatica, dal nord-est. La dimora degli amanti sinceri di tanti generi musicali, dei neofiti dell’ultima ora, il luogo dei pensieri d’amore che venivano acquistati per essere regalati alla persona del cuore, lo spazio aperto ai confronti e ai suggerimenti in tema di buona musica. Ancora oggi, parlando con molte persone, si può godere dei racconti di chi in questo negozio fece il primo acquisto, dipingendo con le parole mosse dal ricordo ancora vivo di molti un campionario di straordinaria ricchezza artistica e storica. Era, se vogliamo, il domicilio dei sabati pomeriggio spesi a valutare l’acquisto dell’ultima opera firmata Genesis o Pink Floyd, John Coltrane o Nina Simone, fino ai Marlene Kuntz e Africa Unite.
La notizia vera è la chiusura entro aprile del Nannucci Store di Bologna, come vero è il rammarico dei tanti che vedono scomparire un pezzo di cultura di questa città. Non serve essere necessariamente musicofili per condividere l’amarezza, un’amarezza che, va detto, nasce anche dal lassismo delle Istituzioni.
Federico Galassi si è prodigato in favore di questo servizio culturale bolognese che il negozio ha offerto fin, ricordiamolo, dal 1936 trasformando via Oberdan nella meta indiscussa e obbligata degli appassionati di musica. Attraverso Facebook ha scelto di fondare il gruppo “Quelli che non vogliono la chiusura di Nannucci”. Il numero dei membri è in costante crescita e benché sia nato solo pochi giorni fa i risultati finora ottenuti in termini di iscrizioni sono la testimonianza di quanto sia sentita la vicenda.
Il mercato della musica, a livello mondiale, è in crisi. Le grandi majors sono scese a patti con l’iTunes music store firmato Apple, altri music stores nascono e nasceranno nel prossimo futuro. Consapevolmente bisogna accettare quella pratica piratesca dello scaricamento illegale che è in fondo la vera spina nel fianco delle case discografiche, senza dimenticare il costo eccessivo dei prodotti, CD, album, ecc.
Sono state avanzate proposte la cui efficacia è tutta da dimostrare ma certamente potrebbero rappresentare una nuova rinascita, sempre che i proprietari del negozio, proprietari dei muri stessi, vogliano trovare una soluzione.
La politica è poi fondamentale per risolvere la questione. Senza dubbio deve costituirsi un fronte trasversale agli schieramenti unito alla scesa in campo di Fondazioni bancarie. Potremmo allora dire che dovrà essere merito della buona politica.
Le proposte avanzate dal Comitato costituito da Galassi sono, per ora, le seguenti:
- ridurre della metà lo spazio di vendita
- destinare l’altro 50% a sale prove e concerti per giovani gruppi
- costituire una libreria musicale di qualità
- commercializzare il vinile di nuova produzione
- dare spazio all’usato di ottima qualità, soprattutto vinile
Il gruppo costituito da Galassi, gemellatosi per l’occasione con un altro gruppo nato a sostegno della causa, darà appuntamento sabato pomeriggio alle ore 16 da Nannucci in Via Oberdan, 7/C. Si cercherà di risollevare, per quanto possibile, le sorti del negozio attraverso l’acquisto di un CD. Tutti coloro interessati sono invitati a partecipare.


