marzo 7th, 2009 by Lorenzo Kihlgren | 2 Comments
Yoni Goodman, autore del lungometraggio “Valzer con Bashir”, in questi giorni al cinema, è stato incaricato dall’ong israeliana Gisha di produrre un breve cartone animato dedicato alla vita degli abitanti di Gaza.
L’autore dichiara di aver voluto realizzare un video imparziale, al fine di descrivere la realtà quotidiana degli abitanti di Gaza, senza esprimere alcun giudizio. Dalle immagini emerge tuttavia implicitamente una dura condanna a Israele, le cui politiche nei confronti dei Palestinesi sono d’altra parte criticate senza troppi giri di parole nel sito di Gisha.
Come era facile immaginarsi, il video ha fornito un’ulteriore occasione per gettare benzina su uno dei dibattiti più infuocati del già poco pacifico mondo delle relazioni internazionali.
Mentre una parte dei media (tra i quali ovviamente diversi media arabi) ha utilizzato il video per ricordare le sofferenze dei Palestinesi, coloro che sostengono le decisioni del governo israeliano hanno espresso dure critiche all’autore e alla ONG promotrice, accusandola di aver deliberatamente ignorato la situazione israeliana, parimenti dolorosa. Yariv Ben-Eliezer, nipote di Ben Gurion e noto esperto di media, ha affermato che “Questo film potrebbe ricevere un premio da Ahmadinejad”. Ipotesi probabilmente non del tutto irrealistica.
Mi sembra che questo cartoon faccia parte di tutte quelle misure propagandistiche che, da una parte e dall’altra del muro, mirano a suscitare sentimenti di pena e apprensione per le sofferenze di una delle due parti. Ovviamente da parte filo-palestinese questo tipo di propaganda, in molti casi diretta alle popolazioni musulmane, va spesso molto meno per il sottile, riuscendo tuttavia a ottenere risultati inferiori dal punto di vista pratico rispetto alle pressioni silenziose ma ben mirate dei sostenitori del governo israeliano.
A mio avviso questo cartone, per quanto molto poetico, non fa altro che ripetere per la millesima volta il grave errore di voler paragonare (seppur in maniera implicita) le sofferenze delle due parti. Chi ha lo strumento per fare questa misurazione? Una mamma che perde il proprio figlio, che magari nulla aveva a che fare con eserciti o milizie, soffre di più a seconda che sia israeliana o palestinese? No, niente da fare: sembra proprio che prima di risolvere la questione l’altro debba ammettere: “eh sì, in effetti avete sofferto di più voi!”. Senza contare il fatto che ogni tentativo di agire sull’emotività, come questo video riesce a fare in maniera molto efficace, rappresenta una dura sfida per chi cerca di costruire una soluzione razionale ed equa per entrambe le parti.
Sembra di assistere a un furioso ed ostinato litigio tra due cuginetti. Se fossero per davvero bambini, le madri potrebbero farli calmare e imporgli di fare la pace. Peccato che queste mamme, che poi sono le rispettive autorità politiche, siano litigiose almeno quanto i figli, e la nonna (le Nazioni Unite) sembri troppo stanca per farle ragionare.
In tutto questo litigare ci sono però degli altri bambini che provano a separare i contendenti, cercandoli di farli ragionare. Questi bambini, o per meglio dire le tante ong ed associazioni religiose e no che rischiano così tanto per la pace in Medio Oriente, sono troppo piccoli per riuscire nel loro generoso intento. Non sarebbe bello andare a dargli una mano laggiù, o almeno fargli sentire il nostro appoggio?
febbraio 11th, 2009 by Rocco Polin | No Comments
Qualunque cosa si pensi dell’idea di esportare la democrazia con le bombe o della natura della “democrazia etnica” di Israele, il semplice fatto che in meno di due settimane circa 7 milioni di irakeni e 2 milioni e mezzo di israeliani si siano liberamente recati alle urne è una buona notizia.
Del resto come diceva Giorgio Gaber “dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi sono giunto alla conclusione che la democrazia sia il sistema più democratico che ci sia”.
Sembra ovvio, ma nel Medio Oriente non lo è per niente.
In Iraq il 31 Gennnaio si è votato per rinnovare quattordici dei diciotto consigli provinciali (non votavano i tre governatorati kurdi a statuto speciale e il governatorato di Kirkuk il cui status è ancora oggetto di dibattito). Nonostante la dimensione locale sono state elezioni cruciali, in particolare per il ritorno dei sunniti sulla scena politica.
