I conflitti dimenticati: la crisi del Grandi Laghi

giugno 29th, 2009 by Redazione | No Comments

I conflitti dimenticati: la crisi del Grandi Laghi

L’associazione Salotto Africano e l’Assessorato alle politiche culturali della Provincia di Roma presentano una interessante conferenza dal titolo “I conflitti dimenticati: la crisi dei Grandi Laghi”, che si terrà a Roma il prossimo 2 luglio. Questo icontro si propone come un punto di partenza per conoscere le ragioni (anche quelle di cui nessuno vuole parlare) di una guerra che si protrae da anni, e ascoltare testimonianze di chi ha vissuto sulla proprio pelle il conflitto. Un conflitto drammatico, un vero e proprio genocidio di cui nessuno parla, anche per il diffuso disinteresse da parte dei diversi media.
Come è nato il conflitto?
In seguito alla caduta di Mobutu nel 1997, nell’ex Zaire (oggi Rdc) si verificò una marcata instabilità politica. Da allora sono morti 4 milioni di persone a causa dei combattimenti o delle condizioni in cui sono costretti a vivere i profughi. La regione che mostra le tensioni più forti è il Nord Kivu, dove la causa degli scontri è sia di natura etnica (notevole l’eterogeneità della popolazione) che economica (oro, diamanti, coltan, rame e cobalto).
Il Kivu venne scosso dalla ondata di migrazioni causati dal genocidio del 1994 in Ruanda, in cui migliaia di hutu, scunfitti dagli tutsi, si riguiarono nel nord Kivu. I tutsi ruandesi, per porre fine alle incursioni, appoggiarono i ribelli congolesi guidati da Kabila. Quando nel 1997 Kabila conquistò la capitale dello Zaire, ruppe i contatti con i ruandesi, sui ex alleati.
Dopo la pace del 2002, nel 2003 si ebbe una nuova esplosione di violenza a causa della ribellione di Nkunda nei confronti di Kabila (Kabila figlio, in quanto il padre venne assassinato in circostanza ancora da chiarire nel 2001). Nkunda era convinto che Kabila non proteggesse i tutsi congolesi. Si arrivò quindi al gennaio 2008, con l’accordo fra Nkunda e Kabila, ma nell’agosto gli scontri ripresero.
I CONFLITTI DIMENTICATI: LA CRISI DEI GRANDI LAGHI
Intervengono:
Padre Giulio Albanese, giornalista, docente alla Pontificia Università Gregoriana
Mulumba Bin Kazadi, associazione Salotto Africano
Claudio Cecchini, assessore alle politiche sociali della Provincia di Roma
Cecilia D’Elia, assessore alle politiche culturali della Provincia di Roma
Massimo Zaurrini, giornalista, agenzia MISNA
Sono previste testimonianze di rappresentanti delle comunità territoriali dell’area dei Grandi Laghi
Roma, 2 luglio 2009 – ore 16,30 – Palazzo Valentini, Sala della Pace, Via IV Novembre 119/1
Per informazioni la pagina dell’evento su Facebook
ass.cultura@provincia.roma.it


La mia Africa

marzo 21st, 2009 by Nadia Albergati | 4 Comments

La mia Africa

Ad aprile mi è capitato di incontrare una persona speciale, una persona con una malattia molto particolare e soprattutto molto contagiosa.
Un giorno questa persona mi ha chiesto di seguirla in un’avventura, un viaggio in un paese dove il tempo sembra essersi fermato e il confine fra sogno e realtà cessa di esistere… beh, ho deciso di partire ed è stato allora che sono stata contagiata dalla stessa malattia, l’unica da cui non si vorrebbe mai guarire… è stato allora che ho scoperto cosa fosse il Mal d’Africa.
Tutto inizia il 24 aprile 2009, verso le 18:00, quando mi ritrovo all’aeroporto di Linate con un gruppo di 4 persone che non conosco, pronta a raggiungere la mia meta, Lilongwe, la capitale del Malawi.
Franco era partito una settimana prima per partecipare ad una missione anti-bracconaggio e io l’avrei raggiunto con il suo amico Fabio e altre tre ragazze. Ad aspettarci, dopo ben dodici ore di volo, c’erano Francesca e Stefano di Africa Wild Truck (un Tour Operator specializzato in viaggi di avventura) insieme a Franco e gli altri membri del gruppo con cui avrei stretto un rapporto fantastico.
Senza perdere troppo tempo, una volta organizzato il nostro spostamento e ottenuta l’attrezzatura necessaria ad allestire il campo base, il 26 aprile siamo partiti per il lungo trasferimento al South Luangwa National Park, luogo dove i miei sogni di bambina sarebbero diventati realtà.
Durante il tragitto mi sono trovata a salutare folle di bambini bellissimi che correndo incontro al truck gridavano eccitati. Ho scattato fotografie tentando di catturare la luce dei loro sguardi e la semplicità quasi sconcertante delle abitazioni in cui vivono e degli oggetti che utilizzano per ottenere dalla terra il sostentamento di cui hanno bisogno.
Una volta allestito il campo sulle rive del fiume Luangwa sono iniziati i nostri safari all’interno del parco. Un parco di 9.050 Km quadrati, nel cuore di una vegetazione ricchissima, dove tutto tace. Solo la natura fa sentire la sua presenza con i suoi profumi, i suoi colori e le fantastiche creature che la abitano.
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E lì, durante i nostri safari, si sono materializzati davanti ai miei occhi, a volte a meno di tre o quattro metri di distanza, animali che da bambina mi divertivo ad emulare, affascinata dalla bellezza, dall’eleganza e dal mistero di esseri che sembravano allora lontani e impossibili da incontrare.
Branchi di elefanti, zebre, giraffe, puku, impala. Babbuini che litigano per il controllo del territorio rincorrendosi fra i frutti dei buffissimi Sausage Trees. Due giovani leoni maschi che riposano su un albero mentre la madre si rotola nell’erba alta come farebbe un qualsiasi gattino d’appartamento. Licaoni che si stirano e riposano all’ombra della fitta vegetazione, mentre un’aquila pescatrice afferra un enorme pesce gatto e lo trascina nel fango della palude.
E poi lui, l’animale più elegante e misterioso del parco, difficile da trovare ma talmente bello da rimanere impresso nei miei occhi pieni di emozione: completamente abbandonato e rilassato sul ramo di un albero, un bellissimo esemplare di leopardo riposa per niente disturbato dalla nostra presenza.
E mentre un tramonto rosso fuoco illumina la vallata con sfumature di colore mai viste prima, tutto mi appare come ovattato, fuori dal tempo, come in un sogno ad occhi aperti.
Una lacrima percorre il mio viso e in quel momento mi rendo conto di quanto questo mondo, che tutti chiamano Africa, sia in grado di tatuarsi sul cuore di chi è capace di osservarlo, di sentirlo e di viverlo… mi rendo conto di quanto reale possa essere ciò che chiamiamo Mal d’Africa.
Questa è la mia avventura, l’avventura che mi porterò per sempre nel cuore e che auguro a chiunque di poter vivere come l’ho vissuta io.


