Se il Cespuglio fosse stato nero

gennaio 7th, 2010 by Giuseppe Matteo Vaccaro Incisa | 3 Comments

Se il Cespuglio fosse stato nero

Ad azzardare l’incauto paragone, sembra di rivedere l’Italia degli anni ‘80. Ormai a suo agio nel ruolo di potenza regionale, ben prona a quella ‘politica della sedia’ inaugurata cent’anni prima dal Benso, il Bel Paese s’indebitava e si svalutava spensieratamente, illudendosi che le cose prima o poi sarebbero andate meglio. Magari, aggiustandosi da sole. Soliti italiani, verrebbe da dire.
Alcuni di loro, però, avrebbero un’idea piuttosto precisa oggi di come ringraziare quella passata classe politica, scellerata e incompetente, che altri ora vorrebbero riabilitare.
Questa, però, è un’altra storia.
Piuttosto, in una sorta di (analoga?) sindrome di Peter Pan permanente, gli Stati Uniti, col solito fare da ragazzone cresciuto troppo in fretta che caratterizza il loro agire politico, sembrano aver deciso di credere – passatemi la metafora – che per affrontare un abnorme problema di ‘dipendenza’ sia più efficace ‘raddoppiare la dose’ piuttosto che, dico per dire, cercare di astenersi.
E giù tutti ad applaudire.
Mi spiego.
L’immagine internazionale irrimediabilmente compromessa, travolta dai debiti e da una crisi che ha prodotto la fine di quell’unipolarismo – che, quand’anche tutto ipotetico o solo psicologico, ha permesso alle generazioni occidentali degli anni ‘80 e ‘90 di percepire il mondo come invariabilmente sicuro -, conscia che dall’Europa non sarebbe arrivato alcun sostegno consono a soddisfare la filosofia nazionale ‘I want it here, I want it now’, la SuperPotenza si è allora lanciata tra le braccia del suo ’spacciatore’, assai lieta di proseguire quella ‘terapia’ che la ha già portata sull’orlo del tracollo economico e industriale.
E così, occhi increduli e vagamente offesi (quelli europei) hanno visto celebrare, poche settimane orsono, l’anomalo sodalizio tra ciò che resta del Bastione d’Occidente e il neo-Impero Celeste (sempre in salsa comunista) – che del Bastione tiene ben saldi i cordoni della borsa.
Oltre alla sindrome di Peter Pan, quindi, pure quella di Stoccolma. Attenuata, forse, dalla convinzione che la supremazia militare americana sia ancora vergine di concorrenza e permetta ampi spazi di manovra, si necessest.
Ai posteri.
L’autore di cotanto capolavoro di geopolitica economica è Mr. Obama, nuova rivoluzionaria (?) guida dell’adolescente sindromico di cui sopra, la cui insana passione per la Repubblica Popolare ed il suo ufficiale riconoscimento di ‘unica altra potenza’ nel globo è stato cortesemente ricambiato con l’oscuramento del suo bel discorsetto all’Università di Shanghai (ma anche di un po’ tutta la sua visita).
E giù applausi.
Agli attoniti leader europei – specie, sia pur per ragioni tra loro diverse, di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito – resta il bucolico ricordo della scampagnata pre-elettorale allestita dall’allora candidato democratico – cosa mai vista prima – e degli abbaglianti sorrisi ricevuti in cambio dell’unzione del Gotha d’Europa – anch’essa senza precedenti e, col senno di poi, piuttosto ridicola.
Tutti d’accordo: del signor Cespuglio, nessuno ne poteva più. Vero è anche, però, che da quando è sul trono, Obama non fa che prendere l’Europa a sberle.
D’altra parte, nessuno osa protestare: qualunque politico facesse trapelare scetticismo nei confronti di Mr. President oggi andrebbe incontro alla gogna mediatica planetaria.
Per ora.
Per il resto, la politica estera made in USA verso i partner occidentali si fa notare più per le gaffes della presidenziale moglie – una robusta signora che ha frainteso in modo strepitoso il suo ruolo, tra pacche alla Regina Elisabetta, rifiuto dei tradizionali riti delle mogli dei capi di stato ai vertici internazionali, saluti palesemente differenziati a leader stranieri, mises stravaganti a go-go, etc. – che non per la chiarezza delle idee del marito, il cui unico segno finora stampato nella memoria collettiva è la splendida dentatura, invariabilmente esposta in ogni occasione.
Intanto, tutti continuano a ’sperare’.
Lungi dal voler prender le difese del predecessore, vale forse la pena sottolineare come, per quanto poco attribuibile al suo ‘genio creativo’ (innegabilmente modesto), Giorgio Cespuglio un’idea abbastanza chiara, in politica estera, ce la aveva. Il poveretto credeva nell’Occidente con la O maiuscola, unito da valori fondanti quella ‘civiltà’ tutto sommato comune tra Europa e America. Idea opinabile, forse. Assurda, no. Non solo, una siffatta nozione di mondo faceva comodo a molti.
Che poi, meschino, abbia veramente creduto che quei supposti valori comuni potessero rendere l’Occidente unito (o unibile) contro certe situazioni è, di nuovo, tutta un’altra storia.
L”idea di mondo’ di Barack Hussein, piuttosto, forse anche in conseguenza del portato storico che lo contraddistingue, non solo è al momento scarsamente comprensibile ma, per quel poco che se ne comprende, assai poco condivisibile.
L’inizio è ecumenico: viva la pace, l’ambiente e il multilateralismo. Pare che a Washington si sia insediato il Papa. Poi arriva l’idea della diarchia mondiale sino-americana: un frisbee in testa agli europei (e un prevedibile boomerang per gli stessi americani); nel mentre, la perdurante politica del sorriso di plastica lascia il tempo che trova, mostrando forse più l’imbarazzo di una persona conscia che il potere che gli viene attribuito è, in buona parte, già scivolato dalle sue mani; infine, l’ennesimo surge di truppe americane in Iraq e Afganistan si fatica a considerarlo un segnale di discontinuità rispetto a chi c’era prima.
Intanto, giù un nobel (condito con la filastrocca ‘per avere la pace ci vuole la guerra’, un azzardo che grida vendetta).
Da ultimo, si potrebbe notare come, nel bene e nel male, religioso salvatore per oltre novanta milioni o parafulmine degli accidenti di altri sei miliardi, ad animare scena e dibattito interno ed internazionale dell’epoca sia sempre stata la figura del Cespuglio e nessun’altra.
Ad un anno dall’insediamento, il messia politico di inizio millennio, sorrisi a parte, è già stato scavalcato in popolarità, in sequenza, dalla moglie e dal segretario di stato.
Sia come sia – e sia brutale -, la tentazione di credere che se Mr. Bush fosse stato nero oggi mi sentirei meno in imbarazzo ad usare la parola ‘Occidente’, è forte assai.


