Se il Cespuglio fosse stato nero

gennaio 7th, 2010 by Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa | 3 Comments

Se il Cespuglio fosse stato nero

Ad azzardare l’incauto paragone, sembra di rivedere l’Italia degli anni ‘80. Ormai a suo agio nel ruolo di potenza regionale, ben prona a quella ‘politica della sedia’ inaugurata cent’anni prima dal Benso, il Bel Paese s’indebitava e si svalutava spensieratamente, illudendosi che le cose prima o poi sarebbero andate meglio. Magari, aggiustandosi da sole. Soliti italiani, verrebbe da dire.
Alcuni di loro, però, avrebbero un’idea piuttosto precisa oggi di come ringraziare quella passata classe politica, scellerata e incompetente, che altri ora vorrebbero riabilitare.
Questa, però, è un’altra storia.
Piuttosto, in una sorta di (analoga?) sindrome di Peter Pan permanente, gli Stati Uniti, col solito fare da ragazzone cresciuto troppo in fretta che caratterizza il loro agire politico, sembrano aver deciso di credere – passatemi la metafora – che per affrontare un abnorme problema di ‘dipendenza’ sia più efficace ‘raddoppiare la dose’ piuttosto che, dico per dire, cercare di astenersi.
E giù tutti ad applaudire.
Mi spiego.
L’immagine internazionale irrimediabilmente compromessa, travolta dai debiti e da una crisi che ha prodotto la fine di quell’unipolarismo – che, quand’anche tutto ipotetico o solo psicologico, ha permesso alle generazioni occidentali degli anni ‘80 e ‘90 di percepire il mondo come invariabilmente sicuro -, conscia che dall’Europa non sarebbe arrivato alcun sostegno consono a soddisfare la filosofia nazionale ‘I want it here, I want it now’, la SuperPotenza si è allora lanciata tra le braccia del suo ’spacciatore’, assai lieta di proseguire quella ‘terapia’ che la ha già portata sull’orlo del tracollo economico e industriale.
E così, occhi increduli e vagamente offesi (quelli europei) hanno visto celebrare, poche settimane orsono, l’anomalo sodalizio tra ciò che resta del Bastione d’Occidente e il neo-Impero Celeste (sempre in salsa comunista) – che del Bastione tiene ben saldi i cordoni della borsa.
Oltre alla sindrome di Peter Pan, quindi, pure quella di Stoccolma. Attenuata, forse, dalla convinzione che la supremazia militare americana sia ancora vergine di concorrenza e permetta ampi spazi di manovra, si necessest.
Ai posteri.
L’autore di cotanto capolavoro di geopolitica economica è Mr. Obama, nuova rivoluzionaria (?) guida dell’adolescente sindromico di cui sopra, la cui insana passione per la Repubblica Popolare ed il suo ufficiale riconoscimento di ‘unica altra potenza’ nel globo è stato cortesemente ricambiato con l’oscuramento del suo bel discorsetto all’Università di Shanghai (ma anche di un po’ tutta la sua visita).
E giù applausi.
Agli attoniti leader europei – specie, sia pur per ragioni tra loro diverse, di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito – resta il bucolico ricordo della scampagnata pre-elettorale allestita dall’allora candidato democratico – cosa mai vista prima – e degli abbaglianti sorrisi ricevuti in cambio dell’unzione del Gotha d’Europa – anch’essa senza precedenti e, col senno di poi, piuttosto ridicola.
Tutti d’accordo: del signor Cespuglio, nessuno ne poteva più. Vero è anche, però, che da quando è sul trono, Obama non fa che prendere l’Europa a sberle.
D’altra parte, nessuno osa protestare: qualunque politico facesse trapelare scetticismo nei confronti di Mr. President oggi andrebbe incontro alla gogna mediatica planetaria.
Per ora.
Per il resto, la politica estera made in USA verso i partner occidentali si fa notare più per le gaffes della presidenziale moglie – una robusta signora che ha frainteso in modo strepitoso il suo ruolo, tra pacche alla Regina Elisabetta, rifiuto dei tradizionali riti delle mogli dei capi di stato ai vertici internazionali, saluti palesemente differenziati a leader stranieri, mises stravaganti a go-go, etc. – che non per la chiarezza delle idee del marito, il cui unico segno finora stampato nella memoria collettiva è la splendida dentatura, invariabilmente esposta in ogni occasione.
Intanto, tutti continuano a ’sperare’.
Lungi dal voler prender le difese del predecessore, vale forse la pena sottolineare come, per quanto poco attribuibile al suo ‘genio creativo’ (innegabilmente modesto), Giorgio Cespuglio un’idea abbastanza chiara, in politica estera, ce la aveva. Il poveretto credeva nell’Occidente con la O maiuscola, unito da valori fondanti quella ‘civiltà’ tutto sommato comune tra Europa e America. Idea opinabile, forse. Assurda, no. Non solo, una siffatta nozione di mondo faceva comodo a molti.
Che poi, meschino, abbia veramente creduto che quei supposti valori comuni potessero rendere l’Occidente unito (o unibile) contro certe situazioni è, di nuovo, tutta un’altra storia.
L”idea di mondo’ di Barack Hussein, piuttosto, forse anche in conseguenza del portato storico che lo contraddistingue, non solo è al momento scarsamente comprensibile ma, per quel poco che se ne comprende, assai poco condivisibile.
L’inizio è ecumenico: viva la pace, l’ambiente e il multilateralismo. Pare che a Washington si sia insediato il Papa. Poi arriva l’idea della diarchia mondiale sino-americana: un frisbee in testa agli europei (e un prevedibile boomerang per gli stessi americani); nel mentre, la perdurante politica del sorriso di plastica lascia il tempo che trova, mostrando forse più l’imbarazzo di una persona conscia che il potere che gli viene attribuito è, in buona parte, già scivolato dalle sue mani; infine, l’ennesimo surge di truppe americane in Iraq e Afganistan si fatica a considerarlo un segnale di discontinuità rispetto a chi c’era prima.
Intanto, giù un nobel (condito con la filastrocca ‘per avere la pace ci vuole la guerra’, un azzardo che grida vendetta).
Da ultimo, si potrebbe notare come, nel bene e nel male, religioso salvatore per oltre novanta milioni o parafulmine degli accidenti di altri sei miliardi, ad animare scena e dibattito interno ed internazionale dell’epoca sia sempre stata la figura del Cespuglio e nessun’altra.
Ad un anno dall’insediamento, il messia politico di inizio millennio, sorrisi a parte, è già stato scavalcato in popolarità, in sequenza, dalla moglie e dal segretario di stato.
Sia come sia – e sia brutale -, la tentazione di credere che se Mr. Bush fosse stato nero oggi mi sentirei meno in imbarazzo ad usare la parola ‘Occidente’, è forte assai.