I ricordi d’infanzia di Jane Birkin

febbraio 16th, 2009 by Giovanni Biglino | No Comments

I ricordi d'infanzia di Jane Birkin

Varcata la soglia dei sessant’anni, Jane Birkin pare più attiva che mai. Dopo una carriera da attrice durante la quale ha recitato in più di cinquanta film in un’alternanza di pellicole indipendenti e lavori di grandi registi (da Antonioni, che la scelse per Blow up, a Rivette) con alcune incursioni nel mondo del teatro, recentemente Jane ha debuttato alla regia dirigendo il film autobiografico Boxes, presentato a Cannes nel 2007. Sul versante musicale invece, la “scandalosa” interprete di Je t’aime, moi non plus si era sino ad oggi divisa tra ballate di Serge Gainsbourg (talvolta riproposte in versioni originali e di successo, come nel caso del disco Arabesque) e collaborazioni interessanti. Nell’album Rendez-vous ha duettato con interpreti disparati, passando da Françoise Hardy a Manu Chao, da Paolo Conte ad Alain Souchon. Nel successivo album Fictions invece Jane era solista e le canzoni erano state appositamente scritte per lei da Rufus Wainwright (la spensierata Waterloo), Beth Gibbons, Arthur H, Tom Waits, Kate Bush. Inoltre fu sempre lei a curare il progetto Gainsbourg Revisited, per commemorare i quindici anni della scomparsa di Serge, e per l’occasione coordinò un’eclettica schiera di interpreti (Jarvis Cocker, Marianne Faithfull, Carla Bruni, Portishead, Michael Stype, Franz Ferdinand) che hanno riadattato le più celebri canzoni di Gainsbourg in inglese – con tanto di I love you, me either, una cover “lesbica” affidata a Cat Power e Karen Elson. Ora, nel suo ultimo disco Enfants d’hiver, Jane si è cimentata per la prima volta con la stesura dei testi.

Probabilmente sentendo un forte impulso a guardare indietro (una sorta di autobiografia multiforme iniziata col film Boxes, nel quale, accanto a Michel Piccoli, Geraldine Chaplin e sua figlia Lou Doillon, Jane recitava nel ruolo di se stessa) l’album si propone in forma molto riflessiva. Su semplici melodie appositamente scritte per lei e per il suo progetto autobiografico – fra gli altri anche da Alain e Pierre Souchon – Jane crea un disco di grande candore. A cominciare dalla copertina e dal libretto, in cui troviamo vecchie foto di famiglia. Jane Birkin apre la scatola dei ricordi e non guarda agli anni del successo, non guarda agli anni Settanta in cui era un’icona di stile (e lo è rimasta sino ad oggi, basti pensare all’omonima borsa di Hermès), ma guarda all’infanzia. Figlia dell’ufficiale David Birkin e dell’attrice Judy Campbell, famiglia molto British con forti legami con l’aristocrazia, ripensa ai giochi d’infanzia con i fratelli Andrew (il regista) e Linda. Ma lo canta in francese, la sua seconda lingua. Forse per creare un certo distacco dai luoghi e dalle persone, forse perchè abituata al vocabolario di Serge Gainsbourg (la cui presenza, inevitabilmente, aleggia anche su questo disco). Da un lato in Enfants d’hiver, la canzone che dà il titolo all’album, vengono evocate “les plages noirs” dell’isola di Wight, sfondo delle indimenticabili vacanze estive – Jane ricorda quel tempo in cui lei e i suoi fratelli prendevano le biciclette all’alba e vivevano l’avventura di una giornata di vacanza – e sospira: “C’était génial”. Dall’altro in Period bleu troviamo la Bretagna: “Il y a un carnet qui dispose de belles images de nous en Bretagne”. E il vento sulla spiaggia.
Nel disco troviamo anche un segno del suo impegno civile, con la canzone Aung San Suu Kyi. Dedicata alla leader dell’opposizione al regime che opprime la Birmania, alla melodia si alterna il parlato (in inglese): fatti, date, rapporti di Amnesty International. La canzone si conclude semplicemente: “This is a plea for Aung San Suu Kyi”. Un’altra causa per la quale Jane è impegnata è Anno’s Africa, in memoria del nipote Anno Birkin (figlio di Andrew) prematuramente scomparso nel 2001 in un incidente stradale a Milano insieme a tutti gli altri componenti della sua band, Kicks joy Darkness. Oltre ad essere musicista Anno era anche poeta ed i suoi testi, fra cui alcuni particolarmente intensi, sono stati raccolti nel libro Who said the race is over?. Attraverso la fondazione a lui dedicata vengono attuati progetti di educazione musicale in Africa. Jane sempre impegnata, non per posa ma per convinzione; un entusiasmo à la Joan Baez, con le dovute differenze.
Nel disco aleggia una malinconia piacevole. Jane Birkin si affida alla memorie d’infanzia per scrivere i testi e si siede in attesa che un fantasma le faccia visita (nell’ultima canzone  del disco, Je suis au bord de ta fenêtre). Eterea, come il profumo che ha creato per sé insieme a Miller Harris, dall’impalpabile nome “Air de rien”.
Con Enfants d’hiver ci ha condotti in un mondo fatto di visioni e di ricordi. Jane sulla spiaggia della Bretagna, accompagnata dal fedele bulldog Dora, senza i suoi amanti, sola, guarda verso l’Inghilterra. Scalza, un paio di jeans, i capelli corti su un viso solcato dalle rughe e sempre molto affascinante.


