Il difficile equilibrismo di Obama sull’Afghanistan

dicembre 17th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments

 Il difficile equilibrismo di Obama sull'Afghanistan

Dopo mesi di consultazioni con i suoi consiglieri più stretti, il presidente Usa Barack Obama ha preso la decisione di inviare altre 30.000 truppe per contrastare il risorgere dei Talebani in Afghanistan, colpire le cellule di Al-Qaeda (soprattutto nella regione di frontiera con il Pakistan), e garantire temporaneamente la sicurezza della popolazione afgana. Nello stesso discorso, Obama ha anche annunciato l’obiettivo di iniziare a ritirare le truppe Usa dall’Afghanistan a partire dalla metà del 2011. A prima vista contraddittoria, questa strategia rappresenta l’unica possibilità di un equilibrio tra esigenze contrapposte.
Annunciare una scadenza per il ritiro delle truppe nello stesso momento in cui ne si annuncia l’invio può apparire paradossale. John McCain è stato il primo a segnalare il paradosso, affermando che porre una data per il rientro dei militari Usa rappresenta un assist per i Talebani e un duro colpo al governo di Karzai. Chi ha ragione dunque tra i due ex contendenti alla presidenza americana? Avremo una risposta solo dopo aver lasciato passare i 18 mesi che Obama ritiene necessari per ribaltare la difficile situazione su territorio afgano. Tuttavia, è già possibile tentare di interpretare l’annuncio di Obama, così come le critiche di McCain e del partito repubblicano.
Innanzitutto, le critiche repubblicane non tengono in considerazione le necessità di politica interna che il presidente si trova a fronteggiare. Obama doveva tentare di non deludere la maggioranza dei democratici (sempre più scettica sulla possibilità di portare il conflitto a termine in tempi brevi) e al tempo stesso guadagnare il consenso di alcuni repubblicani per garantire il sostegno del Congresso (che deve finanziare il rinnovo della missione). Un aumento del numero delle truppe serve a soddisfare la seconda esigenza. Annunciare una data per l’inizio della fine dell’intervento, la prima. Si tratta di un difficile tentativo di equilibrismo politico, ma anche l’unico possibile dato il sempre minor consenso di cui la missione afgana gode in Congresso e tra gli elettori.
Inoltre, il duplice annuncio è anche un tentativo di trovare un  equilibrio tra i due segnali diversi che Obama ha voluto mandare alle parti belligeranti. Da un lato, fissare una data per il rientro delle truppe responsabilizza il governo afgano e le sue forze di sicurezza a prendersi responsabilità del proprio paese in tempi i più ristretti possibili. Il presidente afgano Karzai è ora consapevole di non avere l’appoggio incondizionato degli Usa all’infinto (“è finita l’epoca degli assegni in bianco”, ha detto Obama durante il discorso), e dovrà agire di conseguenza preparando il governo e il paese ad una transizione verso il pieno autogoverno. D’altra parte, annunciare una data per iniziare a ritirare le truppe è rischioso nel caso in cui 18 mesi non siano sufficienti a sconfiggere i Talebani. Obama ha quindi ammesso che l’inizio del ritiro dipenderà dalle “condizioni sul campo”.  In tal modo, Obama si è lasciato aperta l’opzione di prolungare ulteriormente la missione, nel caso ci sia bisogno di più tempo per portare a termine la missione con successo. Al tempo stesso, dichiarando che il ritiro di metà 2011 sarà solo un inizio e dipendente dalle condizioni sul campo, Obama ha anche reso chiaro ai Taliban e Al-Qaeda di essere pronto a mantenere la presenza americana in Afghanistan finché la vittoria non apparirà chiara.
Il discorso di Obama ha tentato quindi di trovare due tipi di equilibrio. Uno tra le esigenze di politica interna a Washington. L’altro tra i due messaggi da inviare a amici e nemici in Afghanistan. Le decisioni del Congresso sul finanziamento ci faranno capire se le abilità retoriche di Obama saranno servite a garantirgli il consenso politico necessario. La situazione in Afghanistan ci dirà invece se la dinamica invio-ritiro avrà successo. Per ora, si può dire che, nel momento di prendere una delle decisioni che segneranno il resto della sua presidenza, Obama ha fatto il miglior uso possibile delle sue capacità retoriche per spiegare quella che molti considerano, dopo l’esempio dell’Iraq, l’unica strategia possibile per vincere il conflitto afgano: inviare più truppe per ritirarle il prima possibile.