Il difficile equilibrismo di Obama sull’Afghanistan

dicembre 17th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments

 Il difficile equilibrismo di Obama sull'Afghanistan

Dopo mesi di consultazioni con i suoi consiglieri più stretti, il presidente Usa Barack Obama ha preso la decisione di inviare altre 30.000 truppe per contrastare il risorgere dei Talebani in Afghanistan, colpire le cellule di Al-Qaeda (soprattutto nella regione di frontiera con il Pakistan), e garantire temporaneamente la sicurezza della popolazione afgana. Nello stesso discorso, Obama ha anche annunciato l’obiettivo di iniziare a ritirare le truppe Usa dall’Afghanistan a partire dalla metà del 2011. A prima vista contraddittoria, questa strategia rappresenta l’unica possibilità di un equilibrio tra esigenze contrapposte.
Annunciare una scadenza per il ritiro delle truppe nello stesso momento in cui ne si annuncia l’invio può apparire paradossale. John McCain è stato il primo a segnalare il paradosso, affermando che porre una data per il rientro dei militari Usa rappresenta un assist per i Talebani e un duro colpo al governo di Karzai. Chi ha ragione dunque tra i due ex contendenti alla presidenza americana? Avremo una risposta solo dopo aver lasciato passare i 18 mesi che Obama ritiene necessari per ribaltare la difficile situazione su territorio afgano. Tuttavia, è già possibile tentare di interpretare l’annuncio di Obama, così come le critiche di McCain e del partito repubblicano.
Innanzitutto, le critiche repubblicane non tengono in considerazione le necessità di politica interna che il presidente si trova a fronteggiare. Obama doveva tentare di non deludere la maggioranza dei democratici (sempre più scettica sulla possibilità di portare il conflitto a termine in tempi brevi) e al tempo stesso guadagnare il consenso di alcuni repubblicani per garantire il sostegno del Congresso (che deve finanziare il rinnovo della missione). Un aumento del numero delle truppe serve a soddisfare la seconda esigenza. Annunciare una data per l’inizio della fine dell’intervento, la prima. Si tratta di un difficile tentativo di equilibrismo politico, ma anche l’unico possibile dato il sempre minor consenso di cui la missione afgana gode in Congresso e tra gli elettori.
Inoltre, il duplice annuncio è anche un tentativo di trovare un  equilibrio tra i due segnali diversi che Obama ha voluto mandare alle parti belligeranti. Da un lato, fissare una data per il rientro delle truppe responsabilizza il governo afgano e le sue forze di sicurezza a prendersi responsabilità del proprio paese in tempi i più ristretti possibili. Il presidente afgano Karzai è ora consapevole di non avere l’appoggio incondizionato degli Usa all’infinto (“è finita l’epoca degli assegni in bianco”, ha detto Obama durante il discorso), e dovrà agire di conseguenza preparando il governo e il paese ad una transizione verso il pieno autogoverno. D’altra parte, annunciare una data per iniziare a ritirare le truppe è rischioso nel caso in cui 18 mesi non siano sufficienti a sconfiggere i Talebani. Obama ha quindi ammesso che l’inizio del ritiro dipenderà dalle “condizioni sul campo”.  In tal modo, Obama si è lasciato aperta l’opzione di prolungare ulteriormente la missione, nel caso ci sia bisogno di più tempo per portare a termine la missione con successo. Al tempo stesso, dichiarando che il ritiro di metà 2011 sarà solo un inizio e dipendente dalle condizioni sul campo, Obama ha anche reso chiaro ai Taliban e Al-Qaeda di essere pronto a mantenere la presenza americana in Afghanistan finché la vittoria non apparirà chiara.
Il discorso di Obama ha tentato quindi di trovare due tipi di equilibrio. Uno tra le esigenze di politica interna a Washington. L’altro tra i due messaggi da inviare a amici e nemici in Afghanistan. Le decisioni del Congresso sul finanziamento ci faranno capire se le abilità retoriche di Obama saranno servite a garantirgli il consenso politico necessario. La situazione in Afghanistan ci dirà invece se la dinamica invio-ritiro avrà successo. Per ora, si può dire che, nel momento di prendere una delle decisioni che segneranno il resto della sua presidenza, Obama ha fatto il miglior uso possibile delle sue capacità retoriche per spiegare quella che molti considerano, dopo l’esempio dell’Iraq, l’unica strategia possibile per vincere il conflitto afgano: inviare più truppe per ritirarle il prima possibile.

Questo è il primo di una serie di articoli che esamineranno il primo anno di Obama da presidente. La decisione sull’Afghanistan, la riforma sanitaria, le politiche economiche e occupazionali, e le sorti del pacchetto energia-ambiente saranno infatti decisivi nel determinare il successo o il fallimento della sua presidenza.


Clean Up Giza!

novembre 25th, 2009 by Laura Zunica | No Comments

Clean Up Giza!