L’anno che verrà

gennaio 12th, 2009 by Vincenzo Ruocco | 1 Comment

Era il 1978 quando Lucio Dalla regalava al pubblico italiano “L’anno che verrà”.

Trent’anni più tardi l’ascolto di questa canzone dona ancora le medesime emozioni.
Il 2008 è finito, scivolato via velocemente, incapace di regalare momenti di fierezza nazionale. La grossa novità, ha proprio ragione Dalla, è che “l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va”.
Così la lettera scritta a un caro amico diventa il tentativo di trovare forza e fiducia. Una lettera dalle parole che sanno di favola, capaci di lasciare in bocca un gusto amaro e negli occhi, purtroppo, quel bruciore di lacrima non pianta che si prova quando si tagliano le cipolle.
In fondo “vedi caro amico cosa si deve inventare per poter riderci sopra, per continuare a sperare?”.
Dunque questa Italia, vissuta da noi tutti, finisce per avere le sembianze di un soggetto buffo, impacciato ed inutile. Coloro che hanno ancora un briciolo di fiducia la stanno perdendo sempre più velocemente. È come se stessimo cercando di riempire d’acqua uno scolapasta.
“L’anno che sta arrivando tra un anno passerà”.
Avvertimento, minaccia oppure stimolo, sprone?
“La storia siamo noi” cantava invece Francesco De Gregori, “attenzione, nessuno si senta escluso”, “siamo noi che abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere”.

Siamo noi anche la Seconda Repubblica, il nuovo corso, “the new deal”, noi che possiamo, “yes we can”, noi che abbiamo un sogno, “I have a dream”. Al di là degli slogans più o meno fortunati forse siamo noi che più non ci crediamo.
“E poi la gente, è la gente che fa la storia”, “la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano”.
Forse tutto si risolve nella capacità di comporre la giusta playlist.
Una canzone diventa manifesto, mantra ripetitivo, trasforma la nostra persona in un cavaliere con scudo e spada, causa l’aumento dei battiti del cuore o provoca dolore fino a farci morire.
La giusta playlist è anche un modo per andare avanti, passo dopo passo, mese dopo mese. Non un tentativo puerile di fuggire dalla realtà bensì proprio di immergersi nella realtà con la capacità di riconoscere le problematiche ricercando le soluzioni più adatte.
I due brani diventano così ossimoro, fondendosi l’uno nell’altro, creando un reale fittizio all’interno di un immaginario autentico.
Ripenso alla locandina di un film, “Fight Club”, i nomi mischiati, o meglio confusi, assortiti, ingannati noi come da un abile prestigiatore.
Brad Pitt, Edward Norton, Brad Norton, Edward Pitt.
“La storia dell’anno che verrà”, ecco dunque il nuovo titolo.
Dicono sia già scritta questa storia come quella dell’anno successivo e quello ancora dopo. Gli analisti, lungimiranti, manifestano sicuri le loro traballanti certezze, si mostrano vestiti in giacca e cravatta quando dovrebbero dichiarare bancarotta, ci dicono dove investire il risparmio dimenticando l’estinzione dei risparmiatori, ci mostrano grafici con rette che si impennano verso il cielo, ci dicono di aspettare e di smetterla di asserire che tutto va male.
La storia dell’anno che verrà mi piace pensare sia tutta ancora da scrivere, tutta da inventare.
Cosa aspettarsi dunque da questo anno?
Quali elementi latitano all’interno del “Sistema Italia” così tanto tronfiamente definito?
Quali obiettivi si pongono gli italiani per il 2009?
Che tipo di crescita individuale si apprestano ad affrontare?
E da ultimo, volendo realizzare una playlist per l’anno oramai in corso, quali brani potrebbero occupare i dodici posti disponibili?


Il pentagramma s’è incrinato

dicembre 24th, 2008 by Giacomo Scocco | No Comments

Il pentagramma s'è incrinato

Quella che segue è un’intervista al M° Vittorio Zanon, formatosi al conservatorio di Rovigo e specializzato con maestri quali Curtis, Marcon, Morini, Stanbridge e Koopman. Oltre a svolgere attività concertistica come musicista ed essere direttore di coro e di complessi vocali-strumentali, è direttore del Consortium Carissimi di Roma e del Polifonico città di Rovigo.

