Se il Cespuglio fosse stato nero
gennaio 7th, 2010 by Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa | 3 Comments
Ad azzardare l’incauto paragone, sembra di rivedere l’Italia degli anni ‘80. Ormai a suo agio nel ruolo di potenza regionale, ben prona a quella ‘politica della sedia’ inaugurata cent’anni prima dal Benso, il Bel Paese s’indebitava e si svalutava spensieratamente, illudendosi che le cose prima o poi sarebbero andate meglio. Magari, aggiustandosi da sole. Soliti italiani, verrebbe da dire.
Alcuni di loro, però, avrebbero un’idea piuttosto precisa oggi di come ringraziare quella passata classe politica, scellerata e incompetente, che altri ora vorrebbero riabilitare.
Questa, però, è un’altra storia.
Piuttosto, in una sorta di (analoga?) sindrome di Peter Pan permanente, gli Stati Uniti, col solito fare da ragazzone cresciuto troppo in fretta che caratterizza il loro agire politico, sembrano aver deciso di credere – passatemi la metafora – che per affrontare un abnorme problema di ‘dipendenza’ sia più efficace ‘raddoppiare la dose’ piuttosto che, dico per dire, cercare di astenersi.
E giù tutti ad applaudire.
Mi spiego.
L’immagine internazionale irrimediabilmente compromessa, travolta dai debiti e da una crisi che ha prodotto la fine di quell’unipolarismo – che, quand’anche tutto ipotetico o solo psicologico, ha permesso alle generazioni occidentali degli anni ‘80 e ‘90 di percepire il mondo come invariabilmente sicuro -, conscia che dall’Europa non sarebbe arrivato alcun sostegno consono a soddisfare la filosofia nazionale ‘I want it here, I want it now’, la SuperPotenza si è allora lanciata tra le braccia del suo ’spacciatore’, assai lieta di proseguire quella ‘terapia’ che la ha già portata sull’orlo del tracollo economico e industriale.
E così, occhi increduli e vagamente offesi (quelli europei) hanno visto celebrare, poche settimane orsono, l’anomalo sodalizio tra ciò che resta del Bastione d’Occidente e il neo-Impero Celeste (sempre in salsa comunista) – che del Bastione tiene ben saldi i cordoni della borsa.
Oltre alla sindrome di Peter Pan, quindi, pure quella di Stoccolma. Attenuata, forse, dalla convinzione che la supremazia militare americana sia ancora vergine di concorrenza e permetta ampi spazi di manovra, si necessest.
Ai posteri.
L’autore di cotanto capolavoro di geopolitica economica è Mr. Obama, nuova rivoluzionaria (?) guida dell’adolescente sindromico di cui sopra, la cui insana passione per la Repubblica Popolare ed il suo ufficiale riconoscimento di ‘unica altra potenza’ nel globo è stato cortesemente ricambiato con l’oscuramento del suo bel discorsetto all’Università di Shanghai (ma anche di un po’ tutta la sua visita).
E giù applausi.
Agli attoniti leader europei – specie, sia pur per ragioni tra loro diverse, di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito – resta il bucolico ricordo della scampagnata pre-elettorale allestita dall’allora candidato democratico – cosa mai vista prima – e degli abbaglianti sorrisi ricevuti in cambio dell’unzione del Gotha d’Europa – anch’essa senza precedenti e, col senno di poi, piuttosto ridicola.
Tutti d’accordo: del signor Cespuglio, nessuno ne poteva più. Vero è anche, però, che da quando è sul trono, Obama non fa che prendere l’Europa a sberle.
D’altra parte, nessuno osa protestare: qualunque politico facesse trapelare scetticismo nei confronti di Mr. President oggi andrebbe incontro alla gogna mediatica planetaria.
Per ora.
Per il resto, la politica estera made in USA verso i partner occidentali si fa notare più per le gaffes della presidenziale moglie – una robusta signora che ha frainteso in modo strepitoso il suo ruolo, tra pacche alla Regina Elisabetta, rifiuto dei tradizionali riti delle mogli dei capi di stato ai vertici internazionali, saluti palesemente differenziati a leader stranieri, mises stravaganti a go-go, etc. – che non per la chiarezza delle idee del marito, il cui unico segno finora stampato nella memoria collettiva è la splendida dentatura, invariabilmente esposta in ogni occasione.
Intanto, tutti continuano a ’sperare’.
Lungi dal voler prender le difese del predecessore, vale forse la pena sottolineare come, per quanto poco attribuibile al suo ‘genio creativo’ (innegabilmente modesto), Giorgio Cespuglio un’idea abbastanza chiara, in politica estera, ce la aveva. Il poveretto credeva nell’Occidente con la O maiuscola, unito da valori fondanti quella ‘civiltà’ tutto sommato comune tra Europa e America. Idea opinabile, forse. Assurda, no. Non solo, una siffatta nozione di mondo faceva comodo a molti.
Che poi, meschino, abbia veramente creduto che quei supposti valori comuni potessero rendere l’Occidente unito (o unibile) contro certe situazioni è, di nuovo, tutta un’altra storia.
L”idea di mondo’ di Barack Hussein, piuttosto, forse anche in conseguenza del portato storico che lo contraddistingue, non solo è al momento scarsamente comprensibile ma, per quel poco che se ne comprende, assai poco condivisibile.
L’inizio è ecumenico: viva la pace, l’ambiente e il multilateralismo. Pare che a Washington si sia insediato il Papa. Poi arriva l’idea della diarchia mondiale sino-americana: un frisbee in testa agli europei (e un prevedibile boomerang per gli stessi americani); nel mentre, la perdurante politica del sorriso di plastica lascia il tempo che trova, mostrando forse più l’imbarazzo di una persona conscia che il potere che gli viene attribuito è, in buona parte, già scivolato dalle sue mani; infine, l’ennesimo surge di truppe americane in Iraq e Afganistan si fatica a considerarlo un segnale di discontinuità rispetto a chi c’era prima.
Intanto, giù un nobel (condito con la filastrocca ‘per avere la pace ci vuole la guerra’, un azzardo che grida vendetta).
Da ultimo, si potrebbe notare come, nel bene e nel male, religioso salvatore per oltre novanta milioni o parafulmine degli accidenti di altri sei miliardi, ad animare scena e dibattito interno ed internazionale dell’epoca sia sempre stata la figura del Cespuglio e nessun’altra.
Ad un anno dall’insediamento, il messia politico di inizio millennio, sorrisi a parte, è già stato scavalcato in popolarità, in sequenza, dalla moglie e dal segretario di stato.
Sia come sia – e sia brutale -, la tentazione di credere che se Mr. Bush fosse stato nero oggi mi sentirei meno in imbarazzo ad usare la parola ‘Occidente’, è forte assai.