Tra i tanti problemi del Cairo emergono inquinamento e sporcizia. Entrambi risentono dello scarso senso civico, e soprattutto della mancanza di educazione civica nelle scuole.  Il Cairo è una città assai vasta, e per semplificarne la gestione è stata divisa in governatorati: per quanto riguarda il problema dell’inquinamento, ad esempio, ogni governatorato incarica una compagnia privata di liberare la propria area dai rifiuti.
Nello scorso settembre è accaduto che i dipendenti della compagnia italiana che si prende cura della rimozione dei rifiuti nell’area di Giza abbiano scioperato per tre settimane. Lo sciopero è stato proclamato per ragioni economiche: gli scioperanti ritengono di essere retribuiti inadeguatamente rispetto alle grandi quantità di rifiuti che è necessario rimuovere, mentre il governatorato sostiene che, poiché le quantità non sono mai aumentate, non è giustificabile aumentare i pagamenti. Una questione economica che ha trasformato per tre settimane intere l’area di Giza in un’abnorme pattumiera urbana.
Dana Moussa, ventitreenne che lavora nel settore economico e degli investimenti, è una dei tanti abitanti della zona di Giza. Durante lo sciopero della compagnia che si occupa di liberare l’area dai rifiuti, si è resa conto di quanto fosse allarmante il fatto che nonostante enormi quantità di rifiuti decorassero in modo ingombrante le strade del quartiere, nessuno facesse niente per trovare un rimedio. È stato così che un pigro pomeriggio di settembre Dana ha creato un gruppo su Facebook per stimolare gli abitanti del quartiere ad attivarsi e fare qualcosa per risolvere il problema dei rifiuti. L’idea iniziale, molto semplice, è stata  quella di raccogliere un ragionevole numero di persone e pulire le strade laddove il governo stesse mancando  ai suoi compiti. Con grande sorpresa il numero di partecipanti ha sfiorato il centinaio: questo gesto ha attirato molta attenzione, specialmente da parte dei media, i quali hanno avuto un effetto di pressione sul governo.
La notizia si è sparsa a tal punto che nell’arco di una decina di giorni, da un semplice evento spontaneo, sono scaturite le basi di un’organizzazione riconosciuta dal governo: in un solo pomeriggio un gruppo di volontari ha riempito più di duecento sacchetti della spazzatura a mani nude. Iniziativa popolare che ha messo in cattiva luce il governo ponendo l’accento sulle sue gravi mancanze.
L’Egitto è un paese molto burocratico, e tra le mille regole che esistono c’è quella che vieta di trasportare i rifiuti da un governatorato all’altro senza permessi governativi: dopo l’evento di settembre “Clean Up Giza” lo stesso governatorato di Giza ha contattato telefonicamente  Dana per proporle una collaborazione.
Oggi, a due mesi di distanza, sono più di seicento le persone che collaborano per far qualcosa di positivo per la città: l’obiettivo entro la fine dell’anno è di ottenere 25.000 grandi bidoni  della spazzatura da dislocare in ogni area del Cairo. Dati gli scarsi fondi governativi, questi bidoni sarebbero sponsorizzati da compagnie private, ristoranti, fast food e da chiunque volesse contribuire ed essere di supporto al progetto. In questo modo, tramite i media, la pressione sul governo aumenterebbe con lo scopo di promulgare una legge che vieti di gettare rifiuti per strada. A mesi alterni è programmato un evento, diramato in più aree del Cairo, per pulire la città: il motivo di quest’iniziativa bimestrale nasce dal fatto che fino ad ora Dana ha utilizzato Internet quale mezzo di comunicazione per raggiungere le persone, ma in un paese quale l Egitto, dove la percentuale delle persone che ha accesso a internet è inferiore al 12% , il mezzo non è pienamente efficace. Per questa ragione gli eventi di piazza, con gente che pulisce le strade a mani nude e con le scope, sono molto più efficaci per raggiungere l’attenzione di un maggior numero di persone, di qualunque classe sociale, e dare il buon esempio.  Ultimo passo di questa campagna di sensibilizzazione al problema sempre tramite pressione mediatica sul governo è di ottenere nelle scuole le ore d’insegnamento dell’educazione civica.
Se gli obiettivi che sono stati posti dovessero essere raggiunti nell’arco di un anno, il passo successivo sarebbe quello di spingere il governo, tramite una nuova campagna di sensibilizzazione, a creare un sistema di trasporti pubblici meglio strutturato, così da ridurre le vetture in circolazione.
Questa magnifica iniziativa è solamente all’inizio, ma la velocità con cui tutto sta procedendo è molto promettente: è un’impresa certamente ambiziosa, specialmente in un paese come l’Egitto, che non ha grandi fondi per finanziare questo tipo d’iniziative. Positivo il fatto che tutto questo sia nato per iniziativa di una giovane ragazza che è riuscita a smuovere gli animi e il senso civico dei cittadini, facendo un piccolo passo verso un domani migliore e si spera, più pulito.


Carpoolers!

ottobre 24th, 2009 by Laura Zunica | No Comments

Carpoolers!

Nel 2009 la città de Il Cairo ha ottenuto uno spiacevole primato, spodestando Mexico City come città più inquinata del pianeta. Oltre il problema dei rifiuti – che fortunatamente viene combattuto con sempre maggiore impegno da gruppi di giovani volontari – particolarmente allarmante è la qualità dell’aria. Data la povertà del Paese, non sono molte le risorse economiche da poter investire per un migliore sistema di trasporto. La città è invasa da automobili e taxi – non propriamente eco-friendly – che si danno vita ad interminabili incolonnamenti. L’aria è sempre più irrespirabile, a un livello tale che è possibile accorgersene appena scesi dall’aereo.
Appurato il fatto che una soluzione a tale problema non fosse percorribile per vie governative – principalmente a causa della mancanza di fondi – la situazione appariva senza vie di uscita. Fortunatamente qualche tempo fa un ragazzo, intasato nel traffico di una delle strade principali del centro (26th July, mentre si recava in Lebanon Square) ha realizzato quanto fosse ridicolo essere bloccati in una coda nella quale ogni macchina portava solo un passeggero: se ognuna delle macchine avesse portato quattro persone il traffico sarebbe stato ridotto di un quarto. La domanda è stata quindi come poter economicizzare tempo e danaro diminuendo il traffico e facendo allo stesso tempo qualcosa di positivo per l’ambiente.
Sebbene l’idea fosse geniale a livello teorico, non sembrava altrettanto semplice metterla in pratica: in un gruppo di amici la maggior parte vive e lavora in luoghi diversi, e condividere lo stesso veicolo non avrebbe che allungato i tempi e lo stress. Come risolvere il problema quindi? Sfruttando l’enorme numero di cittadini che si spostano in tutte le direzioni durante il giorno: la soluzione sarebbe stata quindi trovare un modo per mettere queste persone in contatto.
Soluzione arrivata con il sito Egypt Carpoolers (www.egyptcarpoolers.com)
Durante la fase iniziale del progetto, questo gruppo di amici si è imbattuto con sorpresa in moltissimi altri siti che, in diverse parti del mondo, pubblicizzavano la stessa idea. In Egitto l’iniziativa non era ancora arrivata e, spinti dal’entusiasmo generale, i nostri hanno deciso di passare all’azione. Tra i principali ostacoli il fatto che in Egitto solo il 12% della popolazione, per ovvie ragioni socio-economiche, ha la possibilità di accedere ad internet. A ciò si aggiunge poi il fattore culturale: l’Egitto conservatore, che non considera socialmente accettabile il fatto che due individui di sesso opposto si trovino da soli in un luogo non pubblico, avrebbe potuto essere d’ostacolo al lancio dell’iniziativa. A questo scopo, per evitare il fatto che qualcuno abusi del sito per motivi diversi dagli scopi che il progetto stesso si propone, sono stati posti controlli e restrizioni, quali l’obbligatorietà di registrarsi ed di essere maggiorenni.
La diffusione ed il successo riscontrato da questo genere di iniziative in diversi Paesi del mondo è indice di un disagio di molti cittadini di fronte allo spreco generalizzato di tempo e di danaro (e delle sue conseguenze deleterie in campo ecologico), un disagio che fortunatamente in sempre più casi non si limita alle critiche alle autorità (a cui è senz’altro imputabile buona parte delle colpe) ma viene affrontato con impegno e buona volontà.