La minoranza sunnita aveva infatti boicottato le elezioni del 2005 favorendo l’affermazione di kurdi e sciiti. I partiti kurdi avevano ad esempio ottenuto il governatorato di Ninewa e gli sciiti quello di Diyala nonstante entrambe le regioni fossero a maggioranza sunnita. Alle scorse elezioni l’unico partito sunnita a partecipare era stato un raggruppamento di ispirazione islamista (IIP). Correndo praticamente da solo l’IIP aveva ottenuto il monopolio della rappresentanza sunnita guadagnando ad esempio il governatorato di Anbar, nonostante in quella provincia si fosse recato alle urne solamente l’1% della popolazione.
L’esclusione (per quanto auto-inflitta) dal governo del paese era certamente una delle cause dell’insurgenza sunnita successiva alle elezioni, che non a caso aveva colpito le province di Ninewa, Diyala e Anbar in modo particolarmente violento.
Il primo dato positivo delle elezioni irakene è quindi la partecipazione sunnita alle elezioni.
Una partecipazione non senza problemi visto che proprio a Ninewa il 5 Febbraio, mentre ancora si aspettavano i risultati, 12 persone sono morte a causa di un attentato sucida mentre ad Anbar sembra che nessuno dei due gruppi sunniti (gli isalmisti del IIP e un raggruppamento secolare con forti legami tribali) sia disposto a concedere la vittoria.
Va anche segnalato che, nonostante la maggiore partecipazione sunnita, l’affluenza complessiva alle urne è scesa dal 55.7 al 51%.
L’altro dato interessante di questa elezione è legato alla competizione tra i due principali raggruppamenti sciiti: gli islamisti del ISCI e il Dawa del primo ministro al-Maliki.
A costo di semplificare possiamo dire che l’ISCI è un partito islamista, a guida clericale e interessato alla creazione di una regione autonoma sciita nel sud (sull’esempio di quella kurda a nord). Il Dawa invece, per quanto anch’esso di origine islamista, ha sempre avuto una leadership laica e durante la campagna elettorale ha giocato con forza la carta della comune identità nazionale irakena e della necessità di un governo centrale forte e in grado di garantire ordine e sicurezza.
La vittoria del Dawa è stata netta. Gli islamisti dell’ISCI non otterranno a quanto pare nessuno governatorato mentre il partito di Al Maliki ha ottenuto importanti vittorie in Baghdad e Basra (importante città portuale ricca di petrolio). Sia pure ancora minoritarie sono inoltre cresciute altre liste centraliste, nazionaliste e secolari, come quella dell’ex primo ministor Allawi.
Tutto sommato direi che dall’Iraq giungono buone notizie. I sunniti sono rientrati in gioco, è aumentata la competizione politica all’interno dei blocchi etnici, i parti islamisti hanno perso terreno mentre quelli nazionalisti hanno guadagnato consenso. Sull’altro piatto della bilancia è però da segnalare l’aumento di legami clientelisti e tribali (che in molti casi spiegano la vittoria dei partiti secolari su quelli islamisti).
Per ragioni di spazio non mi addentrerò invece in modo approfondito nell’analisi delle elezioni israeliane, anche perché la politica israeliana è tanto demenziale quanto quella italiana e prevedere che governo verrà formato in seguito al voto di ieri è impresa praticamente impossibile.
Per riassumere brevemente quel poco che si capisce dai risultati (non ancora definitivi) ci sono essenzialmente due possibilità: un governo di destra (Likud, Shas e Ysrael Beitenu) o una coalizione guidata da Kadima con il sostegno dei laburisti e di almeno uno dei partiti di destra di cui sopra. La prima possibilità significherebbe il blocco completo del processo di pace e porterebbe a gravi contrasti con gli Stati Uniti, la seconda porterebbe ad una coalizione divisa e ad un probabile stallo politico.
In ogni caso è probabile che qualunque governo si riesca a formare non durerebbe più dei soliti due anni-due anni e mezzo e non riuscirebbe a risolvere nessuno dei gravi problemi di Israele: il conflitto con i palestinesi, la crescente divisione etnica della sua popolazione, i diritti e i doveri della minoranza araba e delle comunità ultraortodosse per non parlare del concetto stesso di Stato ebraico e democratico.
