Un solo secondo, per un intero viaggio

ottobre 21st, 2009 by Eleonora Corsini | 2 Comments

Un solo secondo, per un intero viaggio

C’è un secondo nella vita in cui non sai se sei un genio od il più grande deficiente della terra. C’è un secondo nella vita in cui non sai se ti stai gasando o cagando sotto. C’è un secondo nella vita in cui ti senti folle, pazzo, incosciente e ne sei troppo fiero…

C’è un secondo nella vita che è il secondo più incredibile ed assurdo che potessi immaginare, un secondo in cui non sai bene cosa pensare, o meglio, se pensare… un secondo in cui, no, non puoi pensare, sei sospeso tra il niente ed il tutto, un secondo in cui non sai se stai volando o precipitando…. un secondo in cui  TI SEI LANCIATO DA UN AEREO, idiota!!!!!

13.000 piedi di vento sotto di te, che forte forte ti soffia addosso e ti sostiene nell’aria.
Orizzontale al terreno, braccia allargate e fluttuanti come le ali di un uccello:
stai volando!!!
Quaranta secondi di caduta libera, poi a 6.000 piedi “puff”, tiri il paracadute e… un freno a mano nell’aria! Qualcosa di molto meglio di un’inversione ad U… una brusca frenata ed il tuo corpo ora si ritrova verticale, il momento del volo è finito. Ora, semplicemente, plani lentamente fino a terra, 5 minuti ancora di giri, e poi è fatta!

È successo tutto sabato 17 settembre 2005 a San Francisco, California.
L’attesa è stata lunga, quasi tutto il giorno.
Mentre aspettavamo, Olga ed io ci siamo messe a fare capriole, spaccate, verticali e ponti, così tanto per far passare il tempo, oppure, inconsciamente, così, per enfatizzare il rischio: se devi morire tanto vale farlo con qualcosa di rotto che fai più bella figura!!!!
Ci hanno chiesto di firmare un foglio in cui davamo il permesso agli istruttori di ammazzarci. Qualunque cosa succedesse, che fosse errore nostro o ubriacatura loro, noi firmavamo che era comunque colpa nostra: quasi rassicurante!

Poi gli istruttori ci hanno spiegato che fare ed io non ho capito nulla, però ho chiesto di poter aprire io il paracadute e così è stato. Siamo dunque saliti su un trabiccolo rosso e giallo poco rassicurante, ma molto buffo. Io ho paura anche degli aerei… si cominciava bene. Lì è stato davvero comico, io mi rendevo conto lentamente di dove mi ero andata ad infilare (per mia e solo mia volontà!) e la paura cresceva a livelli esponenziali e rapidità cosmiche, ma non potevo tornare indietro.
Eravamo in 8 sull’aereo, Olga ed io e rispettivi istruttori, più 4 paracadutisti. Quattro paracadutisti si sono lanciati, poi toccava a me.

Ho visto questi 4 pazzi darmi la mano, augurarmi in bocca al lupo, un paio di linguacce e poi “hop!”, nel nulla….. la mia reazione? Mi sono aggrappata all’aereo con tutta la forza che avevo!
Ma l’istruttore, con una gentilezza quasi cavalleresca, mi ha lentamente staccato la mani che afferravano le barre dell’aereo e, senza chiedere ulteriori mie conferme, mi ha portato a bordo finestra… gambe fuori, ci siamo dondolati. Uno, due… VOLO!!!!!

Nonostante la presenza di un professore attaccato interamente a te, sembra di stare da soli, perché la forza dell’aria è talmente grande che elimina il peso della persona incollata dietro di te. Così io, che mi ero presa l’impegno di aprire il paracadute arrivati a 6.000 piedi di altitudine, lo avevo totalmente dimenticato. Troppo impegnata a ripetermi: “Sto volando!” e contemporaneamente chiedermi: “Volo o precipito?”

Per fortuna a 5.000 una botta in testa mi ha ricordato non solo che non ero sola, ma anche la storia della levina che dovevo tirare, e così ho sfidato la buona sorte e per mia fortuna il paracadute si è aperto! Un colpo secco e l’adrenalina rallenta insieme con la velocità.
Il paracadute aperto ti permette di risponderti: “Non stavo precipitando, volavo!” E questa conferma, tutto sommato, fa piacere.

Comincia il momento della discesa lenta e all’arrivo la terra appare un luogo, una dimensione, estranea. Mi sentivo come appartenente ad un’altra atmosfera, con altra gravità, con altre leggi fisiche. Sentivo nei miei passi la stessa goffaggine dei primi passi sulla luna. Credo che fosse la scarica di adrenalina, energia e emozione che mi rendesse così estranea al mio corpo. Sta di fatto che in questo stato di rimbambimento sono rimasta fino al giorno seguente. Quando alle 6 del mattino sono schizzata giù dal letto e, sì!, ero finalmente ritornata sul pianeta Terra. Sono andata da Olga e svegliandola le ho detto,“Ieri abbiamo volato! Ti rendi conto? Abbiamo volato!” e lei, nel sonno: “Sì Ele, che ore sono?”
“Presto Olga, magari torno a dormire!”

Se viaggiamo per scoprire noi stessi, per vivere emozioni, per trovarci in situazioni che mai avremmo immaginato, per avere ricordi che a distanza di anni rimangono vividi in testa con un’energia unica. Se viaggiamo per raccontare un’avventura che abbia un inizio ed una fine e nel mezzo qualcosa di inaspettato anche per noi stessi. Se viaggiamo per partire e tornare. Se viaggiamo perché ci piace viaggiare, io vi consiglio di cercare il viaggio di “un solo secondo”. È un secondo speciale nella vita! È il viaggio più breve, ma intenso, che si possa immaginare!