Mister Obama va ad Oslo

ottobre 12th, 2009 by Francesco Vannutelli | No Comments

Mister Obama va ad Oslo

La decisione di Oslo di assegnare a Barack Obama il premio Nobel per la pace a poco meno di  un anno dalla sua elezione appare a molti spiazzante. È opinione comune che Obama debba ancora dimostrare di essere in grado di portare a termine il percorso sul quale ha deciso di orientare la proprio presidenza. Le migliori intenzioni ci sono, ma la strada da fare è ancora tanta e gli obiettivi difficili da raggiungere. Il superamento della tensione con l’Iran di Ahmadinejad, il difficile ruolo di intermediario nel dialogo tra Palestina e Israele, la preparazione di un’adeguata exit strategy dall’Afghanistan nel momento in cui i comandi militari chiedono l’invio di altre 60.000 unità, l’impegno per portare avanti il disarmo nucleare annunciato nel suo primo discorso alle Nazioni Unite sono le prove con cui il presidente degli Stati Uniti deve ancora confrontarsi e su cui punta i riflettori l’opinione pubblica internazionale.
Di concreto, Obama ha fatto ancora poco per meritarsi il massimo riconoscimento per l’impegno internazionale. L’avvio del ritiro delle truppe dall’Iraq rappresenta certamente un primo passo importante e un chiaro segnale di svolta rispetto alla precedente amministrazione Bush, così come la decisione di lasciar perdere il progetto dello scudo spaziale, che tanti attriti aveva creato fra la Casa Bianca e il Cremlino, o ancora la chiusura della prigione di Guantanamo, seppur tra infinite difficoltà per la sistemazione dei detenuti.
In generale, a Obama va riconosciuto l’indubbio merito di aver impresso da subito una netta svolta alla politica estera USA, distendendo i toni nei confronti del mondo islamico, senza perdere di vista la minaccia terroristica, ma abbandonando il gergo da crociata manichea propria della precedenti presidenze Bush. L’impegno al dialogo con l’Islam moderato è un punto fermo della nuova diplomazia statunitense, come ha confermato lo stesso Obama nel recente discorso all’università del Cairo.
Nella motivazione del premio, il Comitato spiega di aver scelto il presidente degli Stati Uniti “per i suoi sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”, avendo “dato grande importanza all’impostazione di Obama ed ai suoi sforzi per un mondo senza armi nucleari. Obama da presidente ha creato un nuovo clima nelle relazioni internazionali. La diplomazia multilaterale ha riguadagnato centralità, evidenziando il ruolo che le Nazioni Unite ed altre istituzioni internazionali possono svolgere”, aggiungendo nella conclusione che “per 108 anni il Comitato ha cercato di stimolare proprio quella politica internazionale e di quegli atteggiamenti di cui Obama è il portavoce a livello mondiale”.
Il Nobel arriva a sancire, dunque, la condivisione della nuova politica statunitense. È un premio alle intenzioni, si è detto, ed è giusto definirlo tale. Il riconoscimento obbligherà in qualche modo la Casa Bianca a mantenere gli impegni presi; l’attenzione internazionale seguirà con ancor maggiore cura la diplomazia statunitense, per assicurarsi che il premio non sia stato dato a vuoto.
Ma c’è dell’altro, ed emerge chiaramente dalle dichiarazioni del Presidente del Comitato per il Nobel per la Pace Thorbjorn Jagland: “Non è una scelta rivolta al futuro, ma al simbolo che Obama rappresenta.” Il quintetto dei saggi di Oslo ha deciso di premiare Obama per tutto ciò di nuovo che incarna. Come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti della storia, l’ex senatore dell’Illinois apre il futuro del suo paese, e indirettamente del mondo intero, a nuovi orizzonti e nuove possibilità. Obama è un uomo di enorme carisma e incredibile appeal mediatico e, emblematicamente,  è già egli stesso il cambiamento di cui si fa promotore; per questa sua valenza simbolica si è deciso di investirlo del titolo.
Il cambio di rotta della politica estera statunitense sta confermando quanto promesso prima delle elezioni, lasciando presagire sviluppi lungo il sentiero della pace. In politica interna Obama sta godendo di minor fortuna per le sue riforme, ma agli occhi dell’opinione pubblica internazionale continua a rappresentare la possibilità di una nuova politica fatta di collaborazione e dialogo, lontana dalla guerra di culture che aveva caratterizzato l’amministrazione Bush.
Obama va incontro a difficoltà enormi. I problemi da affrontare, le soluzioni da trovare sono infinite e diverse tra loro. Deve stare attento a trovare compromessi, a mediare tra parti diverse. Per questo riceverà il Dalai Lama dopo la visita in Cina e non prima, per questo si impegna a portare avanti la lotta al terrorismo e il dialogo con il mondo arabo.
Gli ostacoli lungo il suo percorso sono tanti, dall’ostracismo interno alla riforma sanitaria e alle riduzioni di CO2 all’enorme incognita iraniana, ma Barack Obama sembra intenzionato a proseguire sul suo cammino. E il Nobel è lì a ricordargli la direzione da seguire.