Questo è il primo di una serie di articoli che esamineranno il primo anno di Obama da presidente. La decisione sull’Afghanistan, la riforma sanitaria, le politiche economiche e occupazionali, e le sorti del pacchetto energia-ambiente saranno infatti decisivi nel determinare il successo o il fallimento della sua presidenza.


Mister Obama va ad Oslo

ottobre 12th, 2009 by Francesco Vannutelli | No Comments

Mister Obama va ad Oslo

La decisione di Oslo di assegnare a Barack Obama il premio Nobel per la pace a poco meno di  un anno dalla sua elezione appare a molti spiazzante. È opinione comune che Obama debba ancora dimostrare di essere in grado di portare a termine il percorso sul quale ha deciso di orientare la proprio presidenza. Le migliori intenzioni ci sono, ma la strada da fare è ancora tanta e gli obiettivi difficili da raggiungere. Il superamento della tensione con l’Iran di Ahmadinejad, il difficile ruolo di intermediario nel dialogo tra Palestina e Israele, la preparazione di un’adeguata exit strategy dall’Afghanistan nel momento in cui i comandi militari chiedono l’invio di altre 60.000 unità, l’impegno per portare avanti il disarmo nucleare annunciato nel suo primo discorso alle Nazioni Unite sono le prove con cui il presidente degli Stati Uniti deve ancora confrontarsi e su cui punta i riflettori l’opinione pubblica internazionale.
Di concreto, Obama ha fatto ancora poco per meritarsi il massimo riconoscimento per l’impegno internazionale. L’avvio del ritiro delle truppe dall’Iraq rappresenta certamente un primo passo importante e un chiaro segnale di svolta rispetto alla precedente amministrazione Bush, così come la decisione di lasciar perdere il progetto dello scudo spaziale, che tanti attriti aveva creato fra la Casa Bianca e il Cremlino, o ancora la chiusura della prigione di Guantanamo, seppur tra infinite difficoltà per la sistemazione dei detenuti.
In generale, a Obama va riconosciuto l’indubbio merito di aver impresso da subito una netta svolta alla politica estera USA, distendendo i toni nei confronti del mondo islamico, senza perdere di vista la minaccia terroristica, ma abbandonando il gergo da crociata manichea propria della precedenti presidenze Bush. L’impegno al dialogo con l’Islam moderato è un punto fermo della nuova diplomazia statunitense, come ha confermato lo stesso Obama nel recente discorso all’università del Cairo.
Nella motivazione del premio, il Comitato spiega di aver scelto il presidente degli Stati Uniti “per i suoi sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”, avendo “dato grande importanza all’impostazione di Obama ed ai suoi sforzi per un mondo senza armi nucleari. Obama da presidente ha creato un nuovo clima nelle relazioni internazionali. La diplomazia multilaterale ha riguadagnato centralità, evidenziando il ruolo che le Nazioni Unite ed altre istituzioni internazionali possono svolgere”, aggiungendo nella conclusione che “per 108 anni il Comitato ha cercato di stimolare proprio quella politica internazionale e di quegli atteggiamenti di cui Obama è il portavoce a livello mondiale”.
Il Nobel arriva a sancire, dunque, la condivisione della nuova politica statunitense. È un premio alle intenzioni, si è detto, ed è giusto definirlo tale. Il riconoscimento obbligherà in qualche modo la Casa Bianca a mantenere gli impegni presi; l’attenzione internazionale seguirà con ancor maggiore cura la diplomazia statunitense, per assicurarsi che il premio non sia stato dato a vuoto.
Ma c’è dell’altro, ed emerge chiaramente dalle dichiarazioni del Presidente del Comitato per il Nobel per la Pace Thorbjorn Jagland: “Non è una scelta rivolta al futuro, ma al simbolo che Obama rappresenta.” Il quintetto dei saggi di Oslo ha deciso di premiare Obama per tutto ciò di nuovo che incarna. Come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti della storia, l’ex senatore dell’Illinois apre il futuro del suo paese, e indirettamente del mondo intero, a nuovi orizzonti e nuove possibilità. Obama è un uomo di enorme carisma e incredibile appeal mediatico e, emblematicamente,  è già egli stesso il cambiamento di cui si fa promotore; per questa sua valenza simbolica si è deciso di investirlo del titolo.
Il cambio di rotta della politica estera statunitense sta confermando quanto promesso prima delle elezioni, lasciando presagire sviluppi lungo il sentiero della pace. In politica interna Obama sta godendo di minor fortuna per le sue riforme, ma agli occhi dell’opinione pubblica internazionale continua a rappresentare la possibilità di una nuova politica fatta di collaborazione e dialogo, lontana dalla guerra di culture che aveva caratterizzato l’amministrazione Bush.
Obama va incontro a difficoltà enormi. I problemi da affrontare, le soluzioni da trovare sono infinite e diverse tra loro. Deve stare attento a trovare compromessi, a mediare tra parti diverse. Per questo riceverà il Dalai Lama dopo la visita in Cina e non prima, per questo si impegna a portare avanti la lotta al terrorismo e il dialogo con il mondo arabo.
Gli ostacoli lungo il suo percorso sono tanti, dall’ostracismo interno alla riforma sanitaria e alle riduzioni di CO2 all’enorme incognita iraniana, ma Barack Obama sembra intenzionato a proseguire sul suo cammino. E il Nobel è lì a ricordargli la direzione da seguire.