Il fascino dell’Argentina

luglio 11th, 2009 by Francesco Belcastro | 1 Comment

Il fascino dell'Argentina

Premessa ai lettori: questo non è un articolo di viaggio, bensì una lettera d’amore. Come tutte le lettere d’amore che si rispettino è una incoerente collezione di pensieri e sentimenti.
E’ difficile spiegare perché alcuni posti riescano a colpire la nostra immaginazione, ad entrarci prepotentemente popolando le nostra fantasie di viaggiatori . La mia infatuazione per l’Argentina è forse nata quando, da bambino, seguivo le gesta dei suoi grandi calciatori, da Caniggia a Batistuta fino ovviamente al grandissimo Diego Armando. E’ poi cresciuta con le magiche storie che sentivo raccontare o leggevo, storie di caudilli e di gauchi, di anarchici e ballerine di tango.  Un paese da cui ero incredibilmente attratto, che sentivo di dover conoscere.
“E tu che sai, di Buenos Aires?”. Quando Manuel Vazquez Montalban decise di spedire Pepe Carvalho nella capitale argentina, gli diede come compagna di viaggio questa domanda. Ripetutagli da amici ed estranei, suscitava sempre la stessa risposta:”Tango,Desaparecidos e Maradona”.   Sul volo per Buenos Aires mi accorsi che anche io, come il celebre ispettore catalano, conoscevo dell’Argentina e della sua capitale solo gli stereotipi che le erano stati cuciti addosso. Con gli anni l’Argentina era diventata per me  un “luogo immaginario” che forse niente aveva a che vedere con la vera Argentina. Le mie aspettative erano così alte che il mese seguente rischiava di trasformarsi in una grossa delusione, ed invece questo grande paese riuscì a sorprendermi e farmi innamorare.
Un mese non è certo abbastanza per visitare un paese così vasto, ma è certamente sufficiente per conoscere almeno  un pò una città, una nazione, la sua gente. Se è vero che l’Argentina è un paese di contrasti, potrò forse spiegare il mio amore per questo paese raccontando due Argentine tra le tante che esistono, forse due tra le più distanti tra loro: la capitale ed il Nord-Est Andino.
Buenos Aires è per me una città incredibile. Bella, malinconica, maestosa e al tempo stesso intima.  Certo, e’ la città del tango, del Boca e del River, la citta delle madri di Plaza de Mayo.  Ma Buenos Aires è molto di più. Buenos Aires è una città europea, o forse una città italiana. Buenos Aires è una città sudamericana.  Buenos Aires è una citta moderna. Buenos Aires è una città affascinantemente attempata.  Buenos Aires è una città mitica, dove è meraviglioso passare giornate intere sulle tracce di storie vere o nate dalla penna dei grandi scrittori che la hanno narrata. Ma Buenos Aires è anche realtà, sostanza dietro la sua letteraria irrealtà. Buenos Aires è la sua gente, i suoi profumi, i suoi colori, i suoi quartieri uno così diverso dall’altro. La capitale argentina è una città che merita di essere visitata senza fretta, a passo lento. Passeggiare per San Telmo, attraversare le sue stradine fino a giungere a Plaza Dorrego, centro della vita di questa parte di città. O visitare il cimitero monumentale nel quartiere di Recoleta, vero museo di storia argentina dove riposano tutti i grandi protagonisti della storia di questo paese, per poi spostarsi nella trendy e modaiola Palermo Vejo. E poi ancora il Microcentro, cuore pulsante della metropoli, la pittoresca Boca dove sorge la Bombonera, leggendario stadio del Boca Juniors, uno dei club calcistici più  titolati al mondo (fondato ad inizio ‘900 da un gruppo di immigrati genovesi). Buenos Aires è una città dove perdersi, dove fermarsi a curiosare, parlare, scoprire.
L’Argentina è però molto di più. Buenos Aires ne è si il centro politico e culturale, ma è al tempo stesso un concetto distante e sfumato nelle regioni più remote del paese . E niente è più remoto – culturalmente se non geograficamente – del Nord-est del paese, la regione al confine con la Bolivia. Una regione finita in Argentina forse per caso, così spiccatemente andina e così poco corrispondente alla definizione di Argentina come paese più Europeo del Sudamerica. Salta “la linda” (la bella) è la città più importante di questa regione e merita pienamente il titolo che le è stato attribuito, coi palazzi in stile coloniale e le belle chiese. Salta ha la vivacità tipica dei crocevia, dei luoghi di scambio. Da qui partono gli autobus che portano i visitatori a Nord, vicino al confine con la Bolivia. Terra di Indios con la tipica foglia di coca in bocca, gente semplice e sorridente, ospitale e calorosa. Terra di una natura dura ma bellissima, polvere e cactus e paesini. Il monoteismo ed il paganesimo si incontrano nelle meravigliose bianche chiesette situate al centro di ogni villaggio, templi di un cattolicesimo diverso – tutto andino. Luoghi dove la eco della tumultuosa storia di questo paese si avverte appena, lontana ed estranea alla vita tranquilla dei paesini e dei loro abitanti.  Luoghi dove è pero vivo e presente il retaggio culturale del Sud America pre-colonizzazione, dove l’influenza europea ha affiancato (e non spazzato via) ciò che vi era prima.
Queste due Argentine così diverse, il centro e la periferia, la capitale e la provincia, convivono con altre mille Argentine diverse tra loro. L’incessante propaganda nazionalista non ha certo cancellato la varietà culturale di un paese che storia e geografia hanno voluto ricco e diverso. L’Argentina non delude certo chi cerca in lei “Tango, Maradona  e Desaparecidos”, ma sa stupire chi ha voglia e tempo di esplorarla con i suoi mille volti.


In macchina nei Balcani: 10 stati in 18 giorni. Parte 2.

luglio 6th, 2009 by Gilberto Bonelli | No Comments

In macchina nei Balcani: 10 stati in 18 giorni. Parte 2.