Turchia: al bando sigarette e tradizioni

agosto 12th, 2009 by Stefania Coco Scalisi | 4 Comments

Se chiedessi di alzare la mano a chi almeno una volta nella vita si è rivolto a un amico affetto da tabagismo con l’espressione “certo che fumi proprio come un turco!”, sono certa che troverei di fronte a me un letto di mani svettanti e di teste annuenti.
L’associazione fumo-Turchia, è tanto scontata che è divenuta oramai di uso comune. Mia nonna, ad esempio, era solita utilizzare questo epiteto verso chiunque fumasse più di quello che lei, da donna morigerata, riteneva un limite invalicabile, vale a dire circa cinque sigarette al giorno.
Eppure, anche questo mito è destinato a crollare.
Il premier Recep Tayyip Erdogan infatti, il cui obiettivo è quello di adeguare sempre più il paese alla normativa dell’Unione Europea, categorica in tal senso, ha fatto della battaglia contro il fumo uno dei suoi cavalli di battaglia, arrivando a definire le sigarette pericolose tanto quanto il terrorismo.
Dunque, dal 19 luglio, è stato applicato il divieto di fumo anche nei bar e nei ristoranti, ultime isole felici dei fumatori incalliti, ai quali già dall’anno scorso era stato impedito di accendersi una sigaretta nei luoghi pubblici, come gli uffici statali, gli ospedali, i cinema, gli aeroporti, i mezzi di trasporto pubblici e addirittura gli spazi in comune degli edifici privati.
Finisce insomma un’era, iniziata nel lontano 1600 per opera inconsapevole del sultano Muradiv, che fu il primo a proibire con la decapitazione il vizio di fumare, talmente radicato nella società del tempo che lo status di una persona corrispondeva in maniera direttamente proporzionale alla lunghezza della sua pipa. Quando però il divieto e la relativa pena terminarono, l’abitudine del fumo per reazione crebbe tantissimo e dall’Impero Ottomano si diffuse in tutta Europa.
E proprio per adeguarsi a quell’Europa spesso ostile all’ingresso della Turchia nel suo club, che la normativa antifumo è entrata in vigore con tanta fermezza, prevedendo multe pari a 25 euro per i trasgressori, e persino una multa di 10 euro per chi verrà sorpreso a gettare semplicemente dei mozziconi per strada. Per punire la vendita di tabacco ai minorenni c’è invece il carcere, da uno a sei anni di detenzione.
Tanta severità non è stata ben accolta dai cittadini turchi per i quali le sigarette più che un semplice vizio, sono un vero e proprio simbolo nazionale se si pensa che il padre della patria, Kemal Atatürk, ne fumava ben 80 al giorno.
La politica antifumo del premier Erdogan si inserisce in un più ampio quadro di riforme che mirano ad adeguare la legislazione turca all’acquis communautaire, così da rendere più semplice un futuro ingresso del paese nell’UE e mettere a tacere le critiche dei suoi più strenui oppositori.
Nello stesso senso vanno interpretati, dunque, alcuni emendamenti agli articoli del Codice di Procedura Penale, in modo particolare l’articolo 3 e l’articolo 250. Il primo stabilisce che, d’ora in poi, nessun civile può essere processato dalle corti militari. Nell’emendamento all’articolo 250 si stabilisce invece l’opposto, ossia che d’ora in avanti i militari accusati di crimini contro la Corte Costituzionale, la Difesa Nazionale e i segreti di Stato, vengano giudicati da tribunali civili e non più da corti militari. Si tratta di due cambiamenti epocali per la storia della Turchia e per i rapporti tra militari e politica, che da sempre caratterizzano il Paese e per cui l’Unione Europea ha sempre criticato Ankara.
Il premier turco insomma sta impegnandosi con forza per rendere il paese sempre più europeo, stravolgendone spesso usi e costumi.
A questo punto bisogna capire se per i turchi questo non sia un prezzo troppo alto da pagare.