Il difficile equilibrismo di Obama sull’Afghanistan

dicembre 17th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments

 Il difficile equilibrismo di Obama sull'Afghanistan

Dopo mesi di consultazioni con i suoi consiglieri più stretti, il presidente Usa Barack Obama ha preso la decisione di inviare altre 30.000 truppe per contrastare il risorgere dei Talebani in Afghanistan, colpire le cellule di Al-Qaeda (soprattutto nella regione di frontiera con il Pakistan), e garantire temporaneamente la sicurezza della popolazione afgana. Nello stesso discorso, Obama ha anche annunciato l’obiettivo di iniziare a ritirare le truppe Usa dall’Afghanistan a partire dalla metà del 2011. A prima vista contraddittoria, questa strategia rappresenta l’unica possibilità di un equilibrio tra esigenze contrapposte.
Annunciare una scadenza per il ritiro delle truppe nello stesso momento in cui ne si annuncia l’invio può apparire paradossale. John McCain è stato il primo a segnalare il paradosso, affermando che porre una data per il rientro dei militari Usa rappresenta un assist per i Talebani e un duro colpo al governo di Karzai. Chi ha ragione dunque tra i due ex contendenti alla presidenza americana? Avremo una risposta solo dopo aver lasciato passare i 18 mesi che Obama ritiene necessari per ribaltare la difficile situazione su territorio afgano. Tuttavia, è già possibile tentare di interpretare l’annuncio di Obama, così come le critiche di McCain e del partito repubblicano.
Innanzitutto, le critiche repubblicane non tengono in considerazione le necessità di politica interna che il presidente si trova a fronteggiare. Obama doveva tentare di non deludere la maggioranza dei democratici (sempre più scettica sulla possibilità di portare il conflitto a termine in tempi brevi) e al tempo stesso guadagnare il consenso di alcuni repubblicani per garantire il sostegno del Congresso (che deve finanziare il rinnovo della missione). Un aumento del numero delle truppe serve a soddisfare la seconda esigenza. Annunciare una data per l’inizio della fine dell’intervento, la prima. Si tratta di un difficile tentativo di equilibrismo politico, ma anche l’unico possibile dato il sempre minor consenso di cui la missione afgana gode in Congresso e tra gli elettori.
Inoltre, il duplice annuncio è anche un tentativo di trovare un  equilibrio tra i due segnali diversi che Obama ha voluto mandare alle parti belligeranti. Da un lato, fissare una data per il rientro delle truppe responsabilizza il governo afgano e le sue forze di sicurezza a prendersi responsabilità del proprio paese in tempi i più ristretti possibili. Il presidente afgano Karzai è ora consapevole di non avere l’appoggio incondizionato degli Usa all’infinto (“è finita l’epoca degli assegni in bianco”, ha detto Obama durante il discorso), e dovrà agire di conseguenza preparando il governo e il paese ad una transizione verso il pieno autogoverno. D’altra parte, annunciare una data per iniziare a ritirare le truppe è rischioso nel caso in cui 18 mesi non siano sufficienti a sconfiggere i Talebani. Obama ha quindi ammesso che l’inizio del ritiro dipenderà dalle “condizioni sul campo”.  In tal modo, Obama si è lasciato aperta l’opzione di prolungare ulteriormente la missione, nel caso ci sia bisogno di più tempo per portare a termine la missione con successo. Al tempo stesso, dichiarando che il ritiro di metà 2011 sarà solo un inizio e dipendente dalle condizioni sul campo, Obama ha anche reso chiaro ai Taliban e Al-Qaeda di essere pronto a mantenere la presenza americana in Afghanistan finché la vittoria non apparirà chiara.
Il discorso di Obama ha tentato quindi di trovare due tipi di equilibrio. Uno tra le esigenze di politica interna a Washington. L’altro tra i due messaggi da inviare a amici e nemici in Afghanistan. Le decisioni del Congresso sul finanziamento ci faranno capire se le abilità retoriche di Obama saranno servite a garantirgli il consenso politico necessario. La situazione in Afghanistan ci dirà invece se la dinamica invio-ritiro avrà successo. Per ora, si può dire che, nel momento di prendere una delle decisioni che segneranno il resto della sua presidenza, Obama ha fatto il miglior uso possibile delle sue capacità retoriche per spiegare quella che molti considerano, dopo l’esempio dell’Iraq, l’unica strategia possibile per vincere il conflitto afgano: inviare più truppe per ritirarle il prima possibile.

Questo è il primo di una serie di articoli che esamineranno il primo anno di Obama da presidente. La decisione sull’Afghanistan, la riforma sanitaria, le politiche economiche e occupazionali, e le sorti del pacchetto energia-ambiente saranno infatti decisivi nel determinare il successo o il fallimento della sua presidenza.