Dall’Inghilterra al Camerun: 9000 km in Panda per beneficenza

marzo 19th, 2009 by Redazione | No Comments

Dall'Inghilterra al Camerun: 9000 km in Panda per beneficenza

Il Tamarindo è felice di segnalare la coraggiosa iniziativa di tre ragazzi torinesi, Carlo, Ludovico e Paolo, pronti ad affrontare 9000 chilometri con una vecchia Panda 4×4 per raccogliere fondi per l’associazione benefica Send a Cow.
Ecco come i nostri coetanei presentano il loro progetto:
The Adventurists promuove spedizioni benefiche attraverso l’Europa e l’Asia già da anni. Non è passato molto da quando alcuni degli organizzatori ebbero un’intuizione: l’Africa!
Il più incontaminato e affascinante continente del mondo era lì, ad aspettarli, e ancora nessuno aveva lontanamente osato pensare di attraversarlo con macchine da 1.000c.c. Era pane per i loro denti.
Viste possibili rotte da seguire e paesi da attraversare fu dato l’annuncio: nasce l’Africa Rally.
Le prime reazioni furono sconfortanti, il più della gente li riteneva dei pazzi e non avrebbe mai scommesso neanche un euro sulla riuscita di qualche equipaggio.
Fortunatamente, altri reagirono con spirito diverso, con il giusto ottimismo e nel luglio 2008 ben quarantadue equipaggi si presentarono ad Hide Park a Londra pronti per la prima missione verso il Cameroon. Di questi quarantadue solo ventotto arrivarono fino a Kribi, dimostrando a tutti che questa straordinaria impresa era possibile.
La cosa più bella è che l’edizione 2008 dell’Africa Rally ha accumulato la straordinaria somma di £75.000 interamente devoluta in beneficenza.
Visto il successo degli equipaggi e la considerevole cifra raccolta fu subito deciso di organizzare una nuova spedizione così il 13 dicembre 2009 un nuovo gruppo di avventurieri armati di mini macchine di 1.000c.c. si ritroveranno ad Hide Park per far ricominciare l’avventura. E tra questi ci sarà anche la Taurinorum Travel, formata dai tre ragazzi torinesi Carlo Alberto Biscaretti di Ruffia, Ludovico de Maistre e Paolo Rignon.
L’itinerario (ovviamente indicativo) che la Taurinorum Travel Team seguirà è il seguente:
1.UK
2.Francia
3.Italia
4.Tunisia
5.Algeria
6.(Mali)
7.Niger
8.Nigeria
9.Camerun
Cos’è SEND A COW?
Questo programma di agricoltura sostenibile, fondato nel 1988 da un gruppo di agricoltori inglesi, è oggi attivo in nove Paesi africani e mira ad aiutare i piccoli agricoltori nella lotta alla povertà e alla malnutrizione.
L’Africa Rally supporta il progetto SEND A COW dal 2007 per la regione nord del Cameroon, zona molto arida con una lunga stagione secca, in cui i branchi di bestiame sono molto diffusi e causano conflitti tra allevatori e agricoltori per via dello sfruttamento dei pascoli.
La donazione può essere fatta attraverso la pagina che la Taurinorum Travel Team ha predisposto su JustGiving. Tutte le donazioni effettuate su Just Giving vengono direttamente devolute agli organizzatori del progetto “Send a Cow”.
Qualsiasi tipo di donazione è importante (anche piccola; ricorda che tante gocce riempiono un vaso).
Non hai la carta di credito e non puoi donare? Non importa, condividi il nostro blog o l’evento su facebook con i tuoi amici, più persone lo vedranno più fondi riusciremo a raccogliere.
PER INFORMAZIONI
Contattate pure la Taurinorum Travel Team! La squadra è in continua ricerca di partner e sponsor per organizzare e affrontare la spedizione!
www.taurinorumtravelteam.com
info@taurinorumtravelteam.com