Maestro, qual è a suo avviso lo stato dell’arte ed in particolar modo della musica in Italia?
Credo che in questi ultimi anni le cose siano andate peggiorando progressivamente e che il «patrimonio» di potenzialità umane, ovvero di coloro che per indole, talento e professionalità si dedicano (o vorrebbero dedicarsi) all’arte e alla musica in particolare, sia stato messo in crisi. Non è solo una questione economica generale: in fondo i milioni di euro per produrre grandi eventi nel campo dell’opera lirica, ad esempio, ancora sono in gioco; piuttosto è una politica portata avanti da amministrazioni centrali e locali miopi. Purtroppo è venuto progressivamente a mancare quel piccolo contributo pubblico che teneva in vita associazioni musicali (no profit) che sul territorio organizzavano eventi non certo eclatanti, ma di livello musicale e culturale anche rilevante. Non essendo più attive queste persone che generosamente si attivavano per promuovere quest’attività coinvolgendo anche sponsor privati, i capitali di questi o sono rimasti nelle loro tasche o sono stati convogliati in operazioni culturali e musicali più grandi (fondi per i teatri o per concerti di musica «leggera»), se non addirittura passati ad altri campi (sport in particolare). Il pubblico che godeva di concerti di buon livello anche se prodotti con pochi mezzi ora non ha più nemmeno quelli. Sono morte così esperienze decennali che coinvolgevano musicisti e amatori, esperienze che promuovevano l’aspetto umano del fare «collettività» attorno alla musica: chi propone, chi opera per realizzare, chi finanzia, chi esegue, chi critica. Questo a danno soprattutto dei musicisti più giovani, di coloro che, finiti gli studi musicali, hanno voglia di misurarsi col mondo del concertismo. Per loro, dopo i saggi del Conservatorio, rimane ben poco nel mondo reale: si fa dell’altro e si buttano alle ortiche anni di studio e di passione
In tempi di precariato, il musicista com’è messo?
A livello di Conservatorio siamo alla frutta, nel senso che le possibilità di lavoro sono molto ridotte, i docenti titolari (di ruolo) sono ancora abbastanza giovani (anche se assunti con modalità alquanto discutibili in molti casi). L’apertura di nuove discipline di studio ha aperto un poco le porte, ma la regola è l’assunzione a tempo determinato o con contratti a progetto o con semplice lavoro autonomo occasionale (con la ritenuta d’acconto per capirci). In più i docenti aggiunti (quelli che vanno ad insegnare materie che le professionalità di ruolo non riescono a coprire) sono pagati molto meno dei docenti di ruolo, magari per fare materie affini se non addirittura identiche. La precarietà è all’ordine del giorno. Restano i concerti (con le difficoltà sopra descritte) e quindi se si vuol lavorare si va all’estero, dove le cose vanno un po’ meglio (Francia, Spagna, Germania, Svizzera) e dove sono riconosciute di più le professionalità e dove il tessuto sociale chiede e apprezza il fare musica. Tanti Italiani ricoprono ruoli di docenza di prestigio o suonano e cantano in complessi musicali di altissimo livello. Normalmente essere Italiani vuol dire dare la garanzia di qualità (almeno così ci riconoscono all’estero), a differenza dell’Italia che non sa bene cosa farsene di tanti bravi musicisti.
A chi dice che la musica «colta» è lontana dalle persone ed avulsa dalla realtà quotidiana, cosa risponde?
È un problema squisitamente italiano, anche se vivendo in questo Paese non possiamo far finta che questo non sia vero. All’estero non c’è il problema di che tipo di repertorio fai: la gente normale è sufficientemente preparata per sapere che cosa va ad ascoltare e normalmente è curiosa di sentire anche musica nuova o vecchia «riesumata»: non disdegna di scoprire nuovi autori e non chiede sempre i classici. Noi Italiani siamo viziati da accostamenti errati al repertorio musicale, ne sia la riprova che (esperienza diretta) una bambina di tre anni ascolta divertita sia i «Tre porcellini» sia una Suite di Handel suonata al clavicembalo dal suo papà… E non è una bimba particolare, semplicemente si trova in mezzo ad esperienze acustiche diverse fra loro. Un giorno farà la propria scelta, ma non avrà problemi (spero) nel seguire un concerto di musica cosiddetta classica. Conosco comunque tanti giovani che, pur provenendo da esperienze corali con repertori assai ritmici (tipo il gospel) riescono ad emozionarsi con brani del XVI secolo e s’impegnano nello studio di brani che ai più risultano difficili anche solo all’ascolto e si arrabbiano se non riescono a far bene.
Cosa ritiene dovrebbe essere fatto per migliorare la situazione della musica in Italia?
La situazione si migliora se dall’infanzia si crea un ambiente (a scuola e a casa) fecondo, fatto di tutte le componenti della mente e del cuore, non togliendo fondi, ma investendo più sul fattore umano che sulla misera liretta… Non dare dei fannulloni agli insegnanti, ma cercando di farli lavorare in sinergia, che possano esprimere anche competenze che non sono certificate dalla laurea che possiedono ma che per talento naturale o interesse personale hanno acquisito, dando tempo ai ragazzi di rimanere immersi in un ambiente stimolante, anche a far passare il tempo se serve, ma a contatto con persone di «cultura», di adulti che siano li per dare quello che hanno, che possano trasmettere la stessa passione loro, di dare gli strumenti non solo per capire, ma quelli del “cercare, dell’interesse, del desiderio del sapere e del vivere a fondo ogni esperienza, a contatto con testimonianze del passato (letteratura, arti visive e sonore) e del presente, macinando tutto e criticando quello che gli vien posto davanti… ma conoscere, conoscere, conoscere. Poi arrivederci a tutto e tutti, ma dopo che hai conosciuto, non prima. … Questo per me è un patrimonio nazionale. Questo dovrebbe essere il vanto di questo Paese.