Il G20 di Londra e la via italiana per uscire dalla crisi

aprile 3rd, 2009 by Roberto Giannella | 4 Comments

Il G20 di Londra e la via italiana per uscire dalla crisi

Finalmente sembra essere arrivata una buona notizia da Londra. O almeno così pare. Leggendo il communiqué del G20 di Londra si nota il risalto dato a misure “senza precedenti”, adottate dai più importanti capi di stato e di governo del mondo.
Da quanto si evince, sono stati stanziati 1100 miliardi di dollari dal G20 in favore del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale al fine di sostenere i flussi del credito, la crescita e la difesa dell’occupazione. Un’altra cifra enorme, 5 mila miliardi di dollari, è quanto i singoli Paesi del G20 si impegnano ad investire per i vari piani anti-crisi entro il 2010. Di particolare interesse è il passaggio in cui i protagonisti del summit di Londra si impegnano ad astenersi da svalutazioni competitive e ad agire al fine di mantenere la stabilità dei cambi. Inoltre, il Financial stability forum (FSF) viene sostituito dal Consiglio per la stabilità finanziaria.   Di primo acchito, potrebbe sembrare una differenza marginale; tuttavia, si tratta di un cambiamento fondamentale: da quanto si apprende, il nuovo board avrà il compito di collaborare con il FMI al fine di vigilare – preventivamente – sui rischi macroeconomici e finanziari e la fissazioni di principi sulle remunerazioni dei manager.  In aggiunta, il G20 di Londra ha messo la parola “fine” – con buona pace di Berna – al segreto bancario. Viene prevista la pubblicazione della lista dei cosiddetti “paradisi fiscali” e verranno elaborate eventuali sanzioni, qualora un Paese non fornisca le informazioni richieste. Finalmente si è compreso che anche i famosi hedge funds dovranno essere sottoposti a nuove regole e meccanismi di vigilanza. Un ulteriore step forward è senza dubbio il fatto che il FMI sia stato autorizzato a vendere le sue riserve auree per finanziare i Paesi più poveri in difficoltà. Da non dimenticare, speriamo non lo facciano nemmeno i Paesi del G20 una volta lasciata Londra, i 50 miliardi di dollari promessi ai Paesi più poveri e più colpiti dalla crisi, come sostegno alla ripresa e forma di protezione sociale. Viene infine ribadito il rifiuto netto a qualsiasi forma di ripristino di barriere agli scambi commerciali e finanziari, in altre parole: viene detto un secco NO a qualsiasi forma di protezionismo. Fortunatamente, non è stato ritrattato l’impegno globale per raggiungere un accordo sulla lotta contro i cambiamenti climatici, in occasione della Conferenza ONU che avrà luogo a Copenaghen alla fine di quest’anno.
Dunque, sono state trovate soluzioni globali per una crisi che non ha risparmiato nessun Paese al mondo. Un bilancio senza dubbio positivo: merito della presidenza inglese – Mr. Brown ha per davvero svolto un lavoro eccellente – e delle varie diplomazie presenti al summit, che hanno messo al primo posto la “dimensione umana” di questa drammatica crisi finanziaria internazionale.
Bene. E in Italia? Sono state prese altrettante misure decisive finalizzate a far ripartire l’economia del nostro Paese? Sì, eccone alcune.
Al 31 dicembre 2008 sono state consegnate 520.000 social cards (su 1.400.000 previste). Delle 520 mila cards assegnate, risulta che circa 190mila non avessero alcuna copertura.
Il famoso “piano casa” prevede – per certi edifici residenziali – la possibilità di ampliare del 20% la volumetria esistente; inoltre, è prevista la facoltà di demolire e ricostruire una parte di edifici a destinazione residenziale – fino ad un massimo del 35% della volumetria esistente – per migliorarne la qualità architettonica e l’efficienza energetica. Quanti italiani si avvarranno delle agevolazioni previste dal “piano casa” rimane un’incognita.
E’ previsto un bonus straordinario fino a un massimo di 1.000 euro, destinato a famiglie, lavoratori dipendenti e pensionati con reddito compreso fra 15.000 e 22.000 euro.
Il nostro premier, che ieri ha fatto persino innervosire Sua Maestà la regina Elisabetta, sostiene che “bisognerebbe avere tutti la voglia di reagire, di avere molta fiducia, di impegnarsi e magari lavorare anche di più.” Sottoscrivo in toto.
Ma non sarebbe altrettanto utile dimezzare l’IVA, portandola al 10% per rilanciare i consumi? Qualcosa di simile è stato fatto in Inghilterra, non più tardi di alcuni mesi fa.
Non sarebbe forse più saggio accorpare referendum ed election day a giugno, al fine di non sperperare inutilmente quasi 500 milioni di euro?
Non sarebbe forse il caso di cercare di recuperare per lo meno una parte dei 90 miliardi di euro che – si stima – ogni anno la mafia produce?
Non sarebbe forse altrettanto produttivo adoperarsi per riportare l’evasione e l’elusione fiscale a livelli europei, dato che in Italia è tre volte superiore rispetto ai nostri partner dell’Unione?


Unione o Disunione Mediterranea?

marzo 25th, 2009 by Thomas Villa | 2 Comments

Unione o Disunione Mediterranea?

“Una razza una fazza”, dicono i nostri vicini di casa greci.
Ed in effetti, a giudicare da alcuni tratti comuni nello stile di vita, è difficile dargli torto.
Le lingue cambiano, le religioni anche, la storia pure, ma una certa linea comune resiste.
In parte, è ovviamente dovuto ad una geografia comune o molto similare, la cosiddetta macchia mediterranea, che porta a vegetazioni simili, se non uguali. E forse, tra coltura e cultura non esiste poi molta differenza. Secondo alcuni storici del secolo scorso, le popolazioni mediterranee sono accomunate da una medesima attenzione alimentare, la cosiddetta “dieta medierranea”, che si basa soprattutto sull’olio, sul grano e sul vino.
Sicuramente le dominazioni prima latine, poi arabe, furono agenti di omogeneizzazione delle tradizioni culturali mediterranee. Forse, questa chiarezza e facilità nell’attribuzione delle “radici comuni” rende l’identità mediterranea ancora più marcata di quella europea e talvolta, addirittura, di quella nazionale.
Ma aldilà di questa idilliaca analisi, una unione mediterranea potrebbe resistere all’urto della pragmatica politica internazional e dei suoi biechi interessi?
Aldo Moro, uno dei politici italiani più lungimiranti (una tipologia di politico della quale si sente una grande nostalgia oggi) provò a proporre questa illuminata idea nel corso dei lavori preparatori della Conferenza di Helsinki del 1972 (che diede poi vita all’organizzazione OSCE). Purtroppo, l’idea fallì, a causa dei tempi ancora non maturi per un progetto simile.
Perché tale proposta potesse tornare in auge, si dovette aspettare gli anni Ottanta, quando, sempre in sede OSCE, nacque l’idea di una organizzazione regionale euro-mediterranea. L’obiettivo sarebbe stato quello di raggiungere entro dieci anni una unione tariffaria per il libero scambio di merci, idee e persone. Questo progetto assunse il nome di Processo di Barcellona, dalla conferenza che ebbe luogo nel 1995.
L’idea, in seguito ai conflitti tra mondo arabo e mondo occidentale (e, dunque, tra Nord Africa ed Europa) venne meno, e fu quasi dimenticata. Fino al 2007, quando il primo ministro francese, Nicolas Sarkozy, rilanciò l’idea. Nel frattempo, il fronte sud del Mediterraneo era divenuto il secondo mercato mondiale per rapidità di crescita, superato solo dal dragone cinese. Legittimo dunque l’interesse francese ed europeo per la zona. Anche lo sfortunato governo Prodi, in Italia, fu particolarmente attento alla politica Mediterranea, in particola modo per il sostegno alle proposte di Sarkozy. Nel 2008, Sarkozy annunciò la nascita dell’entità Euromediterranea. Tuttavia, non appena cominciata l’avventura della nuova organizzazione Euromediterranea, subito cominciarono i “mal di pancia”. La Libia, quasi immediatamente, uscì dal progetto, che risultava dunque orfano di un paese strategico per l’economia nordafricana.
Che i tempi ancora non siano maturi? Di certo, la crescita del prezzo del petrolio avvenuta negli anni recenti ed il conseguente boom del surplus legato all’oro nero nei paesi arabi e nordafricani spinse molto ad una politica di integrazione economica. Altrettanto certamente, l’attuale crisi finanziaria costituisce di fatto un fattore frenante alla creazione di nuove, costose organizzazioni internazionali.
Ma non tutto è da gettare al vento.
A patto di ripensare l’organizzazione e le sue stesse basi.
Ad esempio, la “questione turca” è stata spesso affrontata in sede europea: è da considerarsi un possibile candidato per la UE? Economicamente e strategicamente è un grosso affare avere la Turchia in Europa, ma dal punto di vista sociale ed istituzionale, che cosa potrebbe comportare avere un paese membro islamico?
Bene, l’Unione Euromediterranea costituirebbe una forma di “adesione europea intermedia” che potrebbe pragmaticamente salvare capra e cavoli. La Turchia sarebbe infatti un paese membro imprescindibile per ogni possibile Unione Euromediterranea.
Analogamente, possiamo osservare come il Mediterraneo è divenuto sempre più un triste teatro di conflitti senza fine, come quello arabo-israeliano, quello libanese, e quello regionale interno all’area ex-yugoslava. Spesso, il problema negli interventi di peacekeeping in queste zone sono complicati dalla paralisi politica dell’ONU, e dal suo intricato gioco dei veti incrociati.
Una organizzazione regionale mediterranea, invece, potrebbe aggirare o anche solo ridimensionare il peso delle istanze delle grandi potenze, e velocizzare le azioni di peacekeeping prima che le eventuali crisi degenerino in conflitto.
Al momento attuale, non ci è dato sapere se Sarkozy sia stato o meno affrettato nel proclamare lo scorso anno la nascita della Unione Euromediterranea.
Ciò che è sicuro è che una tale organizzazione necessariamente deve essere assai diversa dalle entità che fin’ora abbiamo visto. Una organizzazione regionale, in grado però di intersecarsi bene con altre organizzazioni regionali, come l’Unione Africana e l’Unione Europea.
In altri termini, una organizzazione internazionale a geometria variabile, basata su un insieme assai pragmatico e realistico di principi, affinchè non si verifichino fastidiose e dannose sovrapposizioni di responsabilità. Forse, è proprio verso questa tipologia ibrida di organismi internazionali che ci si muove in questo incerto periodo di crisi politica non meno che economica.
Tutte queste riflessioni, impietose analisi e sogni richiedono tempo per realizzarsi, ma, come ci insegna un saggio proverbio: “Roma non fu costruita in un giorno”.
Il Mediterraneo, d’altra parte, non ha mai avuto fretta.