Tra speranza e disperazione: impressioni lavorando con i giovani di Nairobi

marzo 11th, 2009 by Martino Ghielmi | No Comments

Tra speranza e disperazione: impressioni lavorando con i giovani di Nairobi

Nairobi è una città caotica, costantemente intasata dal traffico di automobili, camion e matatu (i famosi pullmini a 14 posti che costituiscono l’unica forma di trasporto semi-pubblico). Nairobi è una città la cui struttura è profondamente segnata dall’ingiustizia, lasciata in eredità dai colonizzatori britannici: il 55% della popolazione vive in baraccopoli di fango e lamiera che in tutto occupano solamente il 5% della terra mentre alcuni quartieri residenziali e la zona del centro sono caratterizzati dal tenore di vita europeo se non nordamericano. Nairobi è una città caratterizzata dallo sfruttamento dei poveri, che quotidianamente escono dagli slum per cercare un lavoro “kibarua”, a giornata.
In questo contesto, due anni fa, si è tenuto il World Social Forum. Una settimana di intense discussioni, incontri e testimonianze accompagnati anche da incomprensioni, problemi irrisolti, illusioni. Qualcuno potrebbe chiedersi che segni lascia un evento di questa portata in una città che sembra essere interessata solo alla quotidiana sopravvivenza o al quotidiano arricchirsi. A prima vista sembrerebbe che spente le luci sul palcoscenico planetario del Forum, ognuno sia tornato alle proprie occupazioni, con la speranza che “un altro mondo è possibile”, ma con la certezza che questo non è vero qui o almeno non ancora.
Sono arrivato a Nairobi a fine Novembre, per trascorrere un anno di servizio civile con IPSIA (la ong delle ACLI) e dopo due mesi di permanenza ho avuto occasione di incontrare direttamente un segno lasciato dal Forum: due intensi week end organizzati dai giovani della parrocchia di Kariobangi (all’interno della quale si trova l’ormai celebre slum di Korogocho). Dopo una giornata di pulizia delle strade, una marcia tenutasi nonostante il maltempo, un sabato mattina di incontri su svariati temi e un concerto finale dentro lo slum, sono convinto che un qualche segno è rimasto.
Innanzitutto l’idea che per poter operare un cambiamento è necessario muoversi insieme, coinvolgendo quanti più giovani possibile (e non ne mancano, essendo oltre il 50% della popolazione sotto i 25 anni!). Ma anche che un cambiamento è necessario per evitare un collasso che sembra sempre più vicino (in queste settimane siamo esterrefatti dallo scandalo della crisi alimentare, che in Kenya rischia di colpire una persona su tre, aggravato dalla corruzione di funzionari che hanno venduto tonnellate di mais inviato come aiuto d’emergenza). E ancora che un cambiamento richiede il sacrificio di ognuno, evidente nella giornata di pulizia dello slum o nella marcia, tenutasi sotto una pioggia battente che trasformava i vicoli in torrenti di fango. E, per finire, che un cambiamento è davvero possibile.
I giovani kenyani, soprattuto quelli che provengono da un contesto sociale degradato come quello delle baraccopoli, tendono mediamente ad essere piuttosto rassegnati di fronte a una situazione che, oggettivamente, è disperata. C’è una grande maturità (a 18 anni si è considerati completamente adulti e si è spesso completamente indipendenti già da prima) accompagnata un’altrettanto grande speranza in astratto: la convinzione che può capitare a tutti di fare fortuna “Mungu Akipenda” (“se Dio vuole”). Questa convinzione, che rischia di sfociare in una fiducia magico-miracolistica nelle capacità di azione di Dio nel mondo, è accompagnata da una fortissima speranza ultraterrena, dalla convinzione che prima o poi le cose saranno sistemate dall’alto ma, in media, da poca speranza che un cambiamento sociale sia possibile anche grazie all’unione delle forze di ognuno.
La mia sfida maggiore è riuscire a sganciare la mia figura dallo stereotipo del Muzungu (bianco) che, in quanto pieno di soldi, può dare una mano a tutti e aiutare a realizzare qualsiasi progetto. Effettivamente noi bianchi siamo, in proporzione, pieni di soldi, e negare questo sarebbe soltanto illudersi di essere ad un livello paritario con gli africani, nascondendosi la differenza di reddito che pesa come un macigno in gran parte delle relazioni. Provare a condividere idee per iniziative comuni, anche incoraggiando una maggiore fiducia nelle proprie capacità è forse il maggiore obiettivo della mia presenza in questo contesto. Lavorare insieme alle comunità di origine, consapevoli che il successo di uno non può venire dallo sfruttamento dell’altro non è semplice, perché molto spesso le aspirazioni dei giovani che incontro tendono verso uno sfrenato individualismo, ma è una possibilità concreta.
Vedere la dinamicità di un evento come il Social Forum locale e incontrare quotidianamente giovani che si lanciano in piccole attività imprenditoriali di gruppo è qualcosa che ravviva la speranza che anche in un contesto difficilissimo esistano vie d’uscita e vie di resistenza ad un sistema disumano che si sorregge schiacciando le persone nella miseria.