Il diritto alle armi

marzo 5th, 2009 by Vincenzo Ruocco | 2 Comments

Il diritto alle armi

La data del 16 aprile 2007 riporta alla memoria la strage consumata all’interno del campus universitario della Virginia Tech: una ventina i feriti, 32 i morti, 33 contando anche l’esecutore degli omicidi suicidatosi prima di essere catturato dalla polizia.
A distanza di quasi due anni da quella carneficina stanno cambiando le opinioni relative alla sicurezza. Diversi studenti scelgono di agire tutelandosi attraverso il possesso di armi da fuoco nascoste all’interno dei campus, spesso col nulla osta da parte degli istituti stessi.
L’assemblea legislativa dello Stato dell’Oklahoma ha preso in considerazione la possibilità di presentare un progetto di legge che permetta “concealed weapons”, l’omissione di denuncia del possesso d’armi all’interno degli istituti universitari. L’Università dello Utah è uno fra gli undici istituti che lo consentono.
“La cosa necessaria è proteggere me stesso”, questo il mantra ripetitivo pronunciato da molti studenti.
Un sopravvissuto alla carneficina della Virginia Tech racconta l’esecuzione: “ha messo in fila tutti e ha sparato”. Il cecchino, un ventenne asiatico dal nome Seung-Hui Cho, aveva due armi corte da guerra:
- una pistola semi-automatica Glock, prodotta dalla compagnia austriaca Glock GmbH
- una pistola semi-automatica Walther P22, prodotta dalla compagnia tedesca Carl Walther GmbH Sportwaffen
Il 20 aprile 1999 alla Columbine avvenne la strage nella ormai famosa High School: 13 morti, 15 contando anche i due esecutori degli omicidi, anch’essi suicidatisi come nel caso sopra riportato.
Al criminoso gesto dei due studenti fece seguito un lungo e acceso dibattito nazionale sulla legislazione statunitense riguardante il controllo sulla vendita e la reperibilità delle armi da fuoco, nonché la loro detenzione.
L’episodio richiamò l’attenzione anche sui problemi della sicurezza scolastica, delle diseguaglianze sociali e dell’uso di farmaci anti-depressivi da parte degli adolescenti.
Mi rendo conto come questa realtà talmente anomala e distante sia inconciliabile col pensiero comune dell’opinione pubblica in Italia e proprio in questo sta lo spartiacque storico-culturale. La storia degli Stati Uniti ci dice quanto fosse di primaria importanza garantire il diritto alle armi, “diritto collettivo” di autodifesa ridotto poi nel ventesimo secolo a “diritto individuale” di detenzione di armi da fuoco. Si deve altresì considerare lo spazio di azione di cui ogni Stato gode, il potere cioè di legiferare autonomamente in materia di difesa personale.
Evitando di trattare di logiche lobbistiche, mi chiedo che tipo di scelta farei io stesso se fossi nato negli U.S.A., magari proprio in Virginia.
Non ho la risposta a questo interrogativo, dubbio assoluto di quell’antico scetticismo filosofico. Mi basta avere però un dubbio relativo per sospendere il giudizio.
L’uso è il re di tutto, ecco, questo mi sento di riaffermare. Le abitudini, le consuetudini, il costume, le dipendenze, di un popolo, di una comunità, della società.
Nel linguaggio borsistico il diritto è la facoltà di esercitare un’opzione, avvalersene spetta al singolo, in questo come in altri contesti.


American road trip

marzo 3rd, 2009 by Ludovico de Maistre | No Comments

American road trip

Un viaggio di 6200 Km raccontato attraverso una ricca sequenza di immagini. Partiti da Missoula, in Montana, il nostro viaggio ci ha portato a Salt Lake City, a Green River e all’Arches National Park, poi a Mexican Hat e alla Monument Valley, poi al Grand Canyon fino a Las Vegas, e poi ancora alla Death Valley e Mammoth Lakes, a San Francisco e Berkeley, alla Redwood Forest fino a Portland e Seattle, prima di ritornare nuovamente a Missoula.
In tutto sono stati attraversati otto stati americani (Montana, Idaho, Utah, Arizona, Nevada, California, Oregon e Stato di Washington), in un viaggio all’insegna del risparmio, dormendo solo in Motel e mangiando sempre nei classici “diner”, alla scoperta della natura e di alcune delle più affascinanti città degli Stati Uniti.
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© 2009 Ludovico de Maistre


Candid Camera TV Show

febbraio 27th, 2009 by Vincenzo Ruocco | No Comments

Candid Camera TV Show

Io non so cosa pensare di Barack Obama. Non sono in grado di dire se sia l’ennesimo mattatore visto alla TV, se sia il predicatore di quartiere ricco e potente dallo sguardo benevolo verso la “sua” gente o il talentoso uomo in grado di utilizzare la recitazione per ottenere consenso attraverso percorsi semantici dalle contaminazioni populiste.
Il discorso tenuto al Congresso solo pochi giorni fa sembra essere pervaso da un qualunquismo storicamente italiano, colmo di quelle banalità e delle verità già affermate che tutti sanno.
La strategia politica di Obama, la sua estetica propagandistica, la richiesta di credere, rendono questa nuova icona pop dalle previsioni messianiche l’unico paradigma morale attraverso cui declinare le varie forme dell’essere eticamente professionale e presentabile al popolo votante.
Quante persone, a livello planetario, sono state investite dal processo di persuasione mediatica che Obama ha saputo avviare? Dove poggiano le basi di questo rapporto fiduciario, spetta a voi il paragone con la gemella terminologia bancaria, intrecciato con l’avvocato di Chicago?
La risposta credo possa trovarsi nel pauperismo di capacità decisionale che abita il Palazzo, un edificio privo dei requisiti di agibilità al cui interno si muovono, come sciami di api impazzite, inetti strateghi privi del coraggio di liberarsi da quei legami di medievale consorteria che sono stati le basi delle nomine politiche e pubbliche. Ecco dunque paventarsi la corruzione di Sistema attraverso il posizionamento di precise pedine nello scacchiere.
L’immagine esteriore non corrisponde più alla realtà e, così come accadde a Roma nell’età tardo-imperiale, la grandezza dell’America appare come il simulacro di sé stessa, ombra lunga dell’american-dream assurto a simbolo di perfezione.
Obama asserisce di “modellare il nostro mondo”, parla di “un nuovo secolo Americano”, di una “nuova visione dell’America per il nostro futuro”. Chiudendo con “nella mia vita ho imparato che la speranza può essere trovata in posti improbabili; quella speranza che spesso giunge non dalle persone più famose e potenti, ma dai sogni e dalle aspirazioni degli americani, un popolo fuori dal comune”.
 