Candid Camera TV Show

febbraio 27th, 2009 by Vincenzo Ruocco | No Comments

Candid Camera TV Show

Io non so cosa pensare di Barack Obama. Non sono in grado di dire se sia l’ennesimo mattatore visto alla TV, se sia il predicatore di quartiere ricco e potente dallo sguardo benevolo verso la “sua” gente o il talentoso uomo in grado di utilizzare la recitazione per ottenere consenso attraverso percorsi semantici dalle contaminazioni populiste.
Il discorso tenuto al Congresso solo pochi giorni fa sembra essere pervaso da un qualunquismo storicamente italiano, colmo di quelle banalità e delle verità già affermate che tutti sanno.
La strategia politica di Obama, la sua estetica propagandistica, la richiesta di credere, rendono questa nuova icona pop dalle previsioni messianiche l’unico paradigma morale attraverso cui declinare le varie forme dell’essere eticamente professionale e presentabile al popolo votante.
Quante persone, a livello planetario, sono state investite dal processo di persuasione mediatica che Obama ha saputo avviare? Dove poggiano le basi di questo rapporto fiduciario, spetta a voi il paragone con la gemella terminologia bancaria, intrecciato con l’avvocato di Chicago?
La risposta credo possa trovarsi nel pauperismo di capacità decisionale che abita il Palazzo, un edificio privo dei requisiti di agibilità al cui interno si muovono, come sciami di api impazzite, inetti strateghi privi del coraggio di liberarsi da quei legami di medievale consorteria che sono stati le basi delle nomine politiche e pubbliche. Ecco dunque paventarsi la corruzione di Sistema attraverso il posizionamento di precise pedine nello scacchiere.
L’immagine esteriore non corrisponde più alla realtà e, così come accadde a Roma nell’età tardo-imperiale, la grandezza dell’America appare come il simulacro di sé stessa, ombra lunga dell’american-dream assurto a simbolo di perfezione.
Obama asserisce di “modellare il nostro mondo”, parla di “un nuovo secolo Americano”, di una “nuova visione dell’America per il nostro futuro”. Chiudendo con “nella mia vita ho imparato che la speranza può essere trovata in posti improbabili; quella speranza che spesso giunge non dalle persone più famose e potenti, ma dai sogni e dalle aspirazioni degli americani, un popolo fuori dal comune”.
 