Ancora nessuna risoluzione per il Madagascar

febbraio 28th, 2009 by Nina Ferrari | No Comments

Ancora nessuna risoluzione per il Madagascar

Nonostante la drammatica condizione politica in cui versa il Madagascar in questo periodo, poche sono le notizie che da lì riescono a trapelare in Europa, riuscendo così a ottenere la cassa di risonanza che una tale crisi meriterebbe. Al Tamarindo, per quanto ci è possibile, cerchiamo di colmare questo vuoto d’informazione, tenendoci in contatto col sociologo E.R., che da Antananarivo ci tiene aggiornati sulla situazione disperata che sta attraversando il Paese.
Avevamo lasciato il Madagascar sull’orlo della guerra civile, in preda alle rivendicazioni del Sindaco di Antananarivo Rajoelina e quelle del Presidente della Repubblica Ravalomanana, che si accusavano vicendevolmente delle violenze perpetrate su giornalisti e cittadini innocenti: scesa in piazza a manifestare contro il regime di incertezza e tensione che il Paese aveva vissuto a partire dall’inizio del 2009, la popolazione era stata aggredita dagli spari dei soldati della Guardia Presidenziale, che il 7 febbraio avevano fatto decine di vittime e centinaia di feriti.
Il braccio di ferro tra il Sindaco e il Presidente continuava, trascinando nel frattempo il Madagascar nell’anarchia e nella miseria: mentre fabbriche ed esercizi commerciali venivano saccheggiati e dati alle fiamme, il Ministro della Difesa e quello della Giustizia davano le proprie dimissioni. Intanto, come riportato dall’Agenzia Fides, il caos e la povertà si propagavano per tutta l’Isola, come dimostrano i recenti accadimenti di Tulear, città balneare a Sud-Ovest del Paese, dove un gruppo di individui, in preda alla fame e alla disperazione, è stato colto dalla polizia locale nell’atto di depredare un deposito di riso. Le forze dell’ordine hanno sparato, con l’intento di fermarla, sulla comitiva di persone, uccidendo quattro uomini e provocando una decina di feriti.
A prendersi fin da subito l’onere delle negoziazioni tra Ravalomanana e Rojoelina è stata la Federazione delle Chiese Cristiane del Madagascar (FFKM), che, per voce dell’Arcivescovo di Antananarivo Mgr. Odon Razanakolona, ha fatto sapere nei giorni scorsi di aver fallito nel proprio intento. La mediazione non è stata possibile, in quanto, come riferito in una dichiarazione televisiva, uno dei contendenti credeva la Federazione parziale – il Presidente Ravalomanana è infatti il Vicepresidente della Chiesa Protestante del Madagascar ed è innegabile il suo ascendente sul Pastore capo di questa confessione. L’Arcivescovo, conscio dell’impossibile situazione nella quale versa il Paese, ha inoltre esortato l’esercito a prendersi le proprie responsabilità e a proteggere il popolo, invocando tra l’altro ancora una volta una maggiore presenza delle Nazioni Unite affinché si giunga a una risoluzione.
Mentre la comunità internazionale tace, alcune autorità malgasce, tramite annunci sulle televisioni private, hanno lanciato la proposta di far intervenire l’esercito della SADC, la Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe, un’organizzazione internazionale di cui il Madagascar fa parte e che, assieme all’Unione Africana, è nata con lo scopo di promuovere sviluppo, cooperazione e sicurezza all’interno dei quindici Stati membri. Quali potrebbero essere le conseguenze della presenza di altre forze dell’ordine in uno scenario già così carico di tensioni e povertà? Ogni giorno che passa, azioni intimidatorie si susseguono a violenze sul popolo, che, trascinato in dimostrazioni di piazza e scioperi dall’uno o dall’altro contendente, viene sempre più risucchiato nella spirale della miseria, della fame, della disperazione.
Il 26 febbraio Rajoelina, recentemente destituito dal ruolo di sindaco dal Presidente Ravalomanana nel nome della legalità, ha convocato una manifestazione contro il governo davanti allo stadio di Antananarivo, che ormai è divenuto il suo quartier generale. L’esercito malgascio è intervenuto allora con granate lacrimogene al fine di disperdere i dimostranti, presto rimpiazzati dai sostenitori di Ravalomanana, che si sono riuniti in un sit-in contro l’ex sindaco.
Agli abitanti del Madagascar non viene data tregua. Le folle, pilotate prima da un contendente e poi dall’altro, si riversano nelle strade, davanti allo stadio, in un continuo avvicendarsi di rivendicazioni e accuse. La guerra di potere tra le due massime cariche dello Stato si gioca tutta sull’odio personale che circola tra i due politici, ma i cittadini malgasci sono allo stremo: mancano i soldi, manca il cibo, regna sovrana una confusione che i poteri locali non riescono, non possono e a volte non vogliono risolvere. Da un lato si invoca, dall’altro si paventa, l’entrata in gioco di forze internazionali capaci di riportare all’ordine lo Stato tramite l’intervento di altre forze di polizia e dell’esercito.
Una domanda, sussurrata, timida e incerta, si leva nella confusione delle violenze e delle manifestazioni: quale il destino di questo popolo?