-President Obama’s Address: “In our hands lies the ability to shape our world for good or for ill”.
I know that for many Americans watching right now, the state of our economy is a concern that rises above all others… The impact of this recession is real, and it is everywhere.
But while our economy may be weakened and our confidence shaken; though we are living through difficult and uncertain times, tonight I want every American to know this:
We will rebuild, we will recover, and the United States of America will emerge stronger than before.
…The fact is, our economy did not fall into decline overnight. Nor did all of our problems begin when the housing market collapsed or the stock market sank. We have known for decades that our survival depends on finding new sources of energy. Yet we import more oil today than ever before. The cost of health care eats up more and more of our savings each year, yet we keep delaying reform. Our children will compete for jobs in a global economy that too many of our schools do not prepare them for. And though all these challenges went unsolved, we still managed to spend more money and pile up more debt, both as individuals and through our government, than ever before.
In other words, we have lived through an era where too often, short-term gains were prized over long-term prosperity; where we failed to look beyond the next payment, the next quarter, or the next election. A surplus became an excuse to transfer wealth to the wealthy instead of an opportunity to invest in our future. Regulations were gutted for the sake of a quick profit at the expense of a healthy market. People bought homes they knew they couldn’t afford from banks and lenders who pushed those bad loans anyway. And all the while, critical debates and difficult decisions were put off for some other time on some other day.
Well that day of reckoning has arrived, and the time to take charge of our future is here.
Now is the time to act boldly and wisely – to not only revive this economy, but to build a new foundation for lasting prosperity.  Now is the time to jumpstart job creation, re-start lending, and invest in areas like energy, health care, and education that will grow our economy, even as we make hard choices to bring our deficit down.
…The recovery plan and the financial stability plan are the immediate steps we’re taking to revive our economy in the short-term. But the only way to fully restore America’s economic strength is to make the long-term investments that will lead to new jobs, new industries, and a renewed ability to compete with the rest of the world. The only way this century will be another American century is if we confront at last the price of our dependence on oil and the high cost of health care; the schools that aren’t preparing our children and the mountain of debt they stand to inherit. That is our responsibility.
In the next few days, I will submit a budget to Congress. So often, we have come to view these documents as simply numbers on a page or laundry lists of programs. I see this document differently. I see it as a vision for America – as a blueprint for our future.
…Those of us gathered here tonight have been called to govern in extraordinary times. It is a tremendous burden, but also a great privilege – one that has been entrusted to few generations of Americans. For in our hands lies the ability to shape our world for good or for ill.
I know that it is easy to lose sight of this truth – to become cynical and doubtful; consumed with the petty and the trivial.
But in my life, I have also learned that hope is found in unlikely places; that inspiration often comes not from those with the most power or celebrity, but from the dreams and aspirations of Americans who are anything but ordinary.


Inauguration Day sulla National Mall

gennaio 23rd, 2009 by Filippo Chiesa | 2 Comments

Inauguration Day sulla National Mall

Alle tre di pomeriggio di sabato 17 gennaio 2009 – tre giorni prima della cerimonia di insediamento di Obama –, mi trovavo all’aeroporto John F. Kennedy di New York ad aspettare la coincidenza per Washington D.C., dove vivo da qualche mese e dove stavo tornando dopo un mese passato altrove. Tenevo ancora vive nella memoria le immagini della campagna elettorale e delle elezioni; non mi ero certo dimenticato dell’entusiasmo e della partecipazione che le avevano caratterizzate. Tuttavia, in quel terminal di aeroporto in cui tutti guardavano la CNN che mostrava il viaggio in treno di Obama verso la capitale, avvertii che ciò che era nato come movimento si stava trasformando in un nuovo, stabile spirito partecipativo. All’arrivo a Washington poi – tra la metropolitana e il quartiere nero di U Street – la sensazione mi venne confermata nel vedere il numero di ragazzi che d’abitudine avrebbero vestito magliette di Eminem e 50cent indossare invece, sopra a facce sorridenti e speranzose, cappellini con la scritta “Obama ‘08”.
La notte prima di Inauguration vado a letto presto, le immagini di Bruce Springsteen, Pete Seeger e Bono che cantano in onore di Obama ancora fresche negli occhi. La sveglia è fissata per le 6 di mattina. “So che è presto, ma se c’è gente che viene dal Kenya per assistere all’insediamento, vuoi proprio dire che è tanto difficile per noi svegliarci un po’ prima per arrivare a piedi alla National Mall?”, mi aveva detto la sera prima il mio amico Doug, giovane seminarista, che votò Bush per ben due volte, ma che nel 2008 ha deciso di sostenere Obama, perché “il paese ha bisogno di un rinnovamento”. Doug ha ragione, bisogna buttarsi giù dal letto alle 6 per trovare posto sui freddi prati davanti a Capitol Hill.
Esco di casa alle 6.45. E’ ancora notte; ma vi sono fiumi di persone che camminano a passo svelto verso sud. Entro in un bar a ripararmi dal gelo per aspettare Doug, che è rimasto bloccato a una fermata della metro dove tutti i treni sono troppo pieni per salirvi sopra. Il bar è stracolmo di persone di ogni età, bianchi e neri. Sui loro volti, si può intuire la speranza e l’eccitazione che li ha spinti a venire da lontano per assistere al senatore dal sangue keniota che a 47 anni sta per diventare presidente degli Stati Uniti.
Più tardi, siamo sulla National Mall con di fronte Capitol Hill, lontano ma ben visibile, insieme a centinaia di migliaia di persone. La temperatura è sotto zero. C’è gente che è arrivata alle 2 o alle 3 di mattina; ora stanno raggruppati sotto coperte e giacconi per tenersi caldo l’uno con l’altra. Gente che balla alle musiche introduttive della banda per muoversi e riscaldarsi. I volontari per Obama che distribuiscono snack gratuiti e ci salutano con un sorriso, “Good morning! Welcome to Inauguration”. E’ una folla bella e paziente. Una folla venuta da lontano perché ha voglia di partecipare all’amministrazione della cosa pubblica; non in protesta contro qualcuno, ma finalmente in sostegno di colui che aveva lanciato loro la sfida del cambiamento e che adesso si trova nella posizione di realizzarla. Le parole di Obama nel discorso della vittoria elettorale mi riecheggiano in testa “the fundamental truth that as out of many, we are one; that while we breath, we hope”.
Aspettiamo pazienti il giuramento e il discorso. Di fianco a me, un uomo nero, alto, in divisa militare, tiene in braccio il figlioletto che vuole arrivare a vedere oltre il mare di folla; dall’altro lato due giovani studenti bianche ridono e scherzano: non conoscono quasi nessuno dei politici che escono da Capitol Hill, inquadrati sui maxi-schermi; ma conoscono il presidente e va bene così perché politica e ideologismi c’entrano poco con questa folla.
Siamo alla fine dell’attesa. Il presidente della Corte Suprema, John Roberts, legge la formula del giuramento ad Obama, il quale – emozionato, senza darlo a vedere – inizia prima del dovuto; poi si blocca, avvertendo che Roberts ha invertito l’ordine di una frase; nessuno capisce più dove quel “faithfully” vada messo; Michelle sorride, porgendo la Bibbia al marito. “So help me God”. Le difficoltà si sciolgono nel sorriso di Obama e nelle note allegre della banda militare. La folla, che riempe la National Mall dal Capitol fino al Washington Monument e oltre, applaude e festeggia.
Inizia il discorso di insediamento. Obama incoraggia a rimanere fedeli agli ideali dei padri costituenti e ad unirsi negli sforzi per far rinascere l’America in una nuova era di responsabilità e di servizio pubblico; ricorda appena la questione dei diritti civili, ma lo fa con eleganza poetica:
“ This is the meaning of our liberty and our creed, why men and women and children of every race and every faith can join in celebration across this magnificent mall.
And why a man whose father less than 60 years ago might not have been served at a local restaurant can now stand before you to take a most sacred oath.”
Cita Washington e conclude spronando i concittadini ad affrontare le fredde correnti della crisi attuale con virtù e speranza per passare alle generazioni future quella libertà ricevuta in dono dalle generazioni passate.
Mi colpisce il patriottismo che Obama mostra nel discorso. Mi dispiaccio per la nostra Italia, dove non ci può essere patriottismo finché non vi sarà un riconoscimento pubblico una volta per tutte del torto e della ragione nella guerra civile tra fascismo e resistenza. Il patriottismo americano di Obama è ben fondato sulle ragioni della lotta contro la schiavitù e alla segregazione razziale. “Siamo usciti più forti da queste battaglie”. Senza ambiguità. Si sa chi aveva ragione. L’amore patriottico è quello di Abraham Lincoln e Martin Luther King, Jr. , coloro che si sono battuti per creare una “more perfect union”. Mi chiedo perché sia così difficile da noi fondare un patriottismo fondato sulla lotta contro l’autoritarismo fascista e le leggi razziali, e in favore della costituzione repubblicana.
Ma, dopo qualche minuto, prevale in me di nuovo l’hic et nunc, e passa l’amarezza. Sono felice di essere a …