-President Obama’s Address: “In our hands lies the ability to shape our world for good or for ill”.
I know that for many Americans watching right now, the state of our economy is a concern that rises above all others… The impact of this recession is real, and it is everywhere.
But while our economy may be weakened and our confidence shaken; though we are living through difficult and uncertain times, tonight I want every American to know this:
We will rebuild, we will recover, and the United States of America will emerge stronger than before.
…The fact is, our economy did not fall into decline overnight. Nor did all of our problems begin when the housing market collapsed or the stock market sank. We have known for decades that our survival depends on finding new sources of energy. Yet we import more oil today than ever before. The cost of health care eats up more and more of our savings each year, yet we keep delaying reform. Our children will compete for jobs in a global economy that too many of our schools do not prepare them for. And though all these challenges went unsolved, we still managed to spend more money and pile up more debt, both as individuals and through our government, than ever before.
In other words, we have lived through an era where too often, short-term gains were prized over long-term prosperity; where we failed to look beyond the next payment, the next quarter, or the next election. A surplus became an excuse to transfer wealth to the wealthy instead of an opportunity to invest in our future. Regulations were gutted for the sake of a quick profit at the expense of a healthy market. People bought homes they knew they couldn’t afford from banks and lenders who pushed those bad loans anyway. And all the while, critical debates and difficult decisions were put off for some other time on some other day.
Well that day of reckoning has arrived, and the time to take charge of our future is here.
Now is the time to act boldly and wisely – to not only revive this economy, but to build a new foundation for lasting prosperity.  Now is the time to jumpstart job creation, re-start lending, and invest in areas like energy, health care, and education that will grow our economy, even as we make hard choices to bring our deficit down.
…The recovery plan and the financial stability plan are the immediate steps we’re taking to revive our economy in the short-term. But the only way to fully restore America’s economic strength is to make the long-term investments that will lead to new jobs, new industries, and a renewed ability to compete with the rest of the world. The only way this century will be another American century is if we confront at last the price of our dependence on oil and the high cost of health care; the schools that aren’t preparing our children and the mountain of debt they stand to inherit. That is our responsibility.
In the next few days, I will submit a budget to Congress. So often, we have come to view these documents as simply numbers on a page or laundry lists of programs. I see this document differently. I see it as a vision for America – as a blueprint for our future.
…Those of us gathered here tonight have been called to govern in extraordinary times. It is a tremendous burden, but also a great privilege – one that has been entrusted to few generations of Americans. For in our hands lies the ability to shape our world for good or for ill.
I know that it is easy to lose sight of this truth – to become cynical and doubtful; consumed with the petty and the trivial.
But in my life, I have also learned that hope is found in unlikely places; that inspiration often comes not from those with the most power or celebrity, but from the dreams and aspirations of Americans who are anything but ordinary.


