Il training fisico e vocale dell’attore secondo Gianluigi Tosto

agosto 17th, 2009 by Giacomo Marconi | No Comments

Il training fisico e vocale dell’attore secondo Gianluigi Tosto

Con una metafora estremamente poetica, paragoni il corpo dell’attore ad uno strumento musicale. Puoi chiarirci questa metafora?
 
Ogni artista ha il suo strumento di espressione. Il musicista ha il suo strumento musicale, il pittore ha i suoi pennelli, i suoi colori, la sua tela, il danzatore il suo corpo, il cantante la sua voce. La particolarità dello strumento dell’attore è quella di essere uno strumento non esterno, su cui proiettare un’espressione, ma coincidente con il proprio essere. E c’è di più: lo strumento di espressione coincide con lo strumento di quella che io amo chiamare l’impressione, cioè la percezione. Questa coincidenza fra strumento di percezione e strumento di successiva espressione comporta una serie di conseguenze anche sul piano del training attoriale, perché in realtà potrei definire il momento dell’espressione come un momento di percezione reso pubblico. Infatti l’attore lascia che delle persone assistano, nel momento in cui si mette in ascolto di una determinata percezione, a come questa modifica il suo strumento-corpo. Quella percezione, passando attraverso lo strumento-corpo, fa sì che quello stesso strumento produca anche un’espressione. Occorre dunque allenare prima di tutto il momento della percezione, dell’ascolto, proprio perché è questo momento che si trasforma poi, con l’adeguata consapevolezza, anche in momento di comunicazione verso qualcun altro e quindi anche in momento di espressione.
 
Come avviene l’accordatura di questo strumento musicale?
 
Dunque, innanzitutto c’è da dire che l’accordatura è un processo fondamentalmente senza fine. Come un pianoforte si deve accordare molto spesso, soprattutto quando lo si sposta, quando cambia l’ambiente, quando avviene un trasporto, anche l’attore, quando cambiano le condizioni intorno (e cambiano continuamente), deve sempre ritrovare una centratura che gli consenta di essere in accordo con la nuova situazione.
La tecnica che si usa per l’accordatura è principalmente, ancora una volta, l’ascolto, attraverso un training specifico, i cui punti cardine sono i seguenti:
-  il rapporto con la terra, attraverso il peso (polo basso/concreto)
Quando parlo del rapporto con la terra non mi riferisco semplicemente al pavimento, ma proprio all’elemento terra, colto attraverso la percezione del proprio peso che scende lungo l’asse verticale del corpo. Molto spesso qualche cosa che vogliamo comunicare rimane nella nostra testa, non attraversa il corpo fino a mettere radici oltre i nostri piedi, e rischia di non avere alcuna forza. Questa forza alla comunicazione e concretezza all’espressione la dà la terra, in base ad un principio molto elementare e che tutti quanti abbiamo studiato: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Quindi, nel momento in cui noi rilasciamo una forza, il nostro peso verso la terra, con tutto l’apparato simbolico che questo porta con sé, la terra ci restituisce una forza verso l’alto, che è quella che ci spinge verso l’altro polo;
-  il rapporto con il cielo (polo alto/ideale)
Si tratta evidentemente, per estensione simbolica, anche di tutto il rapporto con la sfera dei pensieri, che un attore deve saper governare.
Il rapporto tra il polo basso/concreto e quello alto/ideale viene alimentato, e deve essere curato, attraverso la consapevolezza della colonna vertebrale, che è l’elemento che unisce il basso e l’alto del corpo;
-  il piano orizzontale
La colonna vertebrale, con la sua mobilità, ci consente simbolicamente e concretamente di metterci in relazione con il mondo a trecentosessanta gradi e, con tutte le sue articolazioni, è un elemento importante per estendere la propria energia sul piano orizzontale della comunicazione.
Può sembrare un discorso un po’ astratto, ed è normale visto che si sta parlando di principi generali, ma in realtà, durante il training, ci si rende conto che ha ampi risvolti pratici. Avere questo tipo di consapevolezza permette all’attore di capire e di lavorare su molti dettagli, ad esempio su un’emissione della voce a trecentosessanta gradi.
 
Riprendendo la metafora dell’accordatura, qual è il corrispondente del diapason in “La”?
 