Nazione e Democrazia: l’importanza dei simboli

gennaio 20th, 2009 by Rocco Polin | 1 Comment

Nazione e Democrazia: l’importanza dei simboli

Traumatizzati da vent’anni di nazionalismo fascista, stretti tra l’universalismo cattolico e l’internazionalismo comunista, delusi dal una Repubblica di cui c’era ben poco di cui essere fieri, figli di un Risorgimento a suo modo tradito, noi italiani abbiamo rinunciato all’orgoglio nazionale. Quello di cui non ci siamo subito accorti è che in questo modo rinunciavamo anche al fondamento della nostra democrazia: il senso di appartenenza a una comunità, di condivisione di un destino.
Ricordo ad esempio quando la Senatrice Menapace, allora in lizza per la presidenza della commissione Difesa (poi andata all’indimenticato senatore De Gregorio), propose di fare a meno delle frecce tricolori. Ciò che la Senatrice sembrava non capire è che le frecce, cosi come l’inno nazionale, la bandiera, la parata del 2 Giugno e il corteo del 25 Aprile, sono simboli e rituali essenziali per una comunità politica e che solo in base al senso di apparenza a questa comunità si giustificano poi lo stato sociale, le tasse che lo finanziano, l’istruzione pubblica, e il sistema sanitario nazionale.
A giudicare dalla cerimonia d’inaugurazione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America, Barak Hussein Obama, queste riflessioni sul nesso tra nazionalismo e democrazia e sull’importanza dei simboli dovevano essersele fatte anche i padri costituenti americani.
Certo, di fronte alle venerabili istituzioni della madre patria britannica o ai gloriosi vessilli rivoluzionari della République, i simboli inventati della democrazia americana potrebbero persino apparire un po’ kitsch: gli edifici neoclassici di una capitale nata dal nulla, quell’aquila dalla testa bianca che doveva originariamente essere un tacchino, i motti in latino di un Paese nato l’altro ieri… nulla dovrebbe impressionare noi che possiamo vantarci di governare la città eterna, legiferare da quegli stessi sette colli da dove un tempo si governava un impero. Eppure…
Eppure quando questa mattina Barak Obama ha giurato di difendere la Costituzione sulla bibbia che appartenne a Lincoln, quando la folla ha riempito ancora una volta la National Mall come ai tempi delle grandi marce per i diritti civili, quando Aretha Franklin è apparsa con un cappello da sballo, quando la telecamera ha indugiato sul Lincoln Mermorial e sul Washington Monument, quando tutta Berkeley raccolta davanti al megaschermo per seguire la cerimonia si è messa la mano sul cuore alle prime note dell’Inno Nazionale…. be’ c’era da avere i brividi.
Tornando a casa ho ripensato alle miserie di casa nostra, al colpevole oblio in cui abbiamo lasciato scivolare il Risorgimento e i suoi eroi, alle inutili fatiche del Presidente Ciampi per suscitare negli Italiani quel senso di appartenenza e di orgoglio senza il quale la nostra democrazia, la nostra capacità di accogliere nuovi cittadini immigrati e la nostra partecipazione alla comunità internazionale non possono che essere imperfette.
Ho pensato infine all’Unione Europea. Al suo motto che nessuno conosce, alla sua festa che nessuno celebra, alla mancata menzione di Inno e Bandiera in un trattato nemmeno più definito “Costituzione”… Se vogliamo davvero costruire l’Unione Europea, una comunità politica in cui identificarci e di cui essere fieri tra le tante lezioni che possiamo trarre dall’esperienza americana quella sull’importanza di simboli e rituali non è certo tra le meno importanti.
Perché, dopo tutto, la nazione è una comunità immaginata.