Inauguration Day sulla National Mall

gennaio 23rd, 2009 by Filippo Chiesa | 2 Comments

Inauguration Day sulla National Mall

Alle tre di pomeriggio di sabato 17 gennaio 2009 – tre giorni prima della cerimonia di insediamento di Obama –, mi trovavo all’aeroporto John F. Kennedy di New York ad aspettare la coincidenza per Washington D.C., dove vivo da qualche mese e dove stavo tornando dopo un mese passato altrove. Tenevo ancora vive nella memoria le immagini della campagna elettorale e delle elezioni; non mi ero certo dimenticato dell’entusiasmo e della partecipazione che le avevano caratterizzate. Tuttavia, in quel terminal di aeroporto in cui tutti guardavano la CNN che mostrava il viaggio in treno di Obama verso la capitale, avvertii che ciò che era nato come movimento si stava trasformando in un nuovo, stabile spirito partecipativo. All’arrivo a Washington poi – tra la metropolitana e il quartiere nero di U Street – la sensazione mi venne confermata nel vedere il numero di ragazzi che d’abitudine avrebbero vestito magliette di Eminem e 50cent indossare invece, sopra a facce sorridenti e speranzose, cappellini con la scritta “Obama ‘08”.
La notte prima di Inauguration vado a letto presto, le immagini di Bruce Springsteen, Pete Seeger e Bono che cantano in onore di Obama ancora fresche negli occhi. La sveglia è fissata per le 6 di mattina. “So che è presto, ma se c’è gente che viene dal Kenya per assistere all’insediamento, vuoi proprio dire che è tanto difficile per noi svegliarci un po’ prima per arrivare a piedi alla National Mall?”, mi aveva detto la sera prima il mio amico Doug, giovane seminarista, che votò Bush per ben due volte, ma che nel 2008 ha deciso di sostenere Obama, perché “il paese ha bisogno di un rinnovamento”. Doug ha ragione, bisogna buttarsi giù dal letto alle 6 per trovare posto sui freddi prati davanti a Capitol Hill.
Esco di casa alle 6.45. E’ ancora notte; ma vi sono fiumi di persone che camminano a passo svelto verso sud. Entro in un bar a ripararmi dal gelo per aspettare Doug, che è rimasto bloccato a una fermata della metro dove tutti i treni sono troppo pieni per salirvi sopra. Il bar è stracolmo di persone di ogni età, bianchi e neri. Sui loro volti, si può intuire la speranza e l’eccitazione che li ha spinti a venire da lontano per assistere al senatore dal sangue keniota che a 47 anni sta per diventare presidente degli Stati Uniti.
Più tardi, siamo sulla National Mall con di fronte Capitol Hill, lontano ma ben visibile, insieme a centinaia di migliaia di persone. La temperatura è sotto zero. C’è gente che è arrivata alle 2 o alle 3 di mattina; ora stanno raggruppati sotto coperte e giacconi per tenersi caldo l’uno con l’altra. Gente che balla alle musiche introduttive della banda per muoversi e riscaldarsi. I volontari per Obama che distribuiscono snack gratuiti e ci salutano con un sorriso, “Good morning! Welcome to Inauguration”. E’ una folla bella e paziente. Una folla venuta da lontano perché ha voglia di partecipare all’amministrazione della cosa pubblica; non in protesta contro qualcuno, ma finalmente in sostegno di colui che aveva lanciato loro la sfida del cambiamento e che adesso si trova nella posizione di realizzarla. Le parole di Obama nel discorso della vittoria elettorale mi riecheggiano in testa “the fundamental truth that as out of many, we are one; that while we breath, we hope”.
Aspettiamo pazienti il giuramento e il discorso. Di fianco a me, un uomo nero, alto, in divisa militare, tiene in braccio il figlioletto che vuole arrivare a vedere oltre il mare di folla; dall’altro lato due giovani studenti bianche ridono e scherzano: non conoscono quasi nessuno dei politici che escono da Capitol Hill, inquadrati sui maxi-schermi; ma conoscono il presidente e va bene così perché politica e ideologismi c’entrano poco con questa folla.
Siamo alla fine dell’attesa. Il presidente della Corte Suprema, John Roberts, legge la formula del giuramento ad Obama, il quale – emozionato, senza darlo a vedere – inizia prima del dovuto; poi si blocca, avvertendo che Roberts ha invertito l’ordine di una frase; nessuno capisce più dove quel “faithfully” vada messo; Michelle sorride, porgendo la Bibbia al marito. “So help me God”. Le difficoltà si sciolgono nel sorriso di Obama e nelle note allegre della banda militare. La folla, che riempe la National Mall dal Capitol fino al Washington Monument e oltre, applaude e festeggia.
Inizia il discorso di insediamento. Obama incoraggia a rimanere fedeli agli ideali dei padri costituenti e ad unirsi negli sforzi per far rinascere l’America in una nuova era di responsabilità e di servizio pubblico; ricorda appena la questione dei diritti civili, ma lo fa con eleganza poetica:
“ This is the meaning of our liberty and our creed, why men and women and children of every race and every faith can join in celebration across this magnificent mall.
And why a man whose father less than 60 years ago might not have been served at a local restaurant can now stand before you to take a most sacred oath.”
Cita Washington e conclude spronando i concittadini ad affrontare le fredde correnti della crisi attuale con virtù e speranza per passare alle generazioni future quella libertà ricevuta in dono dalle generazioni passate.
Mi colpisce il patriottismo che Obama mostra nel discorso. Mi dispiaccio per la nostra Italia, dove non ci può essere patriottismo finché non vi sarà un riconoscimento pubblico una volta per tutte del torto e della ragione nella guerra civile tra fascismo e resistenza. Il patriottismo americano di Obama è ben fondato sulle ragioni della lotta contro la schiavitù e alla segregazione razziale. “Siamo usciti più forti da queste battaglie”. Senza ambiguità. Si sa chi aveva ragione. L’amore patriottico è quello di Abraham Lincoln e Martin Luther King, Jr. , coloro che si sono battuti per creare una “more perfect union”. Mi chiedo perché sia così difficile da noi fondare un patriottismo fondato sulla lotta contro l’autoritarismo fascista e le leggi razziali, e in favore della costituzione repubblicana.
Ma, dopo qualche minuto, prevale in me di nuovo l’hic et nunc, e passa l’amarezza. Sono felice di essere a …