Music for tourists

dicembre 12th, 2008 by Giovanni Biglino | No Comments

Music for tourists

Voyage autour de ma chambre, opera autobiografica del 1794 scritta dall’aristocratico sabaudo Xavier de Maistre. Lo stesso viaggio si intraprende ascoltando la musica di Chris Garneau. Il compositore (folk, indie, tralasciamo le etichette) ha intitolato il suo primo disco Music for tourists ed i turisti cui è dedicato con ogni probabilità viaggiano su pagine di diario, sulla copertina di una rivista, attorno ad una tazza vuota, seduti in una stanza (invasa di luce calda che scende dall’alto, rigorosamente).
Nato a Boston e cresciuto a Parigi, Chris è ora un giovane newyorkese di base a Brooklyn, formatosi nella scena musicale dell’East Village. Nella sua stanza pare esserci solo un pianoforte, qualche foglio sparso sul pavimento, di quando in quando si intrufola un violoncello. Suonando per tenersi compagnia. Suonando per accompagnare le parole scritte qua e là nelle giornate di New York.
Con Music for tourists ha creato un disco d’introspezione ed un piccolo universo ovattato.  Non ha la leggerezza di un Jay Brennan né la malinconia di un William Fitzsimmons, coi quali condivide l’impostazione acustica, prediligendo però il pianoforte alla chitarra. Possiamo intravedere Maximilian Hecker, Rufus Wainwright, ma anche Cat Power (una vaga versione maschile, meno arrabbiata e sobria). Si intuisce il profumo folk senza tempo di Simon & Garfunkel e Joni Mitchell. La voce fa il resto.
Una voce ricca di sfumature si rivela sempre uno strumento potente. Una voce densa e impregnata di significati regala ogni volta la conferma che ci si può emozionare ascoltando una canzone, basti pensare all’attacco a cappella di For today I’m a boy di Antony and the Johnsons, tremolante di illusione e di speranza, di recente eseguita da Antony e dalla London Symphony Orchestra al Barbican Centre di Londra durante un concerto trionfale. Chris Garneau non possiede la tragicità di Antony, piuttosto la sua voce e il suo uso del pianoforte ci fanno pensare a canzoni quali The colour of spring di Mark Hollis.
I testi di Chris Garneau presentano un volto molto mondano ed un altro volto piuttosto impalpabile. A ben guardare, i due si sorreggono a vicenda. La morbida So far si apre con un’immagine delicata (“like the touch of my mother’s hand on my head”) ma il tono si livella nella strofa seguente (“the dishwasher’s on now”), quasi che Chris stesse scrivendo la canzone al tavolo della cucina e l’accompagnamento semplice, quasi minimalista, di accordi ripetuti rende il sottofondo confortante della lavastoviglie. In Hymn quasi sussurra l’invocazione iniziale: “Try and think of nice things to say or I might run away, my ears are bleeding and my heart is worth swallowing” ma poi si stempera.
Spaccato di vita newyorkese. Un take-away da Dean&DeLuca o da Eli’s su Madison avenue, una cena da Mas (fuori piove), una ricca colazione da Balthazar (fuori c’è il sole), tante strade sconosciute in cui i cittadini diventano turisti, un bar dalle sedie scompagnate o una libreria in cui una ragazza armata di iPod si aggira pensierosa. Ma dove comincia e dove finisce un viaggio musicale?