Come uno stupro

febbraio 23rd, 2009 by Vincenzo Ruocco | 7 Comments

Come uno stupro

“Si prevede che l’Africa Occidentale diventerà uno dei maggiori fornitori di petrolio e di gas per il mercato americano” Dick Cheney (ex Vice Presidente U.S.A.), Rapporto Nazionale sulle politiche energetiche, 2001.
Come a uno stupro geopolitico il mondo assiste, ad uno sfruttamento delle risorse in cambio di nulla, ad una schiavitù legiferata, concordata da chi detiene il coltello dalla parte del manico, e non è una metafora. Sarebbe anzi più indicato dire da chi impugna un AK47 fronteggiando uno sparuto gruppo, talvolta inerme, di poveri, malati, disperati africani.
Il misero destino degli abitanti della Nigeria del sud, di quella regione del Delta maledettamente ricca solo per gli altri, solo per i capaci di utilizzare la diplomazia per scopi monetari, non importa a nessuno. La diplomazia, quale presa in giro collettiva, nasce proprio per limitare i danni, frenare le perdite, spartire le ricchezze e non strozzare l’equilibrio economico-finanziario dei soggetti chiamati a pesare le parole, a stringere le giuste mani e sorridere al nemico nascondendo sotto la giacca una pistola carica, oggetto anch’esso di mercato, fruibile dai criminali o dai disperati portati ad agire come tali, inconsapevoli di arricchire per l’ennesima volta coloro che li costringono all’indigenza di ogni cosa, di viveri, di acqua, apparentemente di dignità.
Eppure da questa regione si esportano circa 2 milioni di barili di petrolio al giorno. L’uomo bianco, questo assassino privo di rimpianti ha il coraggio, con la connivenza delle autorità locali, di agire con quella prepotenza atavica di cui non sa vergognarsi mai fino in fondo.
Quante carte dei diritti firmati, quanti accordi siglati, che biasimo per quegli inetti politicanti seduti ai tavoli del potere, sprezzanti di quella logica politica collegata al business, irriverente e incestuosa verso quella Mama Africa da cui tutti discendiamo, culla dell’umanità incapace di comprendere e condividere.
Come possiamo immaginarla oggi l’Africa? La regione del Delta del Niger, a trent’anni dall’inizio delle esplorazioni del petrolio, si presenta come una grande distesa di campi irrigati da fuoriuscite di greggio e fiumi neri, sporchi, inquinati, privi di fauna e flora.
Le grandi compagnie petrolifere multinazionali gestiscono il mercato dell’oro nero e del gas. Sono le proprietarie di queste terre, owners dai nomi noti:
- Royal Dutch Shell plc / Koninklijke Nederlandse Shell NV è una multinazionale anglo-olandese operante nei settori petrolifero, dell’energia e della petrolchimica
- Chevron Corporation è un’azienda petrolifera statunitense. Attiva in più di 180 paesi del mondo, dispone di importanti giacimenti petroliferi e di gas naturale, raffinerie di petrolio e petroliere
Agip, acronimo di Azienda Generale Italiana Petroli, è una compagnia petrolifera italiana, di proprietà del gruppo Eni
I tecnici che lavorano in queste zone non figurano come personale autoctono ma vengono esportati dall’Europa e dall’America, difesi dai militari dei governi conniventi, difesi dalle proteste e dagli attacchi dei gruppi ribelli. Il MEND, il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger rappresenta oggi il vero soggetto politico capace di trattare, giocoforza con l’ausilio delle suddette armi, con le compagnie petrolifere. Quando però le stesse compagnie proseguono ad oltranza lo sfruttamento delle risorse perpetrando senza sosta delitti e azioni disoneste grazie alla complicità del Governo del paese, ecco dunque che non si lascia altra scelta se non seguire la strada della rivoluzione. Minacce di morte e rapimenti sono gli unici mezzi per far sentire la propria voce.
Non pensiamo a questi rivoluzionari come a delinquenti privi di scrupoli, cerchiamo di comprendere la disperazione del loro vivere quotidiano.
Seduti nei ristoranti chic del venerdì sera, agghindati e festosi partecipanti di salotti letterari, non sappiamo nulla di cosa significhi veramente essere affamati ed esasperati. In questa parte di mondo dove si discute di regime agente su nuovi livelli, dove nei calendari segniamo giornate della memoria collettiva, lontano da noi si combatte per quei diritti inalienabili dell’uomo ancora oggi non garantiti.
La costituzione americana considera diritto dell’individuo la ricerca della felicità, mentre la Costituzione italiana, frutto di compromessi continui tra due chiese, la chiesa Marxista e quella Cattolica, trovò unanimi i redattori della costituzione a tralasciare questo importante principio. Il Cattolicesimo promette sì la felicità, ma non in questa vita, mentre il Marxismo punta al benessere della collettività e non dell’individuo. Al di là dei precetti ideologo-teologici, oltre l’utopistica promessa americana, quando si troverà la forza di dire basta?