Ci troviamo a Zadar (Zara) dove siamo giunti dopo tre giorni di viaggio, passando per Verona, Trieste, Rijeka e Plitvicka Jesera.
04.08.008 La serata si è rivelata interessante soprattutto nei locali affacciati sul piccolo porto, durante le peregrinazioni notturne Rob si innamora almeno due volte. Come d’abitudine lasciamo la stanza verso le dieci e partiamo. Ci dirigiamo convinti verso la spiaggia all’imbocco del porto ma resistiamo solo fino a mezzogiorno a causa del caldo e del mare francamente bruttino. Di nuovo in macchina direzione Spalato arrestandoci per la prima spesa croata composta da birra (per alimentare il frigo) e frutta per un totale di 450kn. Dopo 70 km circa, all’altezza di Sibenik passiamo un fiordo che si prolunga nell’entroterra. Deviamo sulla piccola strada che passa per Skradir. Ci fermiamo su una piattaforma in cemento dove pranziamo e ci godiamo il mare. Rob si innamora ancora un paio di volte. Ripartiamo scoprendo che sul ponte principale è possibile fare bungee jumping.
Prendiamo per la seconda volta l’autostrada decisi a raggiungere Dubrovnik, dopo 5 km siamo già in autogrill dove due  bellissime cameriere ci servono hot dog. Ennesimo discusso cambio di programma, viriamo in direzione della Bosnia e quindi di Mostar leggendone la storia sulla guida. Prima di Imotzky una gara podistica ci rallenta notevolmente. Passato il paese il panorama si apre su un’immensa vallata dove ci fermiamo e facciamo le prime foto a tre scatti, diventeranno una costante del viaggio. Passiamo il confine bosniaco al tramonto.  Ci inoltriamo quindi tra paesi poco illuminati e campi costellati di focolari. Alle 22 circa entriamo a Mostar. La città ci stupisce e ci sembra immediatamente bellissima, in periferia sembrano evidenti i segni delle guerra. Prendiamo camera alla Pension Oscar all’imbocco del centro medievale per 10€ a testa. Camere belle, pulite e spaziose con bagno in comune. Ci contendiamo strenuamente la doccia con i vicini di piano dopo la quale ci sbraniamo letteralmente una grigliata di carne Restoran Toncha a due passi dal famoso Stari Most (ponte vecchio). Dopo cena facciamo due passi in cerca di divertimenti vari, troviamo un bel locale in una grotta (Ali Baba) ma essendo lunedì è completamente vuoto. Bellissima città, ipotizziamo di comprare e restaurare un palazzo bombardato, deliriamo, è stata una lunga giornata, a letto.
05.08.008 Sveglia alle 9.30 per approfittare della colazione a 5 euro, che sconsigliamo essendosi rivelata una delusione. Carichiamo i bagagli nella fedele Katrina e ci addentriamo nella città vecchia. Assistiamo al tuffo dal ponte del baldo giovane locale, una volta tradizione popolare per risolvere contenziosi, ora attrazione turistica. Approfittiamo del 3×2 sui biglietti d’ingresso della moschea più vicina e saliamo in cima al minareto, uno dei tanti che alle sei del mattino avevano contribuito a svegliarci diffondendo i richiami ‘adhan’ del muezzin.  Rob è preda di una crisi di vertigini e, paralizzato, riscende subito dalla strettissima scala a chiocciola dove resta vittima di una “contrattura” al quadricipite destro. Io e Gia ci godiamo la magnifica vista. Scendiamo tutti, e Gia, accingendosi alla fontana viene stoppato dal tirante metallico dell’arco come se si fosse schiantato su una vetrata. In preda al caldo ed assuefatti dal fascino del luogo ci tuffiamo nel fiume venendo punti dal freddo lancinante dell’acqua: spettacolo! Dopo un paio di birrette rituali partiamo alla volta di Dubrovnik, dove giungiamo verso le 16.30 (non carichiamo due bellissime autostoppiste per colpa del frigo). Troviamo alloggio appena fuori  dalle mura della Stari Grad.
Bagnetto e sole al mare fuori dal porto.
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Dopo la doccia partiamo in cerca della cena dove incrociamo due croati enormi ed ubriachi che ci chiesero “Da problema?” con aria super minacciosa, alla quale domanda Gia rispose “Sorry, I don’t smoke”.
Salvi, ceniamo alla Lokanda ristorante sul porto vecchio con un risotto ai frutti di mare per 60kn a testa, buono. La ricerca di un locale è vana anche perchè limitata al centro, costellato di locali modello ‘gelateria-piano bar’. Passiamo due ore a cimentarci con la pietra della sfida, sulla facciata della chiesa all’ingresso nord di Stari Grad, con immancabili birrette.
A casa dopo aver deciso di muovere verso il Montenegro, ci addormentiamo.
06.08.008 Dopo le discussioni sul da farsi visitiamo la città evitando il giro delle mura a causa del troppo caldo, io in più l’avevo già fatto nel 2005.  Pranziamo dietro la cattedrale a 40kn, caro, e partiamo verso sud. Arriviamo alla frontiera Montenegrina verso le 15.00, paghiamo i 10€ per il bollino anti-inquinamento (??) e proseguiamo per piccoli paesi più disordinati del solito con il dubbio Kotor – Budva. Raggiungiamo il fiordo incastrato tra grigie montagne, bellissimo, e ci fermiamo a Kotor, nella Stari Grad per una birretta. Ripartiamo quindi per Budva, informazioni ce la dipingono come la Milano Marittima di Serbia e Montenegro. Dopo lunghe ricerche troviamo un appartamento a 21€ a testa al giorno. Dormiamo un po’ ma affascinati da Italia 1 guardiamo un sacco di TV bevendo birra. Usciamo verso mezzanotte mangiando due tranci di pizza buonissimi in uno degli innumerevoli baracchini del lungomare. Ci rendiamo conto che nei locali all’1.30 non ci danno più da bere. Troviamo per miracolo altre tre birrette e, dopo perquisizione, entriamo alla discoteca Trocadero, tre piani 3€ ingresso. Ci sono dei camerieri che ti impediscono di ordinare al bancone e ti servono loro. A causa dei cocktail praticamente analcolici alle 3.30 ci avviamo verso casa decidendo di fermarci almeno anche il giorno successivo. Letto.