Più che al diapason, un corpo ben accordato lo paragonerei ad una corda vibrante ben intonata. Questo è un principio che magari esamineremo meglio nell’intervista sul processo di risonanza, però possiamo già accennarlo qui perché comunque è un principio fondamentale anche nel training.
Il principio della risonanza enuncia che se un corpo è predisposto per emettere un certo tipo di vibrazione, quel corpo sarà anche in grado di ricevere quelle stesse vibrazioni: una parte le assorbirà ed un’altra parte le restituirà per simpatia, per risonanza, verso l’esterno. Un corpo ben accordato è una sorta di antenna in grado di sintonizzarsi sui vari fenomeni circostanti, di captarne le energie e le vibrazioni e di farle passare attraverso di sé restituendole nel momento dell’espressione. Il processo è unico: nel momento in cui io ascolto come un’antenna, ricevo le vibrazioni di una realtà a me esterna o interna. Una persona che assista a questo processo vede un attore che sta fondamentalmente ascoltando con tutto se stesso qualche cosa e che questo qualche cosa passa attraverso di lui e diventa comunicazione verso l’ascoltatore.
 
Quindi sostanzialmente questo diapason, inteso come lo strumento che dà la nota guida, attraverso cui poi si accorda tutto il resto, sarebbe l’ascolto.
 
Sì, potremmo però anche dire che la difficoltà e l’abilità sta nel diventare un diapason che oltre a risuonare su quel simbolico “La”, sia in grado di percepire anche tutti gli armonici che sono intorno a quel “La”. Deve infatti trattarsi di un diapason che risuoni ad una realtà più complessa possibile, perché il limite che può avere un attore è quello di risuonare solamente a determinate vibrazioni e non ad altre. E’ per questo che l’accordatura dura una vita e da un certo punto di vista non c’è esercizio che tenga, è soltanto l’esperienza di vita che poco alla volta accorda davvero in profondità.
 
Il training per l’attore è fondamentale per avere una maggiore consapevolezza di come una tensione emotiva si traduca sul proprio corpo; è quindi molto legato all’interpretazione.
 
Sì, assolutamente, le due cose coincidono. Nel momento in cui l’attore è in ascolto di una condizione, che può essere quella del personaggio che ha imparato ad ascoltare (creando i suoi punti di riferimento fisici, mentali, ideali, emotivi), il suo lavoro dal punto di vista dell’interpretazione consiste nella capacità di saper ritrovare quei punti di riferimento, di ascolto. …


La dittatura in teatro

giugno 14th, 2009 by Francesca Gabriele | 1 Comment

La dittatura in teatro

Le dittature sono qualcosa di abominevole: limitano la libertà delle persone, violano i diritti umani, arrivano a commettere crimini efferati. Sono fermamente contraria a qualsiasi tipo di dittatura, ad esclusione di una, l’unica dittatura ammissibile, perché necessaria: la dittatura in teatro.
Lo ammetto: amo il regista dittatore. Parlo per esperienza vissuta, guardando a lontane vicende di anarchia in teatro, arrischiandomi a dare un consiglio a tutti coloro che si accingono a fare di questa nobile arte la propria arte: non dimenticate mai l’importanza della dittatura in teatro!
LA DITTATURA, PER DEFINIZIONE, E’ DI UNO SOLO. QUINDI NON RESTA ALTRA POSSIBILITA’: SCEGLI IL TUO REGISTA E AFFIDATI A LUI CON FIDUCIA!
Non sottovalutate l’importanza della dittatura in teatro. Che la dedizione dell’attore per il re­gista non abbia confini.
Che ogni attore riponga fiducia nel proprio regista e ne abbia sommo rispetto. Lui e soltanto lui avrà il diritto di decidere se una scena funziona o non funziona, nonché la dura, pesante incombenza di correggere ciò che non funziona nella suddetta scena.
Sì attori e attrici è così. Accettate di buon grado il vostro destino, senza ribellarvi.
Accettate di ricoprire il ruolo di attori, accettate di trovarvi alla pari con gli altri compagni, abbiano essi più o meno esperienza di voi. Rinunciate alla maligna tentazione di ergervi a giudici dell’operato dei vostri fratelli, gli altri attori. Assumersi il peso di esternare un commento negativo sulla prova di un attore è un compito difficile, scomodo, compromettente. Lasciate questo peso, questa dura incombenza a lui, il sommo regista.
Il teatro è dittatura. Lo ammetto: amo la rigida divisione dei ruoli.
Una rigida divisione dei ruoli vi permetterà di vivere in armonia con i vostri colleghi. Capire se una scena funziona o no, individuarne i punti deboli e poi parlarne con gli attori è  compito del regista. Se l’attore fedele accetta di buon grado le critiche costruttive del regista illuminato, mal sopporterà un atteggiamento critico da parte di un suo fratello, in tutto e per tutto pari a lui nei diritti e nei doveri.
Il teatro è dittatura e collaborazione. Amo la collaborazione in teatro.
Potrete collaborare, cospirare alla buona riuscita dello spettacolo solo se riuscirete a tenervi lontani dal giudizio gli uni nei confronti degli altri. E’ dovere di ogni attore esimersi dal giudicare i suoi compagni, dedicandosi alla nobile attività dell’osservare prima di tutto se stesso e le proprie mancanze. Non c’è niente di più irritante e di più pericoloso per la buona convivenza, di un attore che si arroga atteggiamenti che non gli si confanno, cercando di sopraffare i propri colleghi durante il la­voro, senza che nessuno gliene abbia riconosciuto il diritto.
PER QUESTO CREDO NELLA DITTATURA IN TEATRO, NELLA CHIARA E DEFINITA DI­VISIONE DEI RUOLI. SOLO COSI’ SARA’ POSSIBILE UNA REALE COLLABORAZIONE TRA ATTORI E REGISTA E TRA ATTORI E ATTORI.
Amo la dittatura in teatro. Che la dittatura in teatro sia illuminata.
Che si mantenga aperta e disponibile allo scambio di opinioni, quando esse siano richieste e necessarie, con i propri figli, gli attori. Che questi si aiutino a vicenda, anche tramite lo scambio sereno e rilassato di opinioni ed idee. Ma che suddette opinioni non si trasformino in giudizi, sfociando nell’anarchia in teatro.
EVVIVA LA DITTATURA ILLUMINATA IN TEATRO!