Il Madagascar sull’orlo della guerra civile

febbraio 13th, 2009 by Nina Ferrari | 9 Comments

Il Madagascar sull'orlo della guerra civile

Poche notizie dal Madagascar. Non è un Paese del quale si sente parlare spesso, a meno che non si tratti di un cartone animato che porta il suo nome. Ingenuamente si spera che il detto ‘nessuna nuova, buona nuova’ valga anche per la politica internazionale, ma occhi e orecchie smaliziate sanno già bene che non è così.
Quella del Madagascar oggi è una situazione al limite della guerra civile e che già da qualche mese ha valicato la soglia di quella che si può definire democrazia. La popolazione malgascia è allo stremo e alla fame, e a questo si aggiungono le violenze perpetrate dalle forze armate che, sparando sulla folla manifestante, hanno fatto decine di morti. Non è facile capire quanto grave e complessa sia la situazione laggiù: per questo ho cercato di mettermi in contatto con un amico malgascio, E.R., che ha cercato di spiegarmi cosa sta accadendo in Madagascar in questi giorni.
“Questa è una storia che si ripete”, mi racconta E.R. in un’email. “Prima del nostro attuale Presidente della Repubblica Marc Ravalomanana, venivamo da più di vent’anni di presidenza di Didier Ratsiraka (dal 1975 al 1992 e dal 1997 al 2002). Ravalomanana era allora un ricco magnate del Madagascar e riuscì a diventare sindaco di Antananarivo, la nostra capitale. Da quella posizione non fu in grado di fare molto per contrastare il potere di Ratsiraka e, perciò, nel 2002 si presentò alla corsa per le elezioni presidenziali, che vinse. Vi furono però dei brogli, a seguito dei quali Ratsiraka rimase al proprio posto, rifiutandosi di compiere il volere del popolo espressosi attraverso il voto.
Ravalomanana a quel punto s’impose con una serie di manifestazioni e scioperi, dapprima ad Antananarivo e poi in tutta l’isola, e, appoggiato da tutta la popolazione, riuscì, dopo mesi, a far cadere il governo di Ratsiraka. Ravalomanana poté allora a formare il proprio governo, avendo dalla propria in parlamento una maggioranza schiacciante.
Dal 2002 Ravalomanana ha fatto molto per lo sviluppo del Madagascar: ha costruito moltissime strade, rendendo accessibili posti prima completamente isolati; contemporaneamente, però, ha continuato ad arricchirsi, facendo delle sue aziende un grande monopolio: olio, latte e altri beni sono completamente nelle sue mani. Ha cambiato la costituzione a proprio vantaggio, chiudendo così la bocca all’opposizione. Via via nessuno ha più avuto il diritto di esprimere il proprio dissenso”.
Arriviamo a oggi. “Nel dicembre del 2007, Andry Rajoelina ha vinto, da indipendente, le elezioni a sindaco della capitale malgascia. Già da prima di diventare sindaco era capo di diverse emittenti televisive e radiofoniche private e proprietario di un giornale e, divenuto primo cittadino, più di una volta il Presidente ha cercato di ostacolarne la libertà di stampa. Nel dicembre del 2008, tre mesi fa, Ravalomanana ha fatto interrompere la trasmissione delle sue televisioni, e l’ha fatto per un motivo politico: in un programma delle emittenti di Rajoelina s’era parlato del vecchio presidente Ratsiraka, antico nemico di Ravalomanana dai tempi del 2002.
Rajoelina ha deciso allora di contrastare il presidente, ha rinominato un grande parco di Antananarivo chiamandolo ‘Piazzale della Democrazia’ e ha chiamato i cittadini a radunarvisi e a manifestare affinché gli fosse nuovamente data la possibilità di trasmettere notizie con le proprie emittenti. Dal governo, nessuna risposta.
Le rivendicazioni sono continuate fino alla richiesta, da parte di Rajoelina, delle dimissioni del Presidente Ravalomanana. Questi, non solo accusato di non rispettare la libertà di stampa, ma anche di dare in affitto le terre del Madagascar agli stranieri (1 milione e 250 mila ettari di terra coltivabile sono stati ceduti ad aziende Sud-Coreane per i prossimi 99 anni), non ha replicato.
Il 26 gennaio la popolazione di Antananarivo si è trasferita dal ‘Piazzale della Democrazia’ al ‘Viale dell’Indipendenza’. La manifestazione si è presto tramutata in sommossa, le stazioni radiotelevisive nazionali sono state date a fuoco, così come quella privata del Presidente Ravalomanana. Sono stati messi al rogo anche tutti i negozi della città e ben presto la rivolta si è estesa anche alle periferie, in cui sono state distrutte le sedi delle aziende di Ravalomanana così come molti altri centri commerciali. Prima di essere stati distrutti dalle fiamme, sono stati saccheggiati.
Per due interi giorni né la polizia né l’esercito hanno fatto nulla per fermare tutto questo.
A partire dal 26 di gennaio le manifestazioni popolari e gli scioperi sono diventati giornalieri. Rajoelina, il sindaco, il 7 febbraio ha istituito un governo di transizione, nominando Primo Ministro Monja Roindefo.
È stato il 7 febbraio che i manifestanti si sono recati al Palazzo Presidenziale per procedere all’investitura di Roindefo. Gran parte della popolazione s’era tenuta a dovuta distanza dal palazzo, a cui si è avvicinata solo una piccola delegazione incaricata di iniziare le negoziazioni. Nessuna negoziazione è avvenuta, al palazzo non c’era nessuno. C’erano, però, i soldati della Guardia Presidenziale, che, senza alcuna intimazione, hanno cominciato a sparare sulla folla. Sono state uccise più di cinquanta persone quel giorno, tra cui molti giornalisti malgasci, e ferite più di 250.
A distanza di pochi giorni i due contendenti, Ravalomanana e Rajoelina, non fanno che accusarsi l’un l’altro di questa carneficina: il presidente viene incolpato di quei ciechi spari sulla gente, mentre al sindaco viene imputato il peccato di aver consapevolmente condotto il popolo verso la morte, sapendo bene che la zona attorno al Palazzo Presidenziale è una zona rossa. Non esiste lo spiraglio di alcuna conciliazione tra loro al momento.
A prendersi l’incarico di convincere a un dialogo tra le due parti è stata innanzitutto la Federazione delle Chiese Cristiane del Madagascar (FFKM), che, nonostante i propri sforzi, non è ancora giunta ad alcun risultato. Ad essa si è aggiunto la settimana scorsa un rappresentante delle Nazioni Unite, che non ha ottenuto esiti migliori. In questi giorni sono atterrati sull’Isola anche un inviato dell’Unione Africana e un delegato del Ministero Francese per la Cooperazione.
Le manifestazioni continuano, da una parte e dall’altra. L’11 febbraio Ravalomanana ha convocato i propri partigiani a radunarsi nello stadio di Antananarivo per appoggiare la legalità. Perché Ravalomanana sostiene di rappresentare la legalità. Rajoelina, d’altro canto, non smette di chiedere le dimissioni del presidente …