Bulgacov, valchirie e postcomunismo

giugno 6th, 2009 by Chiara Massaroni | No Comments

Bulgacov, valchirie e postcomunismo

Mi piace portarmi dietro libri quando viaggio. Soprattutto libri che parlano delle città in cui sto andando, romanzi ambientati in quel Paese, in un’altra epoca, magari. Si può iniziare a viaggiare da casa. Pregustare il sapore di vodka e caviale stando sdraiati sul divano del salotto, e poi sentirne finalmente il sapore in bocca, una volta arrivati a Mosca. Visitare una Mosca nuova, coll’occhio della mente rivolto a quella città trasformata, scomparsa ma ugualmente affascinante, conosciuta solo sulla carta stampata.
Per chi viaggia con i libri, di solito a Mosca ci arriva accompagnato da Gogol, o sottobraccio al giocatore di Dostoevsky, oppure con Puskin. Io ci sono arrivata con Bulgacov. Non, però, con il classico “Maestro e Margherita”, che è forse l’ideale per andare alla ricerca della Piazza Kudrinskaja o del teatro di varietà della città. Ci sono capitata con in mano i suoi autobiografici “Appunti di un giovane medico”, una lettura invernale che racconta lontane e fredde campagne fuori Mosca. Sono quadri di una Russia di provincia, siberiana, dura, gelida, superstiziosa e antichissima. All’inizio quei racconti così rurali stridevano contro la visione di questa Mosca moderna, dei suoi enormi palazzoni del periodo comunista e dei casinò luminosissimi, delle Mercedes e dei SUV che intasavano i marciapiedi dell’Arbaat nuova, dai vetri oscurati, dalle quali uscivano corpulenti uomini con i radi capelli biondi e il viso un po’ arrossato e butterato. All’inizio non riuscivo a trovare la mia Mosca di Bulgacov. Ma lei era lì, in realtà, di fronte ai miei occhi. Si era solo un po’ nascosta. Cercando bene era dietro l’angolo.
Era rimasta incastrata nel sorriso sdentato di una vecchia che, all’angolo della metropolitana Smolenskaja, vendeva mazzolini di fiori viola, mentre, dietro di lei, le belle statue del “Proletario” ci ricordavano i fasti del comunismo. La Russia di Bulgacov me la sono ritrovata contro in tutti gli uomini stesi a terra a causa dell’alcol il sabato mattina, accasciati sulle panchine, bocconi sui bordi dei marciapiedi, le pance enormi, gonfie, tese e lucide al sole, come otri pieni. L’ho assaggiata nel sapore acidulo del latte e l’ho rivista nella vecchia Arbaat, una strada pedonale dove, nella mandria di turisti torvi, strani individui sembrano usciti da un’altra epoca: una valchiria bellissima, con lunghe gambe bianche e capelli biondi al vento cavalca verso di me nella folla. Mi passa accanto al trotto e un attimo dopo mi domando se l’ho vista davvero o l’ho solo immaginata. Un ragazzo ubriaco vende spillette con falce e martello e cianfrusaglie del comunismo.
Accanto a queste scene di vita quotidiana, a questa sofferenza autodistruttiva che è in ogni angolo delle strade, ai soldati mutilati, che chiedono l’elemosina mostrando il moncone della gamba e del braccio, il residuo di un’altra guerra iniziata o finita, accanto a tutto questo Mosca affascina , comunque, con quella sua aria imponente, maestosa, che ricorda tante epoche diverse che si sono succedute e che se ne sono andate. E, alla fine, in fondo a questi occhi induriti, lontani, arrossati di vodka e di fumo di sigarette ritrovi i contadini di Bulgacov di più di mezzo secolo fa.


Un dubbio: che cos’è il Brasile?

maggio 30th, 2009 by Eleonora Corsini | No Comments

Un dubbio: che cos'è il Brasile?

“Il Brasile rimane un mistero. Un mistero che tutti tentano ancora di capire, molti vorrebbero insegnare, ma ancora nessuno sa realmente spiegare”;  ed ancora “La verità – sospetto – è che gli stessi abitanti del Brasile non sappiano rispondere alla domanda ‘che cos’è il Brasile’ ed oramai abbiano anche smesso di porsela. Loro lo vivono questo paese …. Loro vivono, ballano, ridono e talvolta mangiano”.
Scadono i ricordi di un viaggio?
Queste parole, pubblicate nel mio primo articolo, erano il frutto della mia primissima impressione del paese, ed oggi quasi mi congratulo constatando quanto fossero corrette ed esaustive.
Cinque anni fa sono partita per tre mesi in Brasile, in qualità di volontaria e giornalista: è tardi per rispolverare tra i meandri delle immagini che mi sono rimaste? Posso ancora parlare del Brasile? Sinceramente, credo di sì. Almeno in parte.