Per provocatorio che possa sembrare direi che per ora la democrazia irakena promette meglio di quella israeliana.
gennaio 21st, 2009 by Erik Burckhardt | 2 Comments
Incuriosito dalla furia politica e mediatica scatenata dall’ultima puntata di Annozero – “La guerra dei bambini” – da Parigi ho deciso di sfruttare gli ultimi prodotti dell’inarrestabile progresso tecnologico (www.annozero.rai.it) per potere vedere e giudicare in prima persona l’opera del criticato conduttore Michele Santoro.
Il tema – la raccapricciante operazione “Piombo fuso” – non era certo facile da gestire, né agevolmente analizzabile, così Santoro non è riuscito ad evitare l’abbandono della trasmissione da parte della collega Lucia Annunziata. L’indomani, le consuete critiche sul programma da parte del mondo politico si sono trasformate in un vero e proprio terremoto. La puntata è stata addirittura oggetto di discussione in occasione del Consiglio dei Ministri e il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha chiamato il Presidente della Rai Claudio Petruccioli stigmatizzando l’accaduto e definendolo come «indecente». L’indignazione è scaturita principalmente dalla convinzione che il programma non avesse fornito un’analisi obiettiva sulle vicende mediorientali essendo impostata, al contrario, in chiave pro-palestinese.
Personalmente non credo nella malafede della redazione di Annozero, ancora meno in quella di Santoro. Non penso che il programma abbia intenzionalmente voluto ignorare le posizioni israeliane per esaltare quelle palestinesi, ma ho l’impressione che questo sia stato l’involontario risultato dell’impostazione troppo emotiva della trasmissione.
Vi è ragione di credere che, in occasione della sua ultima puntata, Annozero sia rimasto prigioniero di se stesso. Addestrato a dare voce a quelli a cui troppo spesso viene tolta ed abituato a tollerare il modo diretto, semplice ed emotivamente toccante di esprimersi, il programma non è stato in grado di capire che questa volta la posta in gioco non era il politicamente corretto, ma il moralmente accettabile.
Quando dei poco più che adolescenti si trasformano per l’occasione in severi opinionisti e quando si mandano in onda a catena servizi ed interviste psicologicamente devastanti, le infelici assimilazioni dell’operazione “Piombo fuso” alla Shoah e la patetica confusione riguardo alle questioni centrali della vicenda sono ovvie conseguenze; patologiche e tragiche conseguenze della volontà di concentrarsi su quello che “sente e prova la gente” e della ricorrente sfiducia in quello che fanno, dicono e pensano “i grandi politici ed intellettuali del pianeta”. E dal momento che l’impostazione del contenuto della trasmissione era dichiaratamente di tipo emotivo, non può neanche stupire che essa sia risultata faziosa: i palestinesi rappresentano la parte inevitabilmente soccombente della guerra in corso e basta ciò a rendere le loro storie ed esperienze emotivamente più toccanti di quelle israeliane.
Il punto è che nessuno può negare che il conflitto israelo-palestinese rappresenti una delle questioni più complesse delle relazioni internazionali odierne. La presa di coscienza di tale premessa dovrebbe condurre a provare una certa soggezione rispetto all’argomento, una soggezione tale da imporre una particolare cautela nell’affrontarlo ed un atteggiamento molto ragionato quando proprio viene il momento di farlo.
Da Ulpiano, Gaio e Cicerone a De Vitoria, Suarez e Grozio: la storia del pianeta è ricca di giuristi e filosofi che si sono impegnati nell’elaborazione di teorie che aiutino a rendere meno frequenti e meno terribili le guerre di questo mondo. Perché non esporle? I sempre più esasperati spettatori italiani si sarebbero confortati e consolati nell’apprendere che, seppur fragilissimo, un diritto internazionale pubblico esiste e che anche la più bestiale delle azioni umane, la guerra, per potersi dire umana deve sottostare ad una logica e ad una legge. Un’introduzione di questo tipo è indispensabile prima di cimentarsi nell’analisi di un conflitto, a maggior ragione quello israelo-palestinese che necessita pure di accurati prolegomeni di natura storica.
Giacché si è capito che essi rappresentano il nocciolo della questione, nel corso della trasmissione sono stati evocati principi come quello d’autodifesa e di proporzionalità, ma si è ingenuamente preteso di liquidarli in poche battute, col risultato di perdersi negli sconvolgenti numeri del calcolo.