offline:events e Africa Peace Point Italia vi invitano a MSHUMAA

novembre 20th, 2008 by Chiara Capraro | No Comments

offline:events e Africa Peace Point Italia vi invitano a MSHUMAA

Per chi fosse a Milano e dintorni questo weekend, 22 e 23 Novembre, segnaliamo il progetto MSHUMAA, in mostra all’Energolab, via Plinio 38 (orario 10-20)
MSHUMAA racconta la Tanzania attraverso media diversi: fotografia, parola (poesia) e musica. La documentazione fotografica risale ad un viaggio compiuto nel 2005 dal fotografo Salvatore Ferrara. La sua ricerca visuale intendeva porre in primo piano una dimensione dello sguardo personale, biografica.
Durante le sessioni di sviluppo è nata così l’esigenza di accompagnare le immagini ad una presenza verbale, che si unisse, come naturale complemento, alla traccia fotografica. Tommaso Di Dio ha dunque dato voce ad ogni immagine, accompagnandola con una poesia, intrecciando un percorso personale parallelo a quello del fotografo. In seguito Sebastiano Ciurcina e Anouschka Trocker sono stati chiamati a dare voce la propria voce, in musica, al progetto.
L’opera, intessuta di media diversi, si fa così portavoce di un messaggio di integrazione e fusione tra culture e linguaggi. Infatti, in swahili Mushmaa significa ‘candela’, ed è a questa luce che gli autori si ispirano per avvicinare e mettere in risalto le diversità insite nei mezzi espressivi e nelle loro vite di artisti.
L’obbiettivo è di rendere visibile, attraverso l’intreccio di fotografia, poesia e musica, quella disponibilità all’incontro che è l’oggetto specifico dell’opera.
Sabato 22, alle ore 17, aperitivo di benvenuto seguito dalla tavola rotonda: Africa, l’incontro della differenza. Interverrano tra gli altri:
LUCIANO SCALETTARI giornalista di Famiglia Cristiana
MINO SPREAFICO presidente di Africa Peace Point Italia
ACHILLE SALETTI presidente di Saman
PEDRO DI IORIO di Caritas Ambrosiana


Ecco cosa significa parlare di sviluppo

novembre 16th, 2008 by Chiara Capraro | 4 Comments

Ecco cosa significa parlare di sviluppo

Sentiamo spesso parlare di Paesi in via di sviluppo, sotto-sviluppati o Terzo Mondo sono ormai termini desueti, per indicare nazioni altre rispetto all’Occidente. Se crediamo, come Nanni Moretti, che le parole siano importanti, è interessante chiedersi da dove derivi questo modo di riferirsi al Sud del Mondo (altra perifrasi interessante).
Forse non tutti sanno che il termine sotto-sviluppo, in Inglese underdevelopment, è stato coniato in questo senso il 20 gennaio 1949. In quell’anno il presidente americano Truman, nel suo discorso inaugurale, definì underdeveloped metà della sfera terracquea e proclamò che fosse dovere dell’Occidente (USA in primis) aiutare queste nazioni ‘to catch up’, a mettersi in pari. Escobar ed Esteva sottolineano come quest’uso del termine development (e underdevelopment) abbia da quel giorno diviso il mondo in due parti: sviluppato e no. Il termine sotto-sviluppato diventa così un aggettivo comparativo (e dispregiativo): bisogna svilupparsi, insomma!
Quanto e cosa fosse questo sviluppo, questo mettersi in pari, fu ovviamente definito su standard occidentali di tipo economico, esemplificati in parametri quali prodotto interno lordo e reddito pro-capite. Le specificità locali di tipo ambientale, economico o socio-culturale, non erano (e spesso non sono nemmeno ora) minimamente prese in considerazione. Lo sviluppo è concepito come un traguardo su una linea retta che conduce a uno stato omogeneo, incarnato dal capitalismo occidentale. Deviazioni e variazioni sono considerate difetti da correggere. Infatti, il termine sotto-sviluppo indica una mancanza da colmare. Ovviamente l’Occidente ha tutti gli strumenti necessari, e la conoscenza (altro termine da decostruire), per aiutare i sotto-sviluppati a superare le proprie difficoltà. Così, se volessimo esagerare in volontà di definizione, potremmo dichiarare il 20 gennaio 1949 come data di nascita di quell’idra a cento teste che in inglese si chiama international development e in italiano cooperazione internazionale allo sviluppo (suona più innocuo).
Il punto che mi sto sforzando di mettere in luce è quanto la necessità dello sviluppo sia pretestuosa e dettata da un punto di vista discutibile il quale, tuttavia, appare investito di una luce quasi soprannaturale perchè incastonato nella sfera semantica dell’aiutare, dell’assistere, in odor di religione e moralità. Esso è in realtà un’imposizione, di significati prima ancora che di politiche e interventi. L’univocità del termine divide effettivamente il mondo in due e non lascia ai sotto-sviluppati altro che la possibilità di aprire bene le orecchie per imparare come affrancarsi dal proprio stato indesiderabile.
È questa concezione dei sotto-sviluppati come senza risorse, come irrazionali e ignoranti (nel senso che non sanno) che porta alla teorizzazione dell’assistenza come imperativo di azione. E chi può assistere se non le nazioni occidentali che hanno saputo realizzare le magnifiche sorti e progressive al grado più alto? Ecco di nuovo la solfa del white man’s burden (fardello dell’uomo bianco) di Kiplinghiana memoria. L’occidente insomma, si è riservato il ruolo di giudice e salvatore: identifica bisogni e propone soluzioni. Mentendo a se stesso, oltre che agli altri: il capitalismo e il libero mercato generano ineguaglianza economica, storicamente mitigata grazie alle lotte dei lavoratori e all’istituzione di un sistema di welfare.
Il paradigma dell’assistenza quindi, comporta il perpetuarsi dello status quo: un cambiamento vero, infatti, comporterebbe il sovvertirsi dei rapporti di produzione, per scomodare Marx, gli stessi rapporti che provocano il sotto-sviluppo. L’assistenza invece è l’eterno palliativo, un globale placebo talmente radicato e ramificato da risultare naturale, ovvio, non questionabile. Senza parlare del suo potere di coinvolgere e assolvere profondamente a livello emotivo.
Nell’Inghilterra vittoriana venivano chiamati ironicamente do-gooders i rappresentanti della società rispettabile che attraverso il lavoro volontario (mutatis mutandis il concetto è lo stesso del reclutamento dei cooperanti o dei vari servizi civili, internships e quant’altro) cercavano disperatamente di salvare i poveri e miserabili inculcando nella plebe un senso di disgusto per se stessi e per la propria immoralità in modo che abbracciassero una nuova vita. Insomma, se eri una prostituta era perchè eri moralmente corrotta e non perchè dovevi mangiare o eri sfruttata e costretta a farlo (pare che anche la Carfagna sia della stessa opinione). Vale la pena notare che do-gooders è un termine ancora usato dai critici del development per riferirsi non soltanto alle persone che lavorano nel settore dello sviluppo ma soprattutto alle politiche delle istituzioni internazionali e alla loro ipocrisia che si nutre di (non) soluzioni sempre nuove.