Quel primo momento magico che si crea nel vivere lo scontro con una nuova cultura, quello rimane piuttosto intatto anche nel tempo.
Confrontandomi con brasiliani incontrati lungo strada negli ultimi anni, ogni volta abbiamo raggiunto questa conclusione: il Brasile è un mistero.
La stessa storia, quando racconta l’intera colonizzazione dell’America Latina, tanto è ricca di dettagli per paesi quali il Messico o il Perù, altrettanto è povera di spiegazioni sull’ex-colonia portoghese. Gli esploratori ancora non hanno finito di setacciare l’intera foresta amazzonica. Inutile dire che le specie animali e vegetali ivi racchiuse sono ancora fonti di scoperte entusiasmanti.
Il Brasile è innanzitutto immenso.
Immenso geograficamente, immenso culturalmente, socialmente. E questa immensità è la prima caratteristica che invade il viaggiatore che vi approda per la prima volta, e suppongo anche per le successive.
E’ un’immensità che si scinde in un unico contesto dal sapore acre e dolciastro che ti si appiccica sulla pelle. Miriade di frutti di ogni forma, colore e sapore emanano profumi saporiti, e la vegetazione, altrettanto variegata, né è la loro cornice di foglie verdi brillante e fiori dalle tinte calde.
Un’immensità che si ascolta nel ritmo dirompente delle percussioni e degli arpeggi sottili dei suonatori di strada.  Sembra che il respiro stesso si coordini alla musica, dalla samba al forrò, dalla bossanova al reggae,  dal country all’hip-pop, fino all’elettronica.
Un’immensità che si osserva nelle danze cadenzate della gente per strada. Perché lì prima di camminare, ballano. E’ una forma di espressione  sensuale, quando si articola nel movimento del bacino, e l’eco di una lunga lotta durata anni, quando si esprime nelle acrobazie della capoeira – la danza degli schiavi.
E’ una vampata di aria nuova e fresca che si concretizza in volti neri, meticci e bianchi, che sorridendo, sempre e sinceri, ti accolgono nella loro festa. Quale? La vita di tutti i giorni, dall’alba al tramonto.
Non mi riferisco alla leggenda del brasiliano che balla samba e vive per il carnevale, bensì alla realtà del brasiliano che abbraccia la filosofia del vivere alla giornata.  Rivalutando, in una scala di valori da noi ormai dimenticata, quelle piccole gioie quotidiane come i principali scopi del vivere umano, nonché la fonte della forza per sopravvivere, se necessario.
Il Brasile è spesso incredibile.
Un giro in autobus per una delle sue città, in questo caso citerò Salvador Bahia,  può essere un buon esempio di ciò che voglio dire. Per prendere un autobus, lì, dopo esserti improvvisato acrobata, devi, correndo e gesticolando, richiamare l’attenzione dell’autista perché si fermi a raccattarti, poi, per scendere, devi patteggiare con lo stesso una via di mezzo tra dove vorresti scendere tu e dove vuole fermarsi lui.  Il percorso del bus, districandosi tra le via a serpentina, permette di avere una visione quasi completa dei Barrios – quartieri – della città. L’impressione: aver visto città diverse. La realtà: è un tutt’uno. Difficile a credersi, ma l’enorme centro commerciale Iguatemi, quelle villette splendide ed ordinate ed i grattacieli colorati del barro Pituba, fanno parte della stessa città dove nel barro Capelinha infinite casupole fatte di nulla si accartocciano l’una sull’altra dando luogo ad una favela, dove le persone convivono con le fogne a cielo aperto.
Il Brasile è ricco.
Ricco di terre coltivabili, ricco di risorse energetiche, ricco di cultura e storia. E’ tra le prime colonie che si è resa indipendente. Eppure è ancora un Paese in via di sviluppo.
Recentemente, nelle sue acque territoriali, sono stati scoperti 8 miliardi di barili di petrolio, che renderebbero il Brasile un esportatore petrolifero alla stregua dei Paesi arabi o del Venezuela.
Sarà questo a cambiare il paese e la sua filosofia di vita? Difficile a dirsi, c’è solo da sperare che lo sviluppo economico e sociale ne tragga giovamento. Contemporaneamente si teme il puntuale arrivo di nuove “colonizzazioni” e l’esasperarsi dei già presenti giochi di potere e divari sociali.
Temo che questo possa comportare un cambiamento drastico, da qui a qualche anno, che renderà obsoleti i miei ricordi di un paese magico e affascinante. E questo, egoisticamente lo ammetto, mi rattrista.