Annozero aveva tutte le carte in regola per preparare un programma utile all’opinione pubblica. Gli ospiti della trasmissione erano autorevoli giornalisti, scrittori e tecnici i quali avrebbero senz’altro potuto cercare di farsi interpreti dei grandi pensatori che si sono attivati per la soluzione di problematiche come quelle che condannano il popolo palestinese ed israeliano.
Il motivo per cui la società civile palestinese e quella israeliana non riescono a trovare neanche l’ombra di una soluzione è probabilmente da ricercare nella costante pressione emotiva che la storia ha esercitato e continua ad esercitare su dei popoli sempre più agonizzanti nelle tenebre della loro realtà. Si può ritenere che chi ha la fortuna di trovarsi in uno studio televisivo a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dalle bombe e dai missili non dovrebbe affliggersi cercando d’immedesimarsi nell’ombra delle sofferenze dei più disgraziati, ma – lontano dal pathos – dovrebbe invece sfruttare l’occasione per lottare con la ragione contro il terrore e l’ingiustizia.
L’amor proprio, la vendetta e la paura sono tutte passioni che ci avvicinano allo stato naturale e ci allontano dalla civiltà. Farcele vedere è talvolta indispensabile per darci la sensazione di disgusto che ci obbliga a combatterle, ma se poi non si reagisce in tempo, si corre davvero il rischio di apparire indecenti.
gennaio 10th, 2009 by Rocco Polin | 1 Comment
In questi giorni di guerra a Gaza sono andato a rileggermi quanto scrivevo l’anno scorso da Gerusalemme. Un anno fa per fortuna non c’era la guerra ma la violenza continuava, da entrambe le parti.
Il post che avevo pubblicato sul mio blog si intitolava “sparare per ammazzare il tempo” e ricordo di essere stato abbastanza fiero di quel mio titolo (mi capita spesso). Ecco quello che scrivevo:
“quello che colpisce di più degli ultimi episodi di violenza tra israeliani e palestinesi è la loro completa inutilità. Sembra quasi che la guerra ormai serva solo a coprire la completa assenza di un progetto politico qualsiasi, di una qualsiasi visione di lungo o persino di breve termine. La guerra è diventata la prosecuzione dell’assenza di politica con altri mezzi¹”.
Credo che l’analisi di allora sia oggi ancora più vera e più tragica. Israele attacca la striscia di Gaza. Perché? Considerato che non ha intenzione di ri-occuparla e che eliminare Hamas non è uno scopo realistico direi che la motivazione fondamentale è che Israele non può tollerare che il proprio territorio sia continuamente oggetto di attacchi missilistici. Il governo di Israele (che per altro sta per affrontare elezioni molto difficili per entrambi i maggiori partiti della coalizione) doveva fare qualcosa. Stiamo assistendo una guerra fatta senza veri obbiettivi realistici ma decisa perché Israele non poteva continuare a tollerare attacchi, a volte mortali, sul proprio territorio senza reagire. Reazione comprensibile da parte di uno stato sovrano. Ma la politica dov’è? Qual è il progetto di lungo termine? In che modo questa guerra ci avvicina alla soluzione del problema?
Hamas spara razzi fatti in casa contro il territorio di Israele causando qualche vittima civile. Perché? Non crederanno davvero di poter sconfiggere Israele? Non crederanno davvero di contribuire alla liberazione della Palestina? Hamas, anche lei, spara per ammazzare il tempo. Qualcosa deve pur fare per giustificare la propria esistenza, per far finta di combattere per la causa palestinese.
Per tragico che possa sembrare tutte le morti di questi giorni (di questi anni) sono morti completamente inutili. Si uccide perché non si può far passare impuniti gli attacchi altrui, perché bisogna vendicarsi, perché in fondo in una guerra è la cosa ovvia da fare, perché non si sa cos’altro fare. Ma non ci si avvicina di un’oncia ne alla vittoria (di una parte come dell’altra) ne ad un compromesso possibile.
I leader palestinesi e israeliani sono di livello infimo, generalmente corrotti, quasi sempre incapaci, totalmente inadeguati alla situazione. La guerra aperta l’hanno provata e non ha funzionato, l’intifada neppure, i processi di pace tanto meno, i ritiri unilaterali non ne parliamo.. non sanno più che pesci pigliare. E nel frattempo continuano a combattersi.