Gli immigrati italiani in Nord America: sensazioni di un visitatore dall’Italia

novembre 11th, 2008 by Federico Fiorentini | 2 Comments

La percezione che abbiamo dei nostri connazionali che vivono in America è spesso distorta da stereotipi generalizzanti, proprio come quella di questi ultimi nei confronti del proprio Paese d’origine, avvertito come statico, estremamente corrotto, capace di sopravvivere solo sfruttando il proprio patrimonio artistico e naturale; una terra di nullafacenti, dove i figli vivono nella casa dei genitori fino a cinquant’anni, dove non funziona nulla, i treni arrivano in ritardo e nessuno paga le tasse. Nell’immaginario comune, viceversa, gli Italoamericani restano i violenti padrini dei film di Scorsese; oppure gente laboriosa e con il fiuto per gli affari, arrivata a Ellis Island come contadini, operai o artigiani e capaci di diventare imprenditori di successo; o ancora gli immigrati durante il Ventennio che, nei negozietti della Little Italy newyorkese, incarnazione atlantica di Predappio, espongono magliette con il volto del Duce.
Quanto c’è di vero in questi cliché? Al di là delle differenze fra East e West degli U.S.A., e fra questi e il Canada, credo sia possibile rintracciare dei minimi comun denominatori, alcune peculiarità che distinguono gli Italiani espatriati da quelli rimasti. La maggior parte dell’esperienza personale è stata vissuta a Toronto, Ontario, ma, grazie alla vicinanza con un professore universitario di italianistica coinvolto nelle associazioni di Giuliano-dalmati all’estero, sono venuto in contatto con realtà diverse, senza limitarmi a veneti, istriani e quarneroli, ma conoscendo persone di ogni età, provenienti da tutt’Italia, stabilitisi nell’una e nell’altra costa dell’America: Vancouver e Montreal (inaspettatamente la città con la maggior concentrazione di Molisani al mondo, circa ottantamila, rispetto ai cinquantamila di Campobasso), Chicago e New York, Boston e la Florida.
La scoperta più sorprendente (e divertente) per il sottoscritto è stata “l’italiese”, sorta di linguaggio pidgin, nato dalla commistione di italiano e inglese e parlato, nelle sue numerosissime varianti, in tutti i Paesi anglosassoni che hanno conosciuto una consistente immigrazione italiana. Se, per chi abbia un minimo di dimestichezza con queste lingue, non è difficile immaginare come il verbo “pushare” sia usato per “spingere” (spesso anche con il significato di “esortare”), e che la “mascìna” sia la washing machine, sembra meno naturale supporre che la “sciavola” o “sciabola” non sia un’arma bianca ricurva, quanto una shovel, una pala.
Altrettanto sconcertanti i mutamenti nello spelling di alcune parole nostrane, soprattutto in ambito culinario: l’esempio più celebre è quello dei “fettuccini” (deformazione probabilmente originata dalla pronuncia della lettera “e” dell’originale “fettuccine”), anche se le mie preferite sono le “bracciole” (l’accento è sulla prima “a”; sulla dizione della pietanza esiste comunque una certa arbitrarietà: visti due baracchini alla San Gennaro’s Fest di New York, uno accanto all’altro, proporre nel proprio menù uno le “famous italian bracciole”, mentre l’altro invitava a provare le “brasciole”). Proseguendo con la gastronomia si scopre che, se si cede alla tentazione di ordinare degli “spaghetti bolognese” in un Italian Restaurant, presumibilmente ci si troverà davanti un piatto con un formato lungo di pasta stracotta, arrotolata attorno a delle meatballs, delle polpette di manzo piuttosto secche. Tralasciando il difficilmente occultabile snobismo di una tradizione che si sente autentica, e perciò superiore, rimane da chiedersi come pochi anni all’estero possano avere cancellato gusti e usanze vecchi di generazioni, quale insano istinto costringa a cuocere delle penne per venticinque minuti. Una risposta, per quanto parziale, può essere sintetizzata in due parole: “sradicamento” e “contaminazione”. Ovviamente questa analisi non ha alcuna pretesa scientifica. Si tratta solo delle impressioni raccolte da un viaggiatore curioso.
Per cercare di capire le realtà italiane radicate da più tempo in Nord America, può essere utile dare un’occhiata a quella dei francofoni del Québec. L’esiguo contingente di coloni sbarcato nella Nouvelle France all’inizio del Seicento era sparpagliato in un territorio immenso; le notizie dalla madrepatria diventavano sempre più saltuarie, i loro legami con quest’ultima più flebili. Il chiudersi in piccole comunità e la diminuzione dei contatti esterni hanno provocato un rallentamento e un’alterazione nell’evoluzione della lingua che, per pronuncia e vocabolario, ricorda quella parlata ai tempi del Re Sole. L’annessione ai domini britannici, seguita alla Guerra dei Sette Anni (1756-1763), ha sottoposto gli abitanti di queste zone a nuove influenze culturali, causa determinante di due diversi fenomeni, contrari ma in fondo complementari: quando in Québec ringrazierete qualcuno, è molto probabile non vi sentiate rispondere con il canonico je vous en prie, ma con un bienvenu. Le prime volte, istintivamente, mi è accaduto di domandare où, dove? Ci ho messo un prima di capire che si tratta invece della traduzione letteraria di you’re welcome, il “prego” inglese. Contemporaneamente, per le strade di Montreal, potrà capitarvi di vedere l’insegna che pubblicizza le meilleur chien chaud de la ville, quando neanche al più sciovinista dei Parigini verrebbe in mente di tradurre il termine, ormai internazionale, hot dog. Si verifica così un processo singolare: i Québécois, che si sentono più francesi dei Francesi, vengono trattati con malcelato disprezzo da questi ultimi, tanto che diverse volte ho sentito volare la pesante offesa bâtard, tesa a qualificare una popolazione senza una identità definita, non francese ma neanche americana. In conflitto con la realtà anglosassone che li circonda, lontani dai propri ex-connazionali, hanno creato un’isola culturalmente separata dal resto del mondo, ripiegata su se stessa e spesso venata di xenofobia.
Le differenze con la situazione degli Italiani negli States sono sostanziali. I Québécois abitano un territorio ben determinato, e hanno caratteristiche definite, differenti da quelle degli altri francofoni nordamericani: già gli Acadiens (abitanti della regione storica dell’Acadie, a nord del Québec) non si riconoscono affatto nel modello incarnato dai connazionali, dei quali, per esempio, non condividono le tendenze separatiste. Negli immigrati invece, sparsi in un territorio immenso, non si incontrano differenze particolarmente significative fra comunità e comunità (gli Italoamericani di San Francisco sono – almeno apparentemente – simili a quelli di New York). Inoltre, mentre gli espatriati hanno deciso spontaneamente (anche se spesso non avevano molte alternative) di entrare a far parte di un’altra realtà, di diventare cittadini di un Paese diverso, i Québécois sono stati vittime di una situazione imposta dall’alto: o torni in Francia (“patria” che, nella maggior parte dei casi, non si era …