In macchina nei Balcani: 10 stati in 18 giorni. Parte 1.

maggio 27th, 2009 by Gilberto Bonelli | No Comments

In macchina nei Balcani: 10 stati in 18 giorni. Parte 1.

Gil, uno dei due freschi laureati, veramente laureati, in Architettura al Politecnico di Milano. Fotografo per passione, lo definiscono misterioso, e soprannominato il peloso. Orgoglioso Fallito di Via Solari, compilatore del giornale di bordo e del seguente resoconto.
Gia, architetto anche lui originario di San Bonifacio (VR), storico componente della casa di Fallimento, scrittore per passione e talento, silenzioso riguardo le sue esperienze personali, amante dei viaggi, dei sogni e della guida soprattutto.
Rob, milanese-melegnanese secondo laureato Architetto, organizzatore nato, amante di tecnologia e di gadget per la macchina, frigoriferi inclusi, ipocondriaco con grossi occhi blu. Fallito per adozione e per merito.
Partenza fissata per il primo di agosto, circa dieci giorni dopo la nostra laurea. Tre amici (Gia,Gil,Rob) una macchina e tanta voglia di guardare fuori dal finestrino, un viaggio improvvisato, con un’idea ma non un programma e tanti chilometri da fare. Come Hemingway la Moleskine porta il racconto delle nostre peregrinazioni (parzialmente autocensurato per questioni di dignità) e qui riportato.
01.08.008 Rob, carico del suo frigo CocaCola raggiunge Gil in quel di via volta intorno a mezzogiorno. L’appuntamento è per le 16.30 alla stazione di Verona dove Gia ci accoglie in compagnia di suo fratello, che ha l’infausto compito di cederci quella che verrà poi battezzata ‘La Katrina’. Come di consueto siamo costretti ad aspettare Gia mentre si fa la doccia nella sua casa di San Bonifacio. Non ci dispiace più di tanto poichè approfittiamo del tempo per berci un paio di spritz al Crème Cafè con Carra che ci conferma la sua intenzione di raggiungerci dopo una decina di giorni nei dintorni di Budapest. Finalmente la sagoma nera della nostra autovettura si materializza nel parcheggio. Gia alla guida Gil al posto del navigatore Rob dietro con il suo amato frigo attaccato alla presa accendisigari…ancora vuoto. Intorno alle 18.30 abbiamo fatto circa 500m di strada e ci troviamo al supermercato a fare la prima spesa del viaggio (birrette e altre cose poco rilevanti). Viaggiamo in direzione di Trieste dove abbiamo intenzione di fermarci per la notte i un piccolo bed & breakfast, Le Casite [www.lecasite.com] sulle colline sopra la città precisamente a Trebiciano. Dopo le preventivate due ore di coda a Mestre raggiungiamo la nostra stanza. Pressoché accecati dalla fame (sono le 23.45) ci dirigiamo nel centro della città che dista un buon quarto d’ora di strada, dove con grande disappunto non troviamo pub disposti a servirci wuster e krauti, piatto tipico, e ci accontentiamo di due piadine a testa. Piccola passeggiata e ritorno a letto.
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02.08.008 La sveglia suona di buon ora il mattino seguente, la colazione ci aspetta sul tavolo apparecchiato nell’aia davanti alla nostra porta. Ne approfittiamo per fare un piccolo briefing riguardo alla meta odierna mentre gustiamo il pane appena sfornato. Seguendo i consigli del nostro ospite lasciamo il paesino intenzionati a passare il confine sloveno a Pese, è il nostro primo passaggio di confine. Decisi a dirigerci verso i laghi di Plitvicka (Plitvicka Jesera) situati nell’entroterra montagnoso croato a circa 105 km a sud-est da Fiume (Rijeka) dove passiamo intorno alle 13. Dopo alcune difficoltà relative al traffico riusciamo a imboccare la piccola strada che si inerpica tra grigi pendii rocciosi, tagliando piccoli agglomerati di case pressoché abbandonate e segante dalle cicatrici dei proiettili sparati poco più di dieci anni fa. Ci rendiamo conto a poco a poco di trovarci a circa 1500 m s.l.m, la temperatura glaciale nel bel mezzo del temporale che ci sorprende sull’altopiano lo testimonia ampiamente. Il paesaggio è estremamente mutevole, nello spazio di pochi chilometri si passa dal mare, a montagne calcaree, altopiani ricoperti di pascoli e alla fine, nella valle dei laghi, una fitta foresta di latifoglie. Sono già le 18.00 quando raggiungiamo il parco, il colore dei bacini visto dall’alto della valle è assolutamente impressionante e la luce del tramonto ne esalta le sfumature cristalline. Sono innumerevoli le discussioni sul da farsi dovute alla voglia di vacanza e di festa mentre ci troviamo in un posto sperduto e popolato solo da famiglie in periodo di relax. Decidiamo infine di fermarci per la notte.
La scelta di case o stanze in affitto è molto vasta e noi alloggiamo in una piccola costruzione dal tetto a falda, proprietà di una coppia di anziani del posto. Gil si trattiene una buona mezz’ora a conversare in croato (a gesti) col marito, vestito in verde militare, che domanda dell’Italia e pare incuriosito dal vedere tre ragazzi in quel posto. Vergognandoci a morte siamo costretti dagli orari tipo pollaio a consumare una cena in pizzeria dopo la quale, avendo accantonato l’idea di andare in Bosnia (a Bihac) per la serata, ci ritiriamo nei nostri letti. Gia e Gil sono ospiti d’onore al concerto di Rob, incredibile!
03.08.008 Sveglia ore 8.00, abbiamo voglia di mare. Parcheggiamo la Katrina all’Hotel Jezera, dopo aver chiesto informazioni alla receptionist partiamo per la visita del parco con un discreto caffè consumato sulla terrazza dell’albergo. Fatto il biglietto ci imbarchiamo sul battello S1. Una volta attraccati alla banchina di legno facciamo un giro sulle cascate adiacenti (età media 45-50 anni). Battello P3 che ci porta a iniziare il giro principale che si rivela bellissimo, fa caldo e l’acqua è un attrazione mortale, vogliamo fare il bagno!! (proibito). Dopo circa due ore arriviamo alla ‘Big Waterfall’ (75m) dove ci scattiamo delle foto tutti insieme. Sulla via del ritorno, nei pressi della fermata del pullman scopriamo che saremmo potuti entrare direttamente dalla strada senza pagare i circa 10 euro del biglietto. Arrivati alla Katrina partiamo in direzione di Zadar. Dopo circa un’ora di strada i morsi della fame ci inducono a deviare per Adbina che si rivela un villaggio senza nulla da offrire. Tornando sui nostri passi ci fermiamo da Robert, osteria frequentata da autotrasportatori locali, dove consumiamo un lauto pasto a base di carne grigliata a prezzo irrisorio, coronato da digestivo tipico. Sulla via per il mare decidiamo di prendere la ‘splendida’ autostrada dove una simpatica coda ci blocca per due ore buone a causa …