Tocca forse alla comunità internazionale, alla nuova amministrazione Obama, aiutare le parti a trovare una strada che li avvicini alla soluzione e che offra un’alternativa a questo massacro inutile. Personalmente credo che ci voglia un colpo d’ali. Sono convinto che la formula di Oslo abbia problemi irrisolvibili, dal diritto al ritorno, a Gerusalemme, agli insediamenti. Credo si debba trovare una soluzione nuova e ambiziosa. Un’unione federale di Israele, Palestina e Regno di Giordania integrata nel mercato comunitario europeo o qualche altra follia di questo genere. Potrà apparire irrealistico (avrei bisogno di un altro articolo per argomentare la proposta) ma l’alternativa sono altri decenni di inutili discussioni sulle modifiche ai confini del 67 condite da una guerra continua e completamente inutile.
Note:
1) È una citazione da Jean Bourillard, L’Esprit du terrorisme. Se non l’avete letto ve lo consiglio.
gennaio 4th, 2009 by Margherita Sacerdoti | 18 Comments
Il 19 Dicembre scorso è ufficialmente terminato Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, durato sei mesi, durante i quali Hamas non ha mai smesso del tutto di lanciare Qassam su Israele. In quello stesso giorno Khaled Mashal, capo del ramo di Hamas in Siria, ha dichiarato che il cessate il fuoco non sarebbe stato rinnovato aprendo definitivamente la crisi.
Questa volta i razzi non sono stati lanciati soltanto su Sderot e Ashkelon, i cui abitanti ormai vivono tale condizione come la normalità, ma per la prima volta sono arrivati anche su Ashdod, che dista soltanto 30 Km dall’aereoporto Ben Gurion a sud di Tel Aviv, e su Beer Sheva. Per Israele ovviamente questa situazione è assolutamente inaccettabile poiché significa che da Tel-Aviv in giù, i cittadini sono in pericolo di vita. Non c’è dunque da sorprendersi tanto se l’aviazione israeliana ha risposto al fuoco bombardando le postazioni da cui son stati lanciati i missili. Nonostante l’intervento aereo, Hamas non ha ancora smesso di lanciare i Qassam sulle città israeliane, dimostrando che con il solo bombardamento aereo, Israele non riuscirà a smantellare le strutture paramilitari di Hamas, né riuscirà a ridurre la capacità di combattere di Hamas a tal punto da essere inoffensiva.
Questa guerra è gia stata confrontata più volte con quella del Libano di due anni fa, a ricordare che Israele farebbe meglio a non commettere gli stessi errori dell’ultima volta. Nel 2006 infatti, l’obbiettivo della campagna militare era distruggere completamente l’organizzazione terroristica Hezbollah. Tale obbiettivo non è stato raggiunto perché è impossibile smantellare un’organizzione che non ha una struttura e delle postazioni chiaramente individuabili, bensì conta basi operative e adepti in tutto il Paese nonché una forza politica che si annida nelle stesse strutture del governo. Inoltre, dopo il ritiro, Israele ha lasciato tempo e spazio a Hezbollah di riarmarsi e ha certamente auitato la stessa organizzazione terroristica ad apparire come i buoni che sono stati attaccati e che dopo la fine della guerra sono anche stati in grado di aiutare la popolazione civile, al posto dello Stato, a rimettersi in piedi.
Per non ripetere tale inaccettabile errore, Israele questa volta si è posta innanzitutto un obbiettivo più realistico: ridurre al massimo la capacità di Hamas di combattere, e non smantellare l’organizzazione in sé. Per raggiungere tale obbiettivo, Tzahal deve distruggere le basi di lancio dei missili, spesso localizzate in appartamenti private o vicino alle scuole, secondo la tradizionale politica di Hamas di utilizzare i civili palestinesi come scudi umani per difendersi dagli Israeliani. Con la sola forza aerea è impossibile operare chirurgicamente e colpire tali postazioni, ed per questo motivo che l’esercito israeliano è da poco intervenuto via terra.
Se Israele smettesse di rispondere al fuoco oggi, Hamas emergerebbe come la parte vittoriosa della guerra, avrebbe il tempo e le strutture ancora intatte per riarmarsi, e sarebbe forte abbastanza per imporsi anche sulla Cisgiordania nelle prossime elezioni che avranno luogo adopo la fine del mandato di Abu Mazen che scade a fine Gennaio.