Francesco Grifoni, l’attor giovane che sognava Chabrol

maggio 27th, 2009 by Anita Galvano | No Comments

Francesco Grifoni, l'attor giovane che sognava Chabrol

Quando hai iniziato a dedicarti al teatro e, soprattutto, spinto da cosa?
La passione per la recitazione è un qualcosa che viene da lontano, dal passato.
Ancora piccolo, con i miei andavo a teatro e rimanevo stordito da quel mondo fatto di poesia, di semplicità, di grande spessore emotivo.
Ricordo un evento in particolare: durante l’intervallo di uno spettacolo, forse uno di Pirandello, mi alzai e cominciai a sbirciare col mento appoggiato sul palco i passi degli addetti che modificavano la scena. La cambiavano. La trasformavano. Sudavano nel fare un lavoro che nessuno degli spettatori avrebbe mai percepito. Ed io osservavo quei passi, sotto il sipario, quel muoversi frenetico che durava pochi istanti.
In quel momento capii che c’era un qualcosa di magico, potente, forte al di là del palco, che però non era alla portata di tutti, capii che cercavo di comunicare anche io quel qualcosa che percepivo da spettatore, quella forza di rendere le emozioni vive col corpo e la voce vissute in quel posto fatato chiamato teatro. Decisi che avrei passeggiato anche io su quel palco di legno per comunicare qualcosa al pubblico. Avevo voglia di apprendere, di ascoltare, di sudare e soprattutto di imparare.
Nonostante tu sia molto giovane hai già tante esperienze alle spalle. Quali sono state le più importanti e significative? Quali sono i maestri a cui senti il bisogno di dire grazie?
La formazione, attraverso discipline che ti permettano di lavorare su te stesso, è stata importante, anche per la mia crescita personale. Da bambino ho frequentato all’Accademia dei Piccoli di Firenze, luogo dove trascorrevo i pomeriggi a preparare spettacoli e lanciarmi in mondi meravigliosi grazie a Loretta Luzi, la mia insegnante e mamma artistica a cui devo tanto. Un altro momento fondamentale è stato quello della mia entrata al Centro Sperimentale, un passo importante che mi ha fatto capire che la mia vita, da quel momento, sarebbe cambiata rispetto al semplice “fare teatro con passione”. Oltre a Loretta Luzi, professionalmente voglio ricordare insegnanti come Mirella Bordoni, con la quale ho studiato il metodo di Orazio Costa ed Eljana Popova, altra insegnante che mi ha dato moltissimo grazie all’insegnamento del Metodo Stanislavskij.
Ovviamente Giancarlo Giannini che, osservato nella realtà quotidiana, mi ha fatto capire il “mostro” che è, Lina Wertmuller e tanti altri ancora.
Da un punto di vista lavorativo voglio ricordare Martin Donovan, regista di un film speciale per me, K il bandito, un film che, oltre ad una bellissima esperienza lavorativa, mi ha permesso di viaggiare oltre oceano, in America. E si sa ogni viaggio ti fa crescere. È la storia di un gruppo di banditi nella Padania negli anni Sessanta, storia torbida di cani sciolti, persi e soli dediti a furti. Ho amato il mio ruolo, un personaggio che ha toccato corde molto potenti e allo stesso tempo fragili dell’animo umano.
C’è qualcosa che hai imparato dallo studio della pratica teatrale che ti risulta utile nella vita di tutti i giorni?
Il teatro mi ha insegnato a guardare la vita con semplicità e osservare la realtà in tutti i suoi campi, nelle cose più belle e in tutte le sue nefandezze. Solo riuscendo a capire il mondo in cui viviamo, possiamo riuscire a raccontarlo tramite il nostro lavoro. Giannini ci diceva che si può essere attori anche mangiando un piatto di spaghetti, al sugo come al burro.
Pur avendo iniziato da giovanissimo col teatro ti sei diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia e ti dedichi, da anni, al cinema. Vittorio Gassman diceva che quella cinematografica è una “non-recitazione”, quello che bisogna fare davanti alla macchina da presa è esserci, nel modo giusto e con la giusta presenza. Tu dove ti senti più a tuo agio, sul set o sul palcoscenico?
Io amo tutto ciò che è recitazione. Tutto ciò che è vero. Quella teatrale e quella cinematografica sono due tecniche diverse, ma l’emozione è la stessa. Tutto quello che la cinepresa fa è indagare sul non detto, sui tuoi occhi, sulla tua anima. Fare cinema è come stare seduto in un bar popolato, puoi comunicare tutto ciò che è dentro di te anche solo da come poggi una sigaretta in un portacenere. In altre parole, il cinema è un trattenere con la mimica, lo sguardo, e non con il corpo come a teatro, tutte le emozioni di un personaggio.
Proprio perché la cinepresa è la tua anima esteriore che si manifesta al pubblico.
Quali difficoltà hai incontrato, dopo essere cresciuto a teatro, la prima volta davanti ad una mdp?
Credo che la vera difficoltà sia stata quella di “asciugare certe emozioni”, imparare a comunicare le cose in un modo diverso. E in questo il Centro Sperimentale mi ha aiutato. È stata un’esperienza che mi ha insegnato tanto.
Qual è il personaggio con cui vorresti confrontarti e da quale regista vorresti essere diretto?
Vorrei un ruolo pieno di sfaccettature, un personaggio come ce ne sono tanti al mondo, magari viscido. Un uomo che, togliendosi una maschera, riesce a manifestarsi per quello che è in tutto il suo pressappochismo.
In questo momento vorrei tanto interpretare ciò che è avulso da me, anche se poi io sono contento di qualunque ruolo mi venga offerto. Pensando in grande, io adoro il cinema francese, il cinema di Chabrol. Un regista meraviglioso. Uno che col sorriso riesce a sfatare tutte le falsità della nostra realtà contemporanea, a mostrare ciò che può riuscire a essere l’uomo, anche se incravattato e viveur di alberghi a cinque stelle, tutto sorrisi e strette di mano. Lui ritiene più vero un sentimento come l’odio rispetto ad un sorriso ipocrita dettato dalle circostanze. E nel suo cinema si vede. A lui affianco Olivier Marchal, un regista che riesce a fare sugli attori un lavoro di una potenza inconsueta, perché ha vissuto tutto sulla sua pelle. Tra tutti i suoi lavori, quello che preferisco è “36 Quai des orfevres”, film in cui il lato angelico e quello diabolico dell’essere umano ha due voci uniche: Daniel Auteil e Gerard De Pardieu. Tra i registi italiani del momento mi piacciono molto Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino …


Contemporanea Colline Festival ’09 – Le arti della scena

maggio 13th, 2009 by Giacomo Marconi | No Comments

Nel periodo che va dal 4 al 15 maggio 2009 Edoardo Donatini, Direttore Artistico di Contemporanea Colline Festival, ha incontrato alcune associazioni presenti sul territorio fiorentino e pratese e attive nel campo teatrale per presentare loro l’edizione 2009 del festival, che rappresenta l’integrazione in un unico programma di Contemporanea Festival e del Festival delle Colline.
Il primo, fin dalla nascita diretto da Edoardo Donatini, era realizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana in collaborazione con il Centro per l’Arte Contemporanea “L. Pecci” ed era un festival teatrale biennale rivolto alle nuove generazioni e con una particolare attenzione ad un “utilizzo nuovo dei linguaggi dello spettacolo e della comunicazione”; il secondo, una storica rassegna musicale che negli anni aveva “cercato di rappresentare lo stato della ricerca musicale contemporanea in relazione con le varie culture, tracciando un percorso attraverso la musica del mondo”.
Nel 2008 nasce il Contemporanea Colline Festival, adesso alla sua seconda edizione, trovando come punto d’incontro tra le due manifestazioni, che già condividevano un comune territorio di appartenenza, la ricerca e l’attenzione alle arti della scena contemporanea in tutte le sue diverse declinazioni.
L’edizione 2009, come si legge dal comunicato stampa, conferma l’attenzione del progetto alla scena contemporanea, ai linguaggi della musica, del teatro, dell’arte visiva e della performance in generale con artisti nazionali e internazionali, alimentando un vivace contesto dialettico tra le esperienze coinvolte e attivando una fitta rete di luoghi, spazi, aree, ambienti e strutture. Ma fa un passo ancora in avanti, coinvolgendo il fiorentino Festival Oltrarno Atelier CanGo, diretto da Virgilio Sieni. Questo nuovo legame verrà reso ancor più reale ed evidente domenica 17 maggio da una passeggiata di 20 km realizzata da persone non vedenti nella piana che collega Firenze e Prato, unendo idealmente queste due città.
Il festival si divide in due parti: “Le arti della scena” (23 maggio – 1 giugno) e “Concerti sulle colline” (18 giugno – 7 luglio).
“Le arti della scena è articolato come un grande laboratorio delle arti locali” precisa Edoardo Donatini “e si concentra su tutto ciò che concorre a dare forma ad una scrittura scenica, sulle arti che alimentano il processo creativo, e perciò ospita teatro, danza e musica in tutte le possibili forme e i possibili formati che la creazione produce, dallo studio allo spettacolo finito, dalla prova d’attore all’esperimento registico, dalla performance all’ipotesi di messa in scena”.
Tutto questo è rispecchiato dalla sezione che da sempre è il nucleo vitale del festival: Alveare (dal 24 al 31 maggio a Officina Giovani), luogo in cui ogni cellula lavora per un progetto comune. Alveare infatti nasce come un’opportunità per gli artisti di dare sfogo alle loro necessità creative, lontano dall’esigenza di distribuzione che spesso li affligge e limita. Ogni lavoro è costruito appositamente per Contemporanea Colline Festival, non è “preconfezionato”, e intende mostrare l’atto creativo puro di ogni singolo artista, ma in relazione con gli altri. Alveare infatti si struttura come un progetto di percorsi performativi all’interno dei quali il pubblico è chiamato a compiere in sequenza un itinerario tra performance di autori e artisti diversi.
La sezione del festival denominata Scena contemporanea (23 maggio – 1 giugno) si apre con la prima assoluta del progetto triennale, svolto con un gruppo ristretto di giovani attori toscani selezionati e guidati da Federico Tiezzi (Direttore del Teatro Metastasio Stabile della Toscana), che completa il lavoro sul testo La Madre di Bertolt Brecht, e si chiude con un altro lavoro di Federico Tiezzi, Galileo/Un melologo, con attori del calibro di Giulia Lazzarini e Graziano Piazza, con cui il Metastasio celebra una delle figure più controverse e amate della storia scientifica.
Per quanto riguarda la sezione Progetti speciali, questa comprende una performance di Franko B., italiano trasferito a Londra noto per alcune esibizioni di natura “sadomasochistica”, e porta sulle scene italiane la famosissima coppia Cuocolo – Bosetti con la compagnia italo australiana IRAA Theatre, che presenta The persistence of dreams, una performance per uno spettatore alla volta, e che lavora sul vissuto personale con grande comunicazione.
Durante il festival non mancheranno d’altra parte una serie di incontri coordinati da Gianfranco Capitta: uno dedicato a Nico Garrone, critico del quotidiano La Repubblica recentemente scomparso, tre ad artisti della scena internazionale come Daniel Wetzel e i Rimini Protokoll, Emio Greco e Franko B. ed uno all’architetto e designer Alessandro Mendini.
Ogni sera si apre poi il Fuorinotte – Contemporanea Dopofestival, con Officina Giovani che diventa punto d’incontro, divertimento e ristoro per pubblico, artisti e operatori.
Per maggiori informazioni: www.contemporaneacolline.it