Solitamente un buon punto di partenza è il divano. L’armadietto dei dischi aperto, ne abbiamo ammonticchiati alcuni sul tappeto. Essendo soli in casa possiamo concederci di essere un po’ pretenziosi e meditare sul valore proustiano della musica, che come un profumo riporta alla mente immagini nitide e sensazioni solo in apparenza dimenticate. Una melodia orecchiata a casa di un amico. Un disco che ci ha accompagnati durante un viaggio in macchina. In questo modo alcuni musicisti rimangono inevitabilmente associati a momenti precisi, in quanto la musica stessa ha contribuito a rendere speciale – e quindi preciso nella memoria – quel dato momento. Non importa che si tratti della Quinta sinfonia di Mahler o di 5:55 di Charlotte Gainsbourg, all’epoca era la colonna sonora perfetta (così dicendo si intreccia l’immagine al suono, perché come ha sottolineato Susan Sontag: “È ormai abituale che chi parla di un evento […] sostenga che «pareva un film». E dice questo, sembrandogli insufficiente qualsiasi altra descrizione, per spiegare quanto è stato reale l’evento”). In questo caso si tratta di un viaggio a ritroso. Se la musica invece ci è ancora sconosciuta, attendiamo le prime note con la stessa curiosità che fa sì che quando acquistiamo un nuovo disco non riusciamo a resistere alla tentazione di scartarlo ed esplorarne il libretto. Nel caso di Chris Garneau, in apertura troviamo Castle-Time: un attacco semplice, ripetitivo, quasi il ticchettio di un orologio. “Men doing men-thing times, chewing candy and tobacco lines”. Un altro viaggio è ufficialmente cominciato. Riflettiamo quindi su una distinzione fondamentale, ripensando a Paul Bowles nella parafrasi di Bernardo Bertolucci: “un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento in cui arriva, laddove un viaggiatore può anche non tornare affatto”. La musica in questo senso ci regala solo una parentesi. Chiusa la parentesi rimangono in bocca sapori ora nuovi e che poi si ripresenteranno nel momento più inaspettato. Ci rivedremo dunque sullo stesso divano e tenteremo di ricordare il motivo per cui abbiamo acquistato proprio quel disco. La musica per turisti di Chris Garneau ci ha accompagnati intorno alla nostra stanza per un breve viaggio di introspezione.


L’Orchestra di Piazza Vittorio

settembre 2nd, 2008 by Lorenzo Kihlgren | No Comments

L'Orchestra di Piazza Vittorio

Vi segnalo questo bellissimo film dedicato a un’impresa coraggiosa nata qualche anno fa a Roma. Un piccolo gruppo di musicisti italiani decide di salvare uno storico cinema di piazza Vittorio a Roma trasformandolo in un luogo di incontro e di cultura per le diverse anime dell’Esquilino, uno dei quartieri più multietnici della capitale. Il film documenta passo dopo passo la realizzazione di quella che poteva sembrare all’inizio una vera follia: creare un’orchestra internazionale formata da immigrati. Nel romantico sogno degli ideatori la musica, linguaggio universale, avrebbe forse potuto creare un legame tra i vecchi e i nuovi abitanti della zona. Man mano che l’orchestra prende faticosamente vita, il gruppo entra in contatto con realtà personali diverse e impensabili: matematico-musicista arabo che lavora in un ristorante, il trombettista-vagabondo cubano, l’insegnante di musica dell’Ecuador che suona nelle strade… Ma è forse il sorriso di due cugini indiani a dare la migliore immagine della riuscita di questo progetto: la musica è davvero in grado di abbattere le barriere dell’ignoranza e dell’indifferenza, cause primarie dell’isolamento e dell’auto-ghettizzazione.
Un grande esempio per tutti e un incentivo per il Tamarindo a dar sempre più visibilità alle realtà silenziose ma sorprendenti delle nostre città.