Madagascar: è guerra civile

marzo 15th, 2009 by Nina Ferrari | No Comments

Madagascar: è guerra civile

La crisi politica in Madagascar, che qui sul Tamarindo stiamo seguendo da ormai più di un mese, arriva, in questi giorni, a una drammatica battuta finale. Come spiega E.R., il nostro contatto malgascio, il presidente Ravalomanana si trova ormai isolato, solo nel proprio palazzo, attorniato solo dai suoi fedelissimi generali, anche se ancora non si è arreso a cedere alle rivendicazioni dell’ex sindaco di Antananarivo Rajoelina. L’esercito stesso è diviso in due fazioni, delle quali una, rappresentata per lo più da colonnelli e soldati semplici, si è ammutinata al Ministro della Difesa, ai cui ordini si rifiutano di rispondere.
Rajoelina, che dal 3 di marzo era stato costretto a nascondersi per non venire arrestato, il 14 di marzo è tornato allo scoperto e ha fatto sentire la propria voce, lanciando al Presidente un ultimatum perché si dimettesse. Ma Ravalomanana ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di lasciare il proprio posto e, per tutta risposta, ha fatto erigere delle barricate attorno al proprio palazzo. La situazione è disperata: il presidente, esautorato ma non arreso, ha perso ormai ogni controllo sul Paese. L’opposizione, per voce di uno dei suoi leader, Roindefo Monjache, ha nel frattempo affermato di aver destituito il Governo e di aver sciolto il Parlamento e ha comunicato la nascita di una “Alta Autorità di Transizione” che “assumerà le responsabilità proprie del Presidente della Repubblica”.
Il Paese, però, è allo sbando, preda di anarchia, caos e violenze. Uscire di casa è pericoloso. Ovunque regna la paura. Arresti, feriti, morti ogni giorno, da Mahajanga ad Antananarivo, da Ambositra (dove sotto i colpi delle due fazioni ha perso la vita un ragazzino dodicenne) a Tuléar. E, mentre Marc Ravalomanana si è barricato nel proprio palazzo, Andry Rajoelina, sotto richiesta delle Nazioni Unite, ha trovato rifugio nell’ambasciata francese.
In Madagascar è scoppiata, a tutti gli effetti, una guerra civile: i partigiani delle due fazioni – quella di Ravalomanana e quella di Rajoelina – si scontrano apertamente nelle città, causando morti e feriti ovunque. Negozi e infrastrutture vengono saccheggiati e messi al rogo, mentre uomini in uniforme (comandati, pare, da stranieri mercenari di pelle bianca, probabilmente Sudafricani) disperdono la folla causando morti innocenti in tutti i centri abitati. Le vittime sono soprattutto umili persone che vivono per strada, venditori ambulanti, che cercano di sbarcare il lunario offrendo cibo e altri piccoli beni di prima necessità – come nel caso dell’anziano uomo freddato di fronte al proprio banchetto di arachidi ad Antanarivo una settimana fa; ma anche studenti, sospettati di connivenza con la parte avversaria, o semplici sfortunati passanti, che si trovavano nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Le Nazioni Unite hanno chiamato tutte le forze vive della nazione – partiti politici, religiosi, esponenti della società civile – a radunarsi per trovare una soluzione a questa crisi. A prendersi l’incarico del tentativo di mediazione, ancora una volta, l’arcivescovo Mgr Odon Razanakolona. L’opposizione di Rajoelina si è però finora rifiutata di partecipare alle negoziazioni, richiedendo solo ad alta voce le dimissioni formali del Presidente.
È difficile comprendere cosa stia accadendo esattamente in Madagascar in queste ore. Da un lato, poche sono le notizie che arrivano in Europa e, quando arrivano, sono frammentarie. Dall’altro, ogni giorno vengono emessi nuovi comunicati da parte delle diverse fazioni in campo e fare ordine tra rivendicazioni e annunci ufficiali risulta molto difficile.
Ciò che è certo è che la popolazione malgascia si trova schiacciata tra miseria e violenze, la paura e il caos. Privato da più di due mesi del sostentamento del turismo, una delle maggiori fonti di reddito del Paese, e coinvolto suo malgrado nel crescente eccesso di violenza, il popolo si trova a essere vittima, innanzitutto, di una dilagante povertà. I prezzi dei generi alimentari e dei beni di prima necessità sono volati alle stelle, facendo piombare gli abitanti del Madagascar nella fame. L’unica speranza possibile a questo punto è che l’inasprimento di questa crisi politica conduca le parti in causa, compresa l’ONU, a lavorare per il bene di questo popolo e a trovare una risoluzione ormai agognata da troppo tempo.