Cooperanti oggi: quali prospettive?

novembre 12th, 2008 by Thomas Villa | 1 Comment

Partiamo da un dato di fatto: spesso la cooperazione non porta da nessuna parte.
Eppure, perché allora il fenomeno del volontariato e del terzo settore coinvolge ogni anno milioni di giovani e adulti e li spinge a partire o anche solo ad impegnarsi per l’utopico obiettivo di un mondo migliore? Perché non c’è mai un sentimento di frustrazione (anzi, spesso è di entusiasta testimonianza) tra i volontari che lasciano modernissime città occidentali per recarsi nei posti più sperduti del Pianeta? E soprattutto, perché quello del terzo settore è un fenomeno in costante aumento se è vero che le tendenze dei Paesi in via di sviluppo sono in costante ribasso? Soprattutto, guardacaso, per ciò che riguarda l’Africa, il più sventurato (secondo i canoni occidentali) dei continenti. E anche il più visitato da missioni occidentali. Al contrario, le realtà asiatiche e sudamericane stanno testimoniando qualche piccolo segnale di ripresa.
Ma non vorrei dare l’impressione di voler esprimere una tesi così assurda quale sarebbe una forma di legame tra la “turistizzazione” degli aiuti umanitari e il sottosviluppo delle zone soggette alla visita di cooperanti con l’ipod e le fotocamere digitali. No, sarebbe assurdo. Una volta tornati a casa, ci si sente così bene. Si è aiutato un paese in via di sviluppo, è vero. Ma forse non si sono aiutate le persone. Quante volte mi è capitato di rimanere stupefatto nei miei viaggi (è vero sono giovane, ma ne ho fatti abbastanza da capire alcune cose) quando osservavo il comportamento di capiprogetto più attenti a replicare la realtà occidentale in Africa piuttosto che aiutare le popolazioni a crescere insieme. Cooperare significa crescere insieme. Non sviluppare l’altro suo malgrado.
Che senso ha per un Africano, ad esempio, una tecnologia modernissima ed efficientissima ma che non rappresenta nulla per il donatore? Più o meno quello che per noi rappresenterebbe un arnese bellissimo istoriato di magnifici simboli tradizionali, ma senza un minimo livello di funzionalità.
È questo l’ostacolo più arduo tra le differenti culture. La cooperazione non può prescindere un elemento di parità tra le due parti. La cooperazione non è mai per l’altro, la cooperazione è con l’altro. E se si raggiunge sviluppo, è necessariamente sviluppo condiviso. Ogni altra forma, è una ipocrita e più o meno mascherata tentazione di sfruttamento. Ogni cooperante o aspirante tale dovrebbe sapere che per intraprendere un viaggio presso una ONG asiatica, o anche solo nei vicini Balcani, la maggior parte del suo contributo non sarà sotto forma di umanitaria assistenza ai bisognosi, ma alle multinazionali del petrolio, dell’auto o alle compagnie aeree che hanno permesso all’occidentale di raggiungere alcuni posti di cui una volta tornato potrà finalmente dire anche lui: “loro non hanno niente, eppure sono così felici!”. Peccato che però a noi in caso di necessità basta schioccare un dito per tornare a casa. Loro a casa ci sono già. E se hanno bisogno d’aiuto, devono sperare nella generosità di qualche lontano visitatore che neppure parla la loro lingua.
Per questa puntata ho finito, ma purtroppo vi sono ancora molte cose che vorrei raccontarvi su quello che è la cooperazione. Vi descrivo la situazione per come è in realtà affinché ognuno di noi possa farsi una opinione autonoma di come poter cambiare questa situazione. Scuotere le granitiche certezze del cooperante occidentale è forse l’unico modo di cambiare una situazione che, ormai è evidente, non funziona. Le mie poco edificanti riflessioni non vogliono essere nulla più di alcuni spunti di riflessione per non dormire tranquilli la notte. Come purtroppo in molti meravigliosi Paesi già da tempo accade ogni notte. Ma non per una fastidiosa zanzara chiamata “dubbio” o “coscienza”, ma per un bisogno primario chiamato “fame”.



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