Una serata alla Scala

giugno 17th, 2008 by Margherita Sacerdoti | 6 Comments

Ieri sera mi trovavo al teatro Alla Scala di Milano per un concerto per pianoforte suonato dal celeberrimo pianista nonché direttore d’orchestra Daniel Baremboim. Mi trovavo li perché amo la musica classica e perché per tutta la vita sono stata spinta da una madre melomane ad avvicinarmi a quest’arte. Ammetto che di mia iniziativa probabilmente non andrei cosi spesso a opere, concerti e balletti, ma mi lascio trascinare volentieri da chi ha una passione per la musica. Prima di ogni opera mi sono sempre preparata all’ascolto, leggendo la trama di ogni atto e ascoltando alcuni brani musicali. La musica mi è familiare perché l’ho studiata fin da piccola suonando il pianoforte e apprezzo il balletto perché ho studiato danza classica per quindici anni. Spesso mi sono rifiutata di andare a concerti di cui non mi importava molto e al contrario ho spesso inseguito anche in teatri di paesi stranieri, direttori d’orchestra di cui conoscevo lo stile e il talento o compositori che amavo particolarmente. Non mi sono mai considerata un’appassionata di musica classica, ma ho sempre avuto piacere di ascoltare ed imparare a capire e apprezzare la musica.
Ieri sera, come tante altre sere alla Scala, mi sono vergognata del pubblico italiano. Innanzitutto tra una pausa e l’altra del pianista ecco un coro di rumori di gola che si leva dal pubblico con grande enfasi. Apparentemente in salute, altrimenti avrebbero fatto meglio a stare a letto con gli antibiotici, gli spettatori si sono esibiti, come di consueto, in una gara di tosse e piccoli gargarismi disgustosi, tutti allo stesso tempo. In secondo luogo ecco un episodio alquanto scioccante di cui nessuno ha protestato: uno spettatore, seduto dietro di me, alzandosi in piedi in platea ha scattato una fotografia di Baremboim durante l’esecuzione del brano con un apparecchio fotografico di vecchia generazione che non nascondeva il rumore del rullino all’interno. Per concludere, al termine del concerto, il pubblico si è alzato in una standing ovation. Il pianista in questione è molto bravo, certo, ma l’esecuzione, secondo il mio modesto parere e quello di chi conosce la musica classica, il brano in particolare e il pianista assai meglio di me, non era certo da standing ovation. Ho il sospetto che il pubblico, non capendo molto di musica, si sia alzato entusiasta più per la celebrità del pianista che suonava davanti a loro che per la qualità dell’esecuzione musicale. Infine, come sempre accade alla Scala, quando cominciano gli applausi (spesso prima della fine dell’esecuzione) c’è chi si alza e comincia ad andarsene dal teatro, facendo tra l’altro alzare tutta la propria fila della platea , per correre a prendere il primo taxi in piazza della Scala mentre i musicisti cominciano gli inchini.

La Scala ha una tradizione e un nome che spesso vengono considerati più importante di quel che avviene all’interno. I Milanesi sono capaci di soffrire per ore ascoltando un’opera di Wagner, pesantissima e noiosa per chi non è appassionato di questo genere musicale, pur si farsi vedere alla Scala. Ho ammirazione per questi individui perché personalmente non mi sforzerei mai di star seduta tutta una sera a dormire scomodamente su un seggiolino di velluto rosso aspettando con ansia l’intervallo per far due chiacchiere, farsi vedere e vedere chi c’è. Nei teatri nel resto del mondo dove ho avuto la fortuna di andare appositamente in occasione di festival musicali come a Salisburgo, Bayreuth, Lucerna, gli spettatori presenti sono quasi tutti li per amore della musica. Coloro i quali riescono a trovar ei biglietti e compaiono per ragioni sociali soltanto, hanno almeno il buon gusto di non fare rumore, di non scattare fotografie e di copiare il comportamento chi di musica ne capisce quando si tratta di applaudire, alzarsi o andaresene.



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