Intervista a “il moderno aedo”: Gianluigi Tosto

aprile 16th, 2009 by Giacomo Marconi | No Comments

Intervista a “il moderno aedo”: Gianluigi Tosto

Innanzitutto Gianluigi ti ringrazio per aver trovato un po’ di tempo, tra i tuoi numerosi impegni, da dedicare a Il Tamarindo.
Grazie a voi.
Tu ormai sei attivo nel campo teatrale da più di trent’anni. Come nasce la tua passione per il teatro?
Tutto è iniziato per la fortuna di essere immerso in un ambiente familiare ricco di stimoli, perché mia sorella Arcangela era scrittrice, attrice e regista teatrale e mia sorella Marida è tuttora insegnante di musica e musicista; ricordo che da bambino in casa ascoltavo ore ed ore i suoi studi di pianoforte. A tredici anni, grazie a mia sorella Arcangela, mi avvicinai ad un gruppo, che si era appena formato, che poi si chiamò “Il carro di Tespi”. Gli altri componenti erano poco più grandi di me; cominciammo a mettere in scena dei testi di Arcangela e di altri autori, in genere italiani, che si andavano a scovare sulla base della formazione del gruppo, e si allestirono tre spettacoli. Poi ci iscrivemmo, nel 1978, ai corsi del maestro Orazio Costa, che aveva appena fondato a Firenze il Centro di Avviamento all’Espressione. Abbiamo quindi avuto la fortuna di seguire gli insegnamenti non solo di Orazio Costa, ma anche dei suoi altrettanto bravi collaboratori, per quanto mi riguarda soprattutto di Alberto Rosselli, che mi ha preso sotto la sua ala ed è stato veramente un padre artistico. Da lì ho cominciato a lavorare nell’ambiente professionale. Però, va sottolineato, erano anche anni in cui un giovane che aveva voglia di sviluppare un percorso artistico trovava un terreno abbastanza fertile a Firenze.
Il tuo ultimo progetto, “Canti dal mare interno”, è cominciato con “La goletta flight” di Derek Walkott e proseguito con “Ode Marittima” di Fernando Pessoa e con “L’ultimo viaggio” di Giovanni Pascoli. C’è una continuità con la trilogia “Il Canto e la Memoria”, con cui hai messo in scena i poemi omerici e l’Eneide di Virgilio?
La continuità è sicuramente nell’elemento poetico. Le due trilogie sono basate sulla parola poetica: una parola capace di evocare immagini dentro lo spettatore. In questi due progetti mi sono concentrato su questa capacità evocativa della parola e della musica, anche se più che musica la definirei ambientazione sonora, rumoristica. Attraverso la creazione di un’ambientazione sonora si crea un’atmosfera emotiva e attraverso la parola poetica, pregna di sensazioni, sintesi di un mondo, cerco di evocare tutto un immaginario dentro lo spettatore. In genere a teatro ci sediamo e guardiamo qualcosa sul palcoscenico, quindi abbiamo una rappresentazione visiva di una determinata vicenda. Il mio tentativo invece è quello di far sognare lo spettatore secondo un proprio immaginario, non secondo quello “imposto” dal regista che propone quella messa in scena.
Infatti anche quella che chiami “ambientazione sonora” è sempre molto curata nei tuoi spettacoli. Qual è secondo te il legame tra parola e suono in una rappresentazione teatrale?