A zonzo per il Medio Oriente: la Giordania

maggio 8th, 2009 by Roberto Priolo | 2 Comments

A zonzo per il Medio Oriente: la Giordania

Quando si viaggia in un paese islamico di solito uno dei primi segnali di dove si è appena arrivati è il richiamo alla preghiera del muezzin, il cui fascino antico è spesso smorzato dal gracchiare degli altoparlanti che diffondono la voce in tutta la città.
Ma nemmeno questo poté limitare il mio entusiasmo nel trovarmi per la prima volta in Medio Oriente, una terra che da sempre mi affascina e attrae: nei dodici giorni successivi avrei cercato di scoprire quanto più possibile riguardo la Giordania e la Siria.
Spesso i voli dall’Europa arrivano in Medio Oriente a sera tarda. Dopo una notte di riposo, interrotto in almeno due momenti dal sopraccitato richiamo del muezzin, arriva per tutti il momento di gettarsi nel traffico e nella bolgia di Amman, la capitale giordana, che incarna in sé la caratteristica tipica delle città del mondo arabo: il tentativo di far incontrare modernità e tradizione. Moschee alternate a costruzioni più moderne, per lo più basse, strade invase dalle auto, negozi di vestiti che sfacciatamente imitano le boutique occidentali accanto a piccole botteghe e bancarelle, uomini barbuti che bevono caffè in piccoli locali in cui appeso al muro vi è sempre un santino o un quadro che ritraggono re Abdallah II, donne con i soli occhi scoperti in giro per la città a far compere. Un caos impressionante e meraviglioso, ad ogni ora del giorno e della notte.
Dal colle su cui si trovano i resti del tempio di Ercole, Amman appare bianca, enorme e abbarbicata sulle colline, come quelle casette che di solito si piazzano nel presepe sulle montagne fatte di cartone. Il teatro romano, con le sue linee curve, rompe la continuità e semplicità architettonica della città. Il sole brucia, e una grande bandiera garrisce al vento.
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La Giordania è un paese stupendo, molto religioso ma che allo stesso tempo non ha paura di scendere lentamente a patti con la modernità, come si può notare su più di un livello: dalla semplice presenza di catene di fast-food occidentali nelle maggiori città alla storica decisione nel 1994 di firmare l’accordo di pace con Israele.
Fuori da Amman, poi, la Giordania mostra tutto il suo splendore, a partire dalla vista mozzafiato su tutta la Terra Santa, da Gerico al Mar Morto, che si ha dalla vetta del monte Nebo, dal quale ho capito per la prima volta quanto i destini dei paesi mediorientali siano intrinsecamente legati uno all’altro. In pochi luoghi al mondo tanta diversità e tante tradizioni, culture e religioni diverse sono concentrate in una spazio così ristretto (o relativamente ristretto).
Ho subito capito che il modo migliore per visitare e conoscere questo paese è visitarlo a bordo di un taxi sgangherato guidato da un giordano che non parla che l’arabo: è sufficiente dire di voler visitare la Giordania perché, nel giro di cinque minuti, il capo della compagnia di taxi si presenti per concordare il prezzo, vestito di tutto punto e con un cipiglio che mi ha subito fatto desiderare ardentemente di conoscere l’arabo per potermi accordare direttamente con il dolcissimo e certamente più onesto taxista.
Ad ogni modo, in men che non si dica, ci si trova a viaggiare lungo le autostrade che tagliano il deserto e le colline del Paese, collegando tra loro le principali attrazioni turistiche e le maggiori città, che sono Amman, Irbid, Zarqa, Madaba, Jerash e Aqaba, l’unico porto giordano.
La Giordania mi ha regalato delle esperienze intense e indimenticabili, come solo un Paese così ricco di tradizioni, meraviglie e storia può fare.
Dal bagno nelle caldissime acque del Mar Morto, che sono talmente salate da impedire tanto la vita di ogni forma animale e vegetale quanto i tuffi dei molti bagnanti (si galleggia senza muoversi, anche con braccia e gambe fuori dall’acqua), alle dune e formazioni rocciose del deserto del Wadi Rum, nel sud del Paese, dove tra pitture rupestri e un thè con i beduini si può cercare di intuire la vita in queste terre bellissime seppure un po’ estreme.
Il patrimonio storico della Giordania è fatto anche di rovine romane, come quelle di Jerash, che nulla hanno da invidiare a quelle della Magna Grecia o di Roma, in quanto a bellezza e a stato di conservazione, tanto da essere soprannominata la “Pompei del Medio Oriente”.
Il maestoso colonnato del cardo, la via che si estendeva per l’intera lunghezza della città, l’ippodromo, il Nymphaeum, una fontana pubblica decoratissima, e le rovine del tempio di Artemide permettono di capire con esattezza come la città appariva in antichità, cosa che spesso è impossibile fare di fronte alle rovine dove tutto quello che rimane sono capitelli scheggiati e mozziconi di colonne.
Nonostante la bellezza di Jerash, però, la vera “star” del Paese è senza dubbio Petra, uno dei luoghi più suggestivi al mondo, in assoluto.
Una stretta e profonda gola, il siq, scende tortuosa verso la valle in cui sorge questo sito archeologico rivelato al mondo nel 1812 dall’esploratore svizzero Burckhardt, e da allora divenuto una delle mete turistiche più acclamate al mondo.
L’antica capitale dei Nabatei, un popolo di mercanti e guerrieri che dominò queste terre per sette secoli fino all’annessione all’impero romano, fu interamente scolpita nella roccia.
Fin dal primo impatto, imponenza è la parola d’ordine. El Khasneh è il simbolo di Petra, un’altissima struttura scavata nella roccia. Nell’urna più alta si dice fosse custodito un tesoro, come testimoniato dai segni di proiettile che essa riporta, tentativi passati di svelare il segreto e testare la leggenda.
Inoltrandosi nel sito archeologico, ci si trova di fronte ad un susseguirsi di facciate di antiche tombe, di reali e non, fino al teatro romano (i Romani ampliarono la città dopo averla annessa all’impero nel 106 d.C.), il tutto grandioso e surreale, tra orde di turisti, bambini provenienti dal vicino villaggio beduino, cammelli e muli che instancabilmente trasportano i visitatori lungo il sentiero principale di Petra.
Lasciare Petra è difficile, in quanto pochi luoghi al mondo hanno la stessa aura di suggestione e la stessa bellezza, ma il resto del viaggio mi chiamava.
E così, dopo quattro giorni dalla mia partenza da Amman eccomi di ritorno nella capitale, ma …


Buenos Aires – volti ed immagini di una città…

aprile 5th, 2009 by Guido Pallini | 1 Comment

Buenos Aires – volti ed immagini di una città…

Il traffico intenso scorre lungo le avenidas come linfa vitale, la gente cammina per la sua strada con un passo serrato, come formiche industriose figlie di un disegno indefinito. Sebbene di tanto in tanto pensi di essere a New York, in realtà sono a migliaia di chilometri più a sud in una terra unica e affascinante.
Buenos Aires è talmente grande che è difficile conoscerla a fondo, indipendentemente dal tempo che uno ha. La mia macchina fotografica diventa un pretesto per scoprire luoghi nuovi e parlare con la gente. Persone che forse non avrei mai incontrato e che con ogni probabilità non vedrò più ma che mi hanno trasmesso la magia di questa città.
 