Are they ready for change?

ottobre 30th, 2008 by Rocco Polin | No Comments

Are they ready for change?

Non tutte le elezioni sono uguali. Come diceva il buon Veltroni (sia pace all’anima sua) in alcune si cambia un governo in altre si cambia il paese. O per lo meno si segna una svolta decisiva nella sua storia politica.
La moderna storia americana, come quella di tutte le democrazie, è scandita da un’alternarsi di presidenti e di diverse maggioranze al Senato e alla Camera dei Rappresentanti: un’accavallarsi di elezioni, di vittorie e di sconfitte a cui non è però semplice dare un senso complessivo.
Una delle interpretazioni più comuni è quella che vuole la storia dell’ultimo mezzo secolo divisa in due grandi periodi: un’epoca progressista che va dalla prima vittoria di Roosevelt nel 1932 alla vittoria di Nixon nel 1969 e un’epoca conservatrice che, iniziata proprio con Nixon, potrebbe (inshallah) concludersi con la vittoria di Obama il 4 Novembre 2008.
La lunga presidenza Roosevelt (unico presidente ad aver servito più di due mandati) indubbiamente rappresentò una svolta epocale. Gli Stati Uniti sotto la sua guida abbandonarono isolazionismo e liberalismo economico per abbracciare New Deal e impegno internazionale. Sotto la sua leadership il Partito Democratico americano guadagnò il sostegno, da allora fondamentale, dei neri americani: un’importante minoranza che aveva fino ad allora sostenuto il Partito Repubblicano (che dopo tutto era pur sempre il partito di Lincoln). La lunga presidenza Roosevelt cambiò quindi per sempre non solo la politica estera ed economica degli Usa ma lo stesso panorama elettorale.
Nel 1953 il candidato repubblicano, Dwight David Eisenhower, venne eletto presidente e lo rimase fino al 1962. Un nuovo consenso era però nato nel paese e l’insieme di riforme del New Deal non poté venire smantellato . L’epoca democratica non era dunque finita e a dimostrarlo vennero le successive vittorie di Kennedy e Johnson. Fu proprio sotto la presidenza di quest’ultimo, probabilmente uno dei presidenti più sottovalutati della storia americana, che l’era progressista raggiunse il suo culmine con il passaggio del Civil Right Act e delle riforme sociali che vanno sotto il nome di Great Society.
Nel 1969 la “maggioranza silenziosa” decise che ci si era spinti troppo in avanti. Era tempo di riprendere il controllo del paese mandando alla casa bianca un repubblicano, Richard Nixon. Lo scandalo del Watergate contribuì alla vittoria democratica del 1976 ma non v’è dubbio che la breve e poco gloriosa presidenza Carter non interruppe l’era conservatrice.
Questa raggiunse anzi il proprio culmine durante le due presidenze Reagan. Il consenso progressista che era stato alla base del New Deal e delle riforme della Great Society era ormai definitivamente tramontato: the state is not the solution, the state is the problem.
Come durante la presidenza di FDR, anche gli anni ’80 furono anni di radicale cambiamento del panorama elettorale. In quegli anni fecero infatti la loro apparizione i cosiddetti Reagan democrats, ex democratici vinti alla causa repubblicana.
Nel 1993, sconfiggendo il presidente in carica George Bush, Clinton mise fine a 13 anni di presidenza repubblicana. Era davvero la fine di un’epoca? Con il senno di poi possiamo tranquillamente rispondere di no.
Un anno dopo la sua elezione (per altro resa possibile dall’exploit di Ros Perot, candidato indipendente di destra) Clinton assistette impotente alla cosiddetta Republican Revolution: sotto la guida di Newt Gingrich il Grand Old Party conquistò, per la prima volta dopo 40 anni, la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Clinton fu costretto ad abbandonare parti importanti del suo programma come l’ambiziosa riforma sanitaria tanto voluta da sua moglie Hillary e ad adottare quella che a molti sembrò una versione soft dell’agenda repubblicana.
Ora, nel 2008, dopo quasi quarant’anni di egemonia conservatrice, dopo otto anni di presidenza Bush, due guerre fallimentari, una crisi economia disastrosa e la bancarotta ideologica del Partito Repubblicano, siamo forse nuovamente alla vigilia di una svolta radicale della storia politica americana? Ci sono ragioni per sperare. Stati da tempo considerati “rossi” (ovvero a certa maggioranza repubblicana) sono di nuovo in bilico, e questo nonostante Obama sia un candidato nero di Chicago (e non è un caso che gli unici candidati democratici vittoriosi dopo Johnson fossero invece entrambi uomini del Sud, Carter dalla Georgia e Clinton dall’Arkansas). Si parla inoltre (vedere l’Economist di settimana scorsa) dell’esistenza dei “conservatori per Obama”, un fenomeno speculare ai cosiddetti Reagan Democrats che potrebbe cambiare di nuovo la geografia elettorale del paese. Bisogna però tenere presente che una vittoria di Obama non significherebbe necessariamente l’inizio di un nuovo ciclo democratico, e le vittorie di Carter e Clinton sono lì a dimostrarlo.
Non ci resta insomma che utilizzare una frase tanto vera quanto abusata e ormai banale.
Ai posteri l’ardua sentenza.