Un legame strettissimo. Per me la parola è suono, tant’è vero che io molto spesso in questi spettacoli prediligo della parola più l’aspetto sonoro che quello semantico. Il testo può anche diventare incomprensibile: per mia scelta a volte trasformo i suoni o dico velocemente certe parti perché ricerco più un incalzare ritmico, desidero che lo spettatore si trovi più a seguire una sonorità che a capire parola per parola che cosa sto dicendo. Infatti l’elemento ritmico in uno spettacolo per me è fondamentale. La mancanza del ritmo vanifica completamente tutti gli altri sforzi che magari sono stati fatti su altri piani. Credo che non ci sia molta differenza sotto un certo punto di vista fra un testo teatrale e una composizione musicale, particolarmente poi se si lavora nell’ambito della poesia.
Un’attenzione particolare nello studio dell’attore è senz’altro dedicata alla respirazione e alla voce. Nei tuoi spettacoli la voce ed il corpo vibrano come se fossero degli strumenti musicali, arrivando a coinvolgere lo spettatore ad un livello emozionale difficilmente eguagliabile. In che cosa consiste esattamente questa “vibrazione vocale”?
Questa è una domanda estremamente complessa. Della vibrazione vocale se ne può parlare in diversi termini, ma non sarebbe giusto, in un discorso sull’attore, ridurla ad un aspetto soltanto tecnico. Diciamo che il lavoro dell’attore è fatto di due poli che si incontrano: un polo fisico ed un polo mentale. Da un lato è necessario un training appropriato, tale da esercitare la duttilità dello strumento corporeo vocale e da allenarlo ad una sorta di morbidezza, cioè ad una capacità non soltanto di esprimere qualche cosa, ma, prima ancora, di ricevere delle informazioni e di essere quindi condizionato da delle sensazioni. Dall’altro lato occorre coltivare il proprio patrimonio esperienziale, composto di memorie emotive, sensoriali, legate a determinate immagini, suoni e a tutta una serie di sensazioni che ci hanno arricchito nel corso della nostra vita o, addirittura, che magari non abbiamo mai provato, ma che la nostra capacità immaginativa è in grado di farci vivere. L’attore deve essere capace di scarnificare queste esperienze e portarle su un piano interiore, dove però non perdano la loro matrice sensoriale, così che possa evocarle nel momento in cui gli servono e proiettarle sul proprio strumento corporeo vocale. Solo in questo modo il corpo risuona allo stimolo che l’esperienza interiore richiamata gli propone e questa vibrazione vocale è sempre calda, calda di esperienze. Allora la voce diventa veicolo di un’esperienza umana e non semplicemente una voce più o meno bella, più o meno rotonda, con delle belle risonanze, piacevole da ascoltare. Questo è già qualcosa, ma non è sufficiente. Bisogna che il corpo e la voce di un attore parlino della vita che ha formato quel corpo e quella voce.
Più volte nelle tue interviste hai fatto riferimento alla parola “ascoltare”. Di primo impatto verrebbe da ritenere che ascoltare sia una prerogativa principalmente del pubblico, invece tu sostieni che “la capacità d’ascolto è alla base della pratica artistica dell’attore”. Che cosa intendi?
Ad un certo punto della mia carriera ho cominciato a notare che, nell’educazione all’espressione, si metteva sempre l’accento sul momento della comunicazione, su ciò che l’attore riusciva ad esprimere, e mi sono reso conto del rischio che questo portasse all’assunzione, anche su se stessi, di …