A civil globalization?

marzo 11th, 2009 by Vincenzo Ruocco | No Comments

A civil globalization?

I movimenti fondamentalisti sono sempre caratterizzati da un fortissimo legame con lo spazio geografico. La difesa del territorio è infatti un elemento comune a quasi tutti i fondamentalismi. Difendere la terra ancestrale, la Terra Santa, la patria è ciò che unisce gli individui di una lotta all’ultimo sangue contro forze “sataniche”. Dietro a ciascuno di tali movimenti vi è l’idea di ripristinare l’ordine in una realtà caotica, erigendo barriere ai confini.
Questa è l’ultima reazione ad un mondo sempre più aperto, fatto di reti globali e di flussi di comunicazione. I fondamentalisti cercano la stabilità in una società in perpetuo cambiamento e tentano di arrestare ogni forma di evoluzione risacralizzando il territorio.
In un mondo sempre più legato alla dimensione del tempo, rimangono fieramente fedeli allo spazio, considerando ogni forma di accesso un’influenza contaminante.
Quando l’America invase l’Iraq nel 2003, gli abitanti dei Paesi confinanti, fra cui l’Iran, si chiesero cosa sarebbe potuto accadere se gli U.S.A. li avessero attaccati.
Alcune persone sostengono che la crescente minaccia nucleare che l’Iran proietta sul mondo possa essere la causa del tentativo di conquista da parte americana.
In risposta al programma di arricchimento dell’uranio, le Nazioni Unite hanno deciso di imporre diverse sanzioni economiche all’Iran.
Cosa può significare ciò per la popolazione iraniana? Una serie di interviste realizzate dai giornalisti di current_ TV ci permettono di conoscere le opinioni della gente comune.
Ci troviamo a Teheran. In diversi accettano di rispondere al quesito. La prima persona che sceglie di parlare alle telecamere è una ragazza. Non fuori, per strada, ma dentro casa, nella sua camera.
Non posso fare a meno di notare che alle sue spalle sta un bell’iMac bianco della Apple Computer Inc..
“Non ho mai dimenticato il momento immediatamente successivo all’inizio dell’invasione americana in Iraq e mai dimenticherò cosa provavo nel sapere che i soldati americani erano al confine con l’Iran. Chiunque si chiedeva cosa sarebbe successo se gli U.S.A. avessero deciso di attaccarci. Mi sarei alzata ogni mattina ringraziando Dio per aver fatto sì che il nostro Paese non fosse stato invaso la notte precedente.
Ora, sono passati diversi anni dall’invasione americana dell’Iraq, non esiste più, a mio avviso, la minaccia di un attacco americano all’Iran. Ormai non ho più incubi riguardo all’attacco da parte dei soldati americani. A Teheran la gente vive la propria vita giornalmente senza paure e insicurezze.”
Siamo all’aperto, in una giornata di sole. Non credo che i giornalisti temessero qualcosa, anzi, li percepisco liberi come coloro che si avvicinano per parlare.
“Perché credi che gli U.S.A. non abbiano ancora attaccato l’Iran?”
Un ragazzo risponde:
“Non penso che gli americani stiano pianificando un attacco perché non possono assumersi il rischio di una tale decisione, intendo il rischio economico.”
Una ragazza risponde alla stessa domanda:
“Per merito della nostra forza militare. Abbiamo dimostrato in passato quanto sia difficile sconfiggerci.”
Un secondo ragazzo ci dice:
“Queste minacce sono infondate. Penso la stessa cosa quando qualcuno qui da noi urla ‘Morte all’America’. Mi sembra uno spettacolo in cui due soggetti recitano due parti assegnate. Non dobbiamo credere alla libertà e alla democrazia nel modo in cui gli U.S.A. li definiscono. Preferisco la nostra dittatura rispetto ad una democrazia straniera.
Tu cammini per le strade, trovi i negozi di Benetton. La globalizzazione ci sta colpendo, una globalizzazione forzata. Le ragazze che fanno acquisti scelgono i vestiti in modo da imitare il look di Jennifer Lopez svilendo così i nostri valori.”
Siamo in un parco cittadino, una donna dallo sguardo sereno mostra la sicurezza delle proprie opinioni:
“Loro hanno pensato che le persone afgane e irachene non fossero felici delle proprie situazioni di governo. Ma non guardano all’Iran in questo modo. Si rendono conto come, sostanzialmente, il popolo iraniano sia contento.
La nostra inflazione e le crisi economiche sono causa delle sanzioni, questo sì.”
Nella medesima location una bella ragazza dal “viso pulito”, permettetemi questa massima popolare, espone in maniera pacata il proprio parere.
“La politica americana in Iran è stata priva di successo perché la gente supporta il proprio governo. Sebbene l’America non ci abbia attaccati, questo non significa che non ci stia facendo pressioni.
Mi chiedo se sia questo il significato del termine globalization. Per noi le sanzioni altro non sono che una forma di guerra in questo mondo globalizzato. Mi chiedo, questa globalizzazione è utile per noi come lo è per l’America e per l’Occidente? Oppure noi soli siamo le vittime di questo processo?”



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