Bologna, Londra e New York

ottobre 25th, 2008 by Roberto Giannella | 3 Comments

Bologna, Londra e New York

Scrivo da Bolognese, che ha avuto il privilegio di aver visitato abbastanza a lungo New York City (prima dell’11 settembre) e che ora -per motivi di studio- vive a Londra.
Qualcuno potrebbe pensare che sia insensato mettere sullo stesso piano anche solo il più famoso quartiere di New York – ovvero sia Manhattan – e il capoluogo emiliano. Certo, i numeri non aiutano: a Manhattan vivono oltre un milione e mezzo di persone; a Bologna, non arriviamo a 400.000. Ma al di là dell’aritmetica, ci sono tante differenze fondamentali.
Ne vorrei evidenziare solo due. Ahimè quella dei politici è una piaga nostrana. Negli States, come pure in Inghilterra, il tasso di partecipazione alle urne è molto più basso in paragone all’Italia, o ad altri paesi europei. Non è un caso che sia in America che nel Regno Unito si voti in un giorno feriale: dunque, chi davvero ci tiene ad esercitare il suo diritto di voto, deve rinunciare a mezza giornata di lavoro, almeno. Ecco perché, spesso nemmeno il 50% degli aventi diritto effettivamente vota. Da noi, il tasso di astensionismo alle consultazioni elettorali si ferma a circa il 20%. I nostri politici – ahimè non solo quelli locali – viaggiano in auto blu e sanno molto poco dei problemi quotidiani della cittadinanza. Proprio pochi giorni fa la Caritas ha stimato che siano circa 15 milioni gli italiani a rischio povertà. Nel frattempo, chi ci governa è stato impegnato nell’approvazione del lodo Alfano, notoriamente la più urgente priorità del Paese.
A Bologna l’amministrazione è di centro-sinistra, ma pare che la preoccupazione principale di sindaco e giunta comunale sia quella di installare il maggior numero di telecamere, in ogni angolo del centro e non solo, al solo scopo di far cassa. L’altro patema degli amministratori bolognesi pare essere la costruzione di una valanga di rotatorie, lautamente finanziate da Bruxelles, tanto è vero che attraversando Bologna in macchina  si ha l’impressione di fare un perenne girotondo. Ahimè chi vive a Bologna sa che le priorità sono ben altre: si va dal degrado di tante zone del centro, alla sicurezza nelle strade della città, dalla valorizzazione delle periferie, superficialmente abbandonate negli ultimi anni, alle iniziative culturali, ahimè miseramente dimenticate.

Il secondo punto che vorrei sottolineare è proprio la vita a New York, che davvero mi ricorda molto da vicino quella di Londra. Per quanto mi riguarda, è proprio vero quello che ha scritto Vincenzo nel suo interessante articolo: si respira aria di libertà. Si esce di casa la mattina, avendo mille progetti, ma ci si rende conto che ogni persona che ci cammina di fianco o proviene dalla direzione opposta è un potenziale amico.  Lo cantava anche Bono: a New York – come a Londra – è davvero facile trovare degli amici. E li si trovano con la stessa velocità con cui noi italiani, in generale – bolognesi, in particolare – giudichiamo gli altri. A Londra non ti senti osservato, scrutato, deriso. A Bologna, ahimè, vedo tanta diffidenza, troppo paura, molto timore. In Italia, in generale, purtroppo molto spesso c’è ancora la tendenza ad etichettare il prossimo: si fa molto uso di quella che io considero la “droga dei pregiudizi”.
A Londra, come a New York, ho notato una cosa che a Bologna non si fa più da un po’: per strada, si sorride. La gente vive, esce, conosce, è aperta, non ha pregiudizi, non giudica, o per lo meno non sembra emettere sentenze su chi gli sta attorno – forse perché come dice giustamente Vincenzo, non ha nemmeno il tempo per giudicare. O probabilmente, perché gliene importa poco, o forse nulla. A Bologna, vedo tanti – come direbbe qualcuno – che sarebbero disposti a pagare, pur di vendersi. Non sono ahimè pochi coloro i quali hanno come unico scopo quello di mettersi in mostra. Solo per apparire. E tanti sono ancora quelli che si occupano unicamente di dare i voti al prossimo. A Londra – mi sbaglierò – ma non mi pare proprio che sia così.
A New York – come a Londra – ho notato la compresenza di due fattori, all’apparenza antitetici: l’individualismo e la gentilezza. La gente per le strade di Downtown, come per quelle della City, cammina a passo spedito. A volte mi chiedo seriamente se non siano ex–maratoneti. Eppure se qualcuno ti sfiora, anche solo di un millimetro, si ferma per scusarsi. And they mean it.
Nella mia civilissima Bologna, ahimè, questo raramente succede. Sembra una cosa da poco, eppure riflettendoci, questo la dice lunga sulla civiltà di un Paese.

Qui a Londra, si respira aria di libertà, dunque. Certo il clima non è generoso, né con NYC – d’inverno si gela, nel vero senso della parola, né con Londra – dove ahimè si vede spesso il cielo piangere. Ciononostante, la gente ride, corre, scherza. E non perde mai l’entusiasmo: si arriva al venerdì con la forza di volontà di passare un weekend lungo 48 non-stop. Le luci di Times Square, come quelle di Piccadilly, si spengono all’alba: nel frattempo newyorkesi e londinesi sono già in piedi. Tra parentesi, è molto difficile trovare inglesi doc a Londra ed americani autentici a Mahnattan; ci sono, certo! Ma spesso ci si rende conto che sono una silenziosa minoranza. La stragrande maggioranza di chi vive a New York e a Londra non è nata in quelle città. Questo carattere di multiculturalità manca a Bologna, benché siano sempre di più gli immigrati. Il melting-pot anglosassone ha funzionato. Ha prodotto grandi risultati, che sono sotto gli occhi di tutti: integrazione, rispetto reciproco e convivenza.
Chiudersi in sé stessi e pensare che Bologna sia solo dei Bolognesi (ma questo vale per qualsiasi città) significa condannarla all’estinzione – non fosse altro perché a Bologna si fanno pochi figli e gli anziani sono tanto in costante, quanto incontrovertibile aumento. Bologna è – e dovrebbe essere sempre più – di chi la ama e la rispetta. Esattamente come New York e Londra. Ecco perché, nonostante io non sia nato qui in Inghilterra, mi sento a casa.



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