Sulla tragicità di Edipo non cala mai il sipario

marzo 19th, 2009 by Anita Galvano | 1 Comment

Sulla tragicità di Edipo non cala mai il sipario

Il mio primo ricordo legato al teatro risale a circa vent’anni fa e, scritto così nero su bianco, è un brivido lungo la schiena. Ricordo una bambina di sette anni che sale su un pullman con la mamma e una miriade di liceali scalmanati. Direzione Siracusa, Teatro Greco. Non certo Gardaland, ma ero felice lo stesso, ho sempre amato le novità, e anche i viaggi in pullman, le soste in autogrill e guardare la strada fuori dal finestrino con le cuffie del walkman nelle orecchie. Parto da casa e non so cosa aspettarmi, ma basta arrivare al Teatro per capire che io, quell’esperienza, non la dimenticherò.
Tantissime persone sugli spalti, alti, immensi, gremiti di gente in attesa, chi ha portato un cuscino, chi l’acqua, chi qualcosa da mangiare. Io non ho un cuscino, sono una bambina e non ce n’è bisogno. Inizio immediatamente a respirare quel brivido sottile che provoca l’attesa, e ancora non so che lo amerò per tutta la vita, non so spiegarmi cosa stiamo aspettando, non so perché lo spettacolo non inizi ma, tutto sommato, va bene così, si sta bene. Mi guardo intorno e, di fronte a me, solo una testa altissima, credo sia di pietra, ha una benda intorno ad un occhio e mi sembra che, in quel preciso momento, niente sia più appropriato di una testa bendata che osserva il pubblico. Scende la sera, tramonta il sole, e ha inizio lo spettacolo. Entra in scena un uomo, una tunica rossa, i capelli bianchi, la cadenza lenta e un po’ monotona. È Glauco Mauri, chi è lo scoprirò con gli anni, in quel momento è soltanto un uomo canuto che dice parole che non comprendo del tutto ma che mi inchiodano al mio posto e mi costringono al silenzio per tutto la messinscena. Lo spettacolo è “Edipo Re” ed è, agli occhi di una bambina di sette anni, la storia del dolore di un uomo.
Oggi, vent’anni dopo, credo ancora che quella di Edipo sia la storia, tragica, di un uomo roso dal dolore, dal senso di colpa e dalla sofferenza. E credo che la vera essenza di questa tragedia stia nel fatto che l’uomo, Edipo in questo caso ma un qualunque altro uomo come lui, accetti il destino senza ribellarsi. Edipo si acceca, per non vedere più, per punirsi, e il vero avvertimento della tragedia sta proprio qui, in questo gesto. L’uomo davanti alla tragicità del proprio destino non si ribella, non prende posizione, si limita ad accettarlo. E decide di accecarsi per non dover più osservare l’orrore del mondo in cui vive. Negli anni ’60, periodo emblematico e di profondi cambiamenti, Pasolini ha ripreso, riletto e riscritto la tragedia di Edipo rendendola una metafora del vivere contemporaneo. L’Edipo di Pasolini è uomo profondamente solo, abbattuto dagli eventi, sconfitto dalla Storia, che si lascia andare illudendosi che, così, smetterà di soffrire. Oggi come allora la gente si acceca per non vedere, il mondo è un non-luogo dominato dall’immagine, dall’apparire, dalla necessità di esserci, è un mondo fatto di immagini a cui non apparteniamo sul serio, se non da spettatori. E c’è chi, approfittando di un momento buio, cerca di convincerci del fatto che, in Italia specialmente, la gente è cambiata, il pubblico è diverso, vuole staccare il cervello e bisogna dare alla gente ciò che vuole: l’effimero. Fortunatamente quell’uomo che vent’anni mi ha insegnato ad amare il Teatro, Glauco Mauri, e come lui tanti altri,  crede ancora, pirandellianamente,  che “il palcoscenico è quel luogo dove si gioca a fare sul serio” e non bisogna arrendersi alla volgarità dilagante, chiudere gli occhi e abbandonarsi al destino ma usare l’arma del teatro per combattere una guerra antica e sempre attuale. Mettere in scena, oggi, una tragedia greca è, soprattutto, una scelta civile.