Hamas governa secondo la legge islamica a Gaza, il che significa che a chi ruba, viene tagliata la mano, a chi passa col semaforo rosso, vengono date frustate. Hamas è la mano dell’ Iran, insieme a Hezbollah, nel Vicino Oriente, e dall’Iran riceve armi.
Noi Europei dobbiamo imparare ad essere lungimiranti e a chiederci come davvero proteggere i diritti umani degli uni e degli altri. Se Hamas vincesse le elezioni in Cisgiordania, anche naturalmente attraverso minacce alla popolazione che, in caso di mancato sostegno all’organizzazione, verrebbe punita severamente dopo la vittoria, la legge islamica verrebbe introdotta anche a Ramallah. A quel punto non ci sarebbero piu diritti umani per i palestinesi e il diritto alla vita e alla sicurezza degli iIsraeliani sarebbe decisamente messo in pericolo, ancor più che adesso. Cosa vogliamo fare allora noi Europei?
Vogliamo per una volta pensare al bene di tutti nel lungo termine e non soltanto a compensare i nostri sensi di colpa per la situazione tragica in Medio Oriente che trova le sue radici nella colonizzazione europea?
Vogliamo per una volta, con pazienza, comprendere la profondità del problema invece di cercare soluzioni rapide e inefficaci che ci assicurino sonni tranquilli?
ottobre 29th, 2008 by Margherita Sacerdoti | 1 Comment
Ogni volta che sono stata in Israele ho vissuto un’esperienza diversa. Quest’ultima volta in special modo, poiché ho lavorato e vissuto a Tel Aviv per tre mesi e non ho soltanto passato le mie vacanze in Israele.
Tel Aviv è un’isola felice in uno Stato che faticosamente cerca di integrare immigranti provenienti da tutto il mondo e soprattutto comunità intere che da Paesi dell’Europa dell’est e dell’Africa sono state sradicate e trasferite in un una nuova nazione. Agli appartenenti di queste comunità, quella russa e quella etiope in special modo, son stati dati nuovi passaporti, una nuova nazionalità e naturalmente nuove vite al loro arrivo. Israele è infatti uno Stato che oltre le differenze linguistiche delle comunità di provenienza deve affrontare il crescente divario tra laici e religiosi che ha portato negli ultimi anni ad un cambiamento geoetnico e georeligioso degli Israeliani. Gerusalemme si è trasformata sempre più nella capitale di chi ha fatto della religione ebraica, e delle altre religioni, la base della propria vita e condotta civile e politica. Molto spesso anche chi lavora negli uffici governativi e nei ministeri che hanno sede a Gerusalemme abita in altre città e sceglie una vita da pendolare piuttosto che di gerosolmita poiché non si sente accolto in una città che non da spazio sufficiente alla condotta di una vita laica.
Tel Aviv è estremamente diversa da Gerusalemme. Da un lato essa rappresenta in maniera inconfondibile la storia della fondazione dello stato d’Israele e della costruzione materiale di questo paese dagli anni dieci e venti del Novecento. I primi edifici costruiti dagli Ebrei che già prima delle due guerre cominciavano a realizzare il progetto sionista di Herzel si trovano infatti a Tel Aviv. Tel Aviv si è espansa negli anni e oggi è l’indiscusso centro economico e finanziario di Israele. Tel Aviv è una città che non ha nulla da invidiare a New York o alle città europee d’avanguardia, per quanto riguarda la cultura, la musica e il divertimento. È una città giovane e vivace e in cui la religione e chi la pratica non sembrano trovare terreno per mettere radici. Spesso mi sono domandata, camminando dopo il tramondo per rehov Rotchild, la parte della città tra le più chic, in quale luogo del mondo fossi. Poi, girando l’angolo dei caffè più alla moda arredati da designer professionisti, ho sempre ritrovato il sapore del medioriente nelle bancarelle dei mercatini che vendono noci e mandorle e spezie che non si trovano da noi in Europa.