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La mia Africa

marzo 21st, 2009 by Nadia Albergati | 4 Comments

La mia Africa

Ad aprile mi è capitato di incontrare una persona speciale, una persona con una malattia molto particolare e soprattutto molto contagiosa.
Un giorno questa persona mi ha chiesto di seguirla in un’avventura, un viaggio in un paese dove il tempo sembra essersi fermato e il confine fra sogno e realtà cessa di esistere… beh, ho deciso di partire ed è stato allora che sono stata contagiata dalla stessa malattia, l’unica da cui non si vorrebbe mai guarire… è stato allora che ho scoperto cosa fosse il Mal d’Africa.
Tutto inizia il 24 aprile 2009, verso le 18:00, quando mi ritrovo all’aeroporto di Linate con un gruppo di 4 persone che non conosco, pronta a raggiungere la mia meta, Lilongwe, la capitale del Malawi.
Franco era partito una settimana prima per partecipare ad una missione anti-bracconaggio e io l’avrei raggiunto con il suo amico Fabio e altre tre ragazze. Ad aspettarci, dopo ben dodici ore di volo, c’erano Francesca e Stefano di Africa Wild Truck (un Tour Operator specializzato in viaggi di avventura) insieme a Franco e gli altri membri del gruppo con cui avrei stretto un rapporto fantastico.
Senza perdere troppo tempo, una volta organizzato il nostro spostamento e ottenuta l’attrezzatura necessaria ad allestire il campo base, il 26 aprile siamo partiti per il lungo trasferimento al South Luangwa National Park, luogo dove i miei sogni di bambina sarebbero diventati realtà.
Durante il tragitto mi sono trovata a salutare folle di bambini bellissimi che correndo incontro al truck gridavano eccitati. Ho scattato fotografie tentando di catturare la luce dei loro sguardi e la semplicità quasi sconcertante delle abitazioni in cui vivono e degli oggetti che utilizzano per ottenere dalla terra il sostentamento di cui hanno bisogno.
Una volta allestito il campo sulle rive del fiume Luangwa sono iniziati i nostri safari all’interno del parco. Un parco di 9.050 Km quadrati, nel cuore di una vegetazione ricchissima, dove tutto tace. Solo la natura fa sentire la sua presenza con i suoi profumi, i suoi colori e le fantastiche creature che la abitano.
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E lì, durante i nostri safari, si sono materializzati davanti ai miei occhi, a volte a meno di tre o quattro metri di distanza, animali che da bambina mi divertivo ad emulare, affascinata dalla bellezza, dall’eleganza e dal mistero di esseri che sembravano allora lontani e impossibili da incontrare.
Branchi di elefanti, zebre, giraffe, puku, impala. Babbuini che litigano per il controllo del territorio rincorrendosi fra i frutti dei buffissimi Sausage Trees. Due giovani leoni maschi che riposano su un albero mentre la madre si rotola nell’erba alta come farebbe un qualsiasi gattino d’appartamento. Licaoni che si stirano e riposano all’ombra della fitta vegetazione, mentre un’aquila pescatrice afferra un enorme pesce gatto e lo trascina nel fango della palude.
E poi lui, l’animale più elegante e misterioso del parco, difficile da trovare ma talmente bello da rimanere impresso nei miei occhi pieni di emozione: completamente abbandonato e rilassato sul ramo di un albero, un bellissimo esemplare di leopardo riposa per niente disturbato dalla nostra presenza.
E mentre un tramonto rosso fuoco illumina la vallata con sfumature di colore mai viste prima, tutto mi appare come ovattato, fuori dal tempo, come in un sogno ad occhi aperti.
Una lacrima percorre il mio viso e in quel momento mi rendo conto di quanto questo mondo, che tutti chiamano Africa, sia in grado di tatuarsi sul cuore di chi è capace di osservarlo, di sentirlo e di viverlo… mi rendo conto di quanto reale possa essere ciò che chiamiamo Mal d’Africa.
Questa è la mia avventura, l’avventura che mi porterò per sempre nel cuore e che auguro a chiunque di poter vivere come l’ho vissuta io.


La festa del ritorno, il carnevale

marzo 18th, 2009 by Thomas Villa | 3 Comments

La festa del ritorno, il carnevale

La Palma, isole Canarie. Mare, sole e vacanze. Ma forse, anche qualcosa di più.
Vi parlerò del Carnevale, di quello che ho visto e sentito in un carnevale molto originale ed interessante dal punto di vista sociale e culturale.
Ben più piccolo del carnevale della vicina isola di Tenerife (che secondo molti è a livello del carnevale di Rio, pur con minore violenza e criminalità), anche l’affascinante isola di La Palma custodisce un’allegra tradizione carnevalesca.
Ed è più interessante di quel che ci si potrebbe aspettare dalla festa del dio carnale, infatti, nell’isola de La Palma i festeggiamenti si legano a tematiche dure e drammatiche come quelle dell’emigrazione. Nell’isola infatti si festeggia a carnevale la festa di Los Indianos, con il quale nome si intende la festa dedicata alla commemorazione del ritorno dei Canari che andarono nel secolo scorso a cercare fortuna nel Nuovo Continente, ed in particolar modo nella fertile Cuba. “Indianos”, ovviamente, si riferisce alle Americhe di Cristoforo Colombo, cioè le Indie. A fasi alterne si verificarono migrazioni reciproche tra le Sette Isole e l’America centrale. I migranti, dopo l’esperienza all’estero, tornavano arricchiti di nuove esperienze, conoscenze e di umanità. Molto numerosa è la comunità canaria in paesi come Venezuela e Cuba, ed incredibilmente numerosa è oggigiorno la comunità cubana, venezuelana ed ecuadoregna nelle Canarie. In seguito a vicende come il franchismo (che proprio da Tenerife iniziò la sua tragica avventura totalitaria), si verificò una forte migrazione dalle isole Canarie al Nuovo Continente. Con la fine della seconda guerra mondiale, la Spagna ebbe un breve periodo di discreta floridezza economica, pur sotto la cappa di Francisco Franco, detto il Generalisimo. Fu in questa occasione che numerose famiglie oriunde della isola di La Palma decisero di abbandonare una Cuba devastata dalle lotte intestine e dai ripetuti colpi di Stato per tornare nell’isola natale.
Una volta ritornati, i “palmeros” furono accolti dal lancio entusiasta di farina, come auspicio di benessere e ricchezza futura. “Los Indianos”, ovvero gli emigranti che lasciarono le Canarie, vestiti con i loro abiti di elegante lino bianco, con i cappelli di paglia intrecciata e con i loro “puros” (sigari cubani), ricambiarono l’accoglienza con delizie culinarie e gastronomiche.
Questo ritorno, avvenuto attorno al carnevale di più di cinquant’anni fa, viene ancora oggi rivissuto con allegria, vitalità ed orgoglio sia dai Cubani che dai Canari. Una festa molto rara, in Europa e nel mondo, perché festeggia e vuole ricordare il fenomeno dell’immigrazione, altrove visto come un fenomeno pericoloso, dannoso ed assolutamente da evitare e contrastare in ogni modo.
Lo dovremmo sapere bene noi italiani, che dall’eclettismo etnico abbiamo da sempre fatto un punto di forza nelle nostre creazioni (vi immaginate la pasta senza l’americanissimo pomodoro? Spesso il valore dell’integrazione si inizia a comprendere in cucina!).
Non arrendiamoci alla paura del diverso, del cambiamento, al terrore del viaggio. Siamo bombardati da messaggi univoci che condannano l’apertura come dannosa. La migrazione porta criminalità e violenza, la fuga dei cervelli è da bandire, gli studenti all’estero si ubriacano…ecc ecc…
In realtà, il cammino attraverso quelle evanescenti linee immaginate da comunità più o meno coese (note come confini) è qualcosa di profondamente ed indissolubilmente scritto nella natura umana.
Per fortuna.



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