La “ricchezza” di Stefano e del “suo” Ploutus

febbraio 21st, 2009 by Valentina Clemente | 1 Comment

La

“Surreal, but nice” diceva Hugh Grant in una commedia di alcuni anni fa rivolgendosi ad una famosa Julia Roberts, innamorata di quello strano libraio di Notting Hill.
“Surreal and fantastic” è quello che ho detto io dopo aver visto ed incontrato Stefano Alessandroni al termine di una delle sue più classiche interpretazioni teatrali, il Ploutus.
Nei panni di un vecchio dio disperato che non crede più in se stesso, succube di Zeus che lo ha accecato da piccolo per impedirgli di riconoscere le persone oneste, l’attore riminese interpreta un personaggio assai fragile pur nella sua divinità, ridotto a mendicare come un barbone, sarcastico, amareggiato che, però, non lascia mai da parte la sua inenarrabile dolcezza.
Parlare con Stefano dei suoi esordi, delle sue passioni e di come il teatro sia una parte fondamentale della sua vita è estremamente arricchente: dopo aver calcato la scena e a seguito di lunghissimi applausi e apprezzamenti da parte della platea, l’attore dedica proprio ai lettori de “Il Tamarindo” una breve ma intensa intervista.
Alessandroni ci parla dei suoi esordi come cantante di rythm and blues, passione lasciata da parte qualche anno dopo proprio per seguire il teatro, trasferendosi a Roma. Proprio nella capitale inizia l’ascesa dell’attore: gli inizi lo vedono protagonista di “Amleto” di Antonio Calenda, con il quale inizia un forte e lungo sodalizio, durato ben sette anni. Un altro incontro fondamentale nella carriera artistica di Stefano è con Luca Ronconi, con il quale lavora in tre spettacoli e, proprio grazie ad uno di questi, entra in scena Massimo Popolizio, che lo prende con sé nel Ploutus.
Surreale, ebbene sì: la poliedricità di questo attore lascia tremendamente sbalorditi e proprio questo aspetto si legge anche quando, alla domanda relativa alla scelta tra teatro e cinema, lui stesso ribadisce il concetto di qualità e non di settorialità. Un artista deve essere poliedrico, sapersi destreggiare tanto nei meandri del teatro quanto in quelli del cinema purché, appunto, i prodotti siano di elevata qualità. Ciò che non è da dimenticare è che questo mestiere, parafrasando le parole dell’attore, presuppone un apprendistato continuo sulle radici del proprio essere.
Un bel lavoro ma a volte “surreale”: molto spesso, infatti, è difficile delineare una chiara linea rossa tra i personaggi che si interpretano e la persona che effettivamente si è. A questa affermazione Stefano replica parlando di sé, di come “l’uomo Stefano” sia tendenzialmente riflessivo mentre “l’attore” lo derida e sdrammatizzi in continuazione, sottolineando però come entrambi riescano ad andare d’accordo e ad avere un bel rapporto.
Una pièce, quindi, radicata nella tradizione, forte degli insegnamenti del passato ma che guarda al presente: abilmente diretta da Massimo Popolizio e magistralmente interpretata da Stefano Alessandroni, “Ploutus” farà esclamare anche a voi “surreal and fantastic”!



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