Se dovessi trovare un aggettivo per descrivere i giovani a Tel Aviv, direi che sono liberi. Sono liberi dal peso della situazione di tensione che ininterrottamente grava su Israele, poiché a Tel Aviv non sembra di essere circondati da vicini ostili, piuttosto pare che non ci sia altro fuorché Israele stesso intorno. Sono liberi dalle tensioni tra gli Ebrei laici e gli Ebrei religiosi, dal momento che questi ultimo prediligono Gerusalemme o piccole città come Cfar Chabad o Bene Berak. Addirittura nei ristoranti di Tel Aviv è spesso difficile trovare cibo Kasher, anche se questa affermazione può risultare astrusa. Il sabato, invece di essere tutto chiuso e silenzioso, i giovani di Tel Aviv passano la mattinata nei caffè e si ritrovano per il brunch. Ciò che forse più ricorda il sabato ebraico è il fatto che in questo giorno i mezzi di trasporto pubblico non funzionano, ma tale consuetudine è più una scocciatura per gli israeliani di Tel Aviv, e per i turisti, che un valore.
Ciò che pero rende davvero Tel Aviv affascinante e diversa dalle città occidentali, a mio avviso, è l’intensità con cui si vive ogni giornata. Ho avuto la fortuna di conoscere, in quest’ultima mia esperienza, dei giovani politici, giornalisti e sindacalisti impegnati naturalmente nelle attività dello Stato. La passione, l’idealismo con cui questi individui portano avanti la propria battaglia, intesa come battaglia dentro lo Stato d’Israele per migliori condizioni di lavoro, meno tasse universitarie, contro la corruzione degli alti gradi dei partiti e dell’esercito, non l’ho mai trovata nei giovani de nessun altro stato. Con ciò non voglio naturalmente dire che all’infuori d’Israele i giovani siano poco impegnati, andrei contro il buon proposito di questo articolo stesso e del giornale che lo pubblica, ma è facile notare come in uno stato giovane, quale è Israele, la possibilità reale o la speranza si poter plasmare in maniera sensibile il futuro sia più forte. Ho percepito la sicurezza della generazione che in questo momento si affaccia alla politica di poter offrire condizioni migliori per i cittadini, gli immigrati nel futuro prossimo e ho notato come vi sia una minore rassegnazione dei giovani all’impossibilita di cambiare un sistema vecchio e corrotto da troppi anni. Nonostante i problemi e le difficoltà di Israele, i giovani laici sono convinti di avere la responsabilità di non lasciare la guida politica dello Stato d’Israele a chi segue come prima legge, la Halacha, la legge ebraica della Torà e di chi vorrebbe trascinare Israele verso la religione. Inoltre la natalità è alta in Israele e i giovani sono sempre più una forza e una risorsa che non può essere ignorata.
Essere giovane a Tel Aviv significa vivere con spensieratezza da un lato, divertirsi, ma significa anche prendere coscienza che per vivere in uno Stato che segua degli ideali di giustizia e tolleranza è necessario impegnarsi fin dalla giovane età. Con la convinzione che realizzare i propri sogni è possibile.
luglio 16th, 2008 by Margherita Sacerdoti | 1 Comment
Si sente parlare di un possibile e imminente attacco israeliano all’Iran. Questa eventualità è altamente improbabile e costituirebbe un suicidio per Israele per almeno due ragioni Importanti: la difficoltà tattica di un attacco e la geopolitica del Medio Oriente.
Innanzitutto non è né ovvio né facile colpire le presunte centrali nucleari iraniane. A differenza dell’attacco israeliano alla centrale nucleare irachena nel 1981 in cui le forze militari israeliane avevano informazioni precise sull’obbiettivo e il luogo da colpire, nel caso iraniano l’obbiettivo non è altrettanto chiaro. Come prima cosa il governo iraniano si è preoccupato di nascondere in basi segrete nel sottosuolo quelle che si sospetta siano centrali per l’arricchimento di uranio. In secondo luogo queste basi sarebbero sparse per il territorio iraniano e non in un solo centro. Se anche l’aviazione israleliana fosse pronta dal punto di vista militare ad un attacco all’Iran, non avrebbero un piano strategico né tattico vincente, proprio perché non saprebbero quali luoghi colpire, e nemmeno quanti. Per agire in maniera afficace dovrebbe mandare l’intera aviazione e bombardare tutti i siti sospetti, ma questo non è certo un piano militare accorto.
In secondo luogo, prima di attaccare eventualmente l’Iran, Israele dovrebbe assicurarsi se non l’amicizia, per lo meno la certezza di non ritorsione da parte degli alleati dell’Iran: Siria, Hezbollah e Hamas. Se Israele attaccasse l’Iran senza conoscere le reazioni di questi tre attori, immediatamente verrebbe circondata da nemici e attaccata su tutti i fronti. L’allenaza tra Iran, Siria, Hezbollah e Hamas è innaturale se si considera la natura di questi attori. L’Iran infatti è uno stato teocratico, musulmano sciita e non arabo. La Siria è uno stato musulmano, arabo, sunnita con un regime laico-socialista e non fondamentalista religioso. Hezbollah è un attore non statale i cui militanti sono musulmani sciiti, alleati naturali dell’Iran, ma non della Siria che ciononstante sostiene le loro azioni in Libano. Infine il gruppo Hamas, che oggi ha il completo controllo della striscia di Gaza, è composto da Arabi Musulmani Sunniti ed è un ramo dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani. Ciononostante Hamas ha collaborato con Hezbollah sciita durante la seconda guerra del Libano e riceve armi e sostegno economico dal regime teocratico sciita dell’Iran. L’elemento che lega questi attori è l’Islam ed è infatti su questo elemento che Ahmadinejad ha sempre fondato la sua legittimità di leader di una giustizia panislamista contro chi vuole imporre dall’alto un equilibrio politico nel Medio Oriente. In questo discorso s’inserisce anche la volontà di aspirare all’arricchimento dell’uranio. Non sappiamo esattamente per quali scopi l’Iran desideri l’energia nucleare, ma possimo certamente notare come questa battaglia che richiama anche un’ingiustizia di fatto esistente nella distribuzione dell’arma atomica nel mondo, attragga attori nella regione del Medio Oriente a cui forse non dispiacerebbe aspirare alla stessa arma in un futuro.
Se Israele attaccasse l’Iran adesso, dunque, si troverebbe circondata dagli alleati “innaturali” dell’Iran. Hamas colpirebbe Israele da sud con Qassam o magari anche altre armi. Hezbollah colpirebbe Israele dal nord, dal confine col Libano. La Siria colpirebbe ininterrottamente, rifornendo questi due gruppi militanti terroristi di armi o addirittura potrebbe colpire direttamente Israele dalle alture del Golan. Inoltre l’Iran certamente risponderebbe all’attacco israeliano con dei missili, anche se non sappiamo di che natura siano quante quali armi l’Iran possegga nella realtà.
Se davvero Israele volesse colpire militarmente l’Iran, dovrebba prima di tutto indebolire l’alleanza “innaturale” e avvicinare a sé la Siria. Questo stato infatti, come abbiamo visto, è un alleato dell’Iran più per interessi contingenti che non per un legame profondo. Un accordo di pace con la Siria, non è impossibile per Israele e, io credo, neanche così lontano. Se davvero la Siria venisse portata lontano dall’Iran, quest’ultimo resterebbe più isolato che mai e probabilmente non costituirebbe più una tale minaccia e un attacco da parte di Israele o di qualsiasi altro attore non sarebbe più necessario.
L’azione israeliana di simulazione di un attacco iraninano condotta a Cipro e comunicata dall’esercito israeliano al New York Times, era una risposta all’Iran in termini di “Public Policy”. L’Iran di Ahmadinejad in questi ultimi anni ha utilizzato la paure più profonda di Israele, cioè di essere distrutto completamente, per rendere la minaccia militare più efficace. Ahmadinejad non soltanto ha tenuto conto della storia di guerre che ha caratterizzato di Israele e il timore di questo di essere colpito da più fronti, come accadde nel 1967 e 1973. Il presidente iraninano ha anche richiamato alla memoria di Israele, degli Ebrei in generale e dell’Occidente l’Olocausto e la paura del popolo ebraico che ciò possa essere negato, dimenticato e ripetuto. In risposta a questa politica, Israele ha individuato la paura più grande dell’Iran, ovvero quella di essere colpito in quando Stato canaglia con aspirazioni egemoniche in Medio Oriente, e ha simulato un attacco imminente. Evidentemente questa politica ha funzionato poichè la possibilità di un attacco israeliano all’Iran pare realistica e imminente secondo la stampa e perchè Ahmadinejad non ha più fatto dichiarazioni pubbliche sull’arricchimento di uranio dal giorno dell’esercitazione Israeliana.