Nazione e Democrazia: l’importanza dei simboli

gennaio 20th, 2009 by Rocco Polin | 1 Comment

Nazione e Democrazia: l’importanza dei simboli

Traumatizzati da vent’anni di nazionalismo fascista, stretti tra l’universalismo cattolico e l’internazionalismo comunista, delusi dal una Repubblica di cui c’era ben poco di cui essere fieri, figli di un Risorgimento a suo modo tradito, noi italiani abbiamo rinunciato all’orgoglio nazionale. Quello di cui non ci siamo subito accorti è che in questo modo rinunciavamo anche al fondamento della nostra democrazia: il senso di appartenenza a una comunità, di condivisione di un destino.
Ricordo ad esempio quando la Senatrice Menapace, allora in lizza per la presidenza della commissione Difesa (poi andata all’indimenticato senatore De Gregorio), propose di fare a meno delle frecce tricolori. Ciò che la Senatrice sembrava non capire è che le frecce, cosi come l’inno nazionale, la bandiera, la parata del 2 Giugno e il corteo del 25 Aprile, sono simboli e rituali essenziali per una comunità politica e che solo in base al senso di apparenza a questa comunità si giustificano poi lo stato sociale, le tasse che lo finanziano, l’istruzione pubblica, e il sistema sanitario nazionale.
A giudicare dalla cerimonia d’inaugurazione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America, Barak Hussein Obama, queste riflessioni sul nesso tra nazionalismo e democrazia e sull’importanza dei simboli dovevano essersele fatte anche i padri costituenti americani.
Certo, di fronte alle venerabili istituzioni della madre patria britannica o ai gloriosi vessilli rivoluzionari della République, i simboli inventati della democrazia americana potrebbero persino apparire un po’ kitsch: gli edifici neoclassici di una capitale nata dal nulla, quell’aquila dalla testa bianca che doveva originariamente essere un tacchino, i motti in latino di un Paese nato l’altro ieri… nulla dovrebbe impressionare noi che possiamo vantarci di governare la città eterna, legiferare da quegli stessi sette colli da dove un tempo si governava un impero. Eppure…
Eppure quando questa mattina Barak Obama ha giurato di difendere la Costituzione sulla bibbia che appartenne a Lincoln, quando la folla ha riempito ancora una volta la National Mall come ai tempi delle grandi marce per i diritti civili, quando Aretha Franklin è apparsa con un cappello da sballo, quando la telecamera ha indugiato sul Lincoln Mermorial e sul Washington Monument, quando tutta Berkeley raccolta davanti al megaschermo per seguire la cerimonia si è messa la mano sul cuore alle prime note dell’Inno Nazionale…. be’ c’era da avere i brividi.
Tornando a casa ho ripensato alle miserie di casa nostra, al colpevole oblio in cui abbiamo lasciato scivolare il Risorgimento e i suoi eroi, alle inutili fatiche del Presidente Ciampi per suscitare negli Italiani quel senso di appartenenza e di orgoglio senza il quale la nostra democrazia, la nostra capacità di accogliere nuovi cittadini immigrati e la nostra partecipazione alla comunità internazionale non possono che essere imperfette.
Ho pensato infine all’Unione Europea. Al suo motto che nessuno conosce, alla sua festa che nessuno celebra, alla mancata menzione di Inno e Bandiera in un trattato nemmeno più definito “Costituzione”… Se vogliamo davvero costruire l’Unione Europea, una comunità politica in cui identificarci e di cui essere fieri tra le tante lezioni che possiamo trarre dall’esperienza americana quella sull’importanza di simboli e rituali non è certo tra le meno importanti.
Perché, dopo tutto, la nazione è una comunità immaginata.


Yes he did, yes (he) will?

dicembre 12th, 2008 by Valentina Clemente | No Comments

Yes he did, yes (he) will?

Ci aveva stupito iniziando a creare la sua squadra di governo poche ore dopo la vittoria contro John McCain: un fenomeno, una persona pronta a lavorare per il paese, pronto a formare un gruppo efficace, preparato ma soprattutto esente da ogni tipo di scandalo. Perché lui, pulito, lo è sempre stato, nonostante le varie accuse rivoltegli dal rivale repubblicano durante la feroce campagna elettorale. Ma si sa, pur di vincere si dice di tutto e di più.
 
Sembrava troppo bello che per il primo presidente nero eletto non ci fossero problemi.
Puntuali, però, le prime difficoltà sono arrivate e riguardano proprio il seggio al Senato occupato fino a poco tempo fa dallo stesso Obama.
Rod Blagojevich, infatti, governatore dell’Illinois, è stato arrestato il 9 dicembre con l’accusa di corruzione, per aver cercato di vendere il seggio del Senato Usa lasciato libero dal suo compagno di partito, il presidente eletto Barack Obama appunto. Questi, però, come dichiarato dai procuratori federali, ha immediatamente preso le distanze dal governatore, peraltro già indagato su altre questioni.
 
Questo arresto, sine quaestio, ha sicuramente creato un forte livello di imbarazzo al presidente eletto che si insedierà alla Casa Bianca tra circa un mese.
Parlando ai giornalisti dopo un incontro con l’ex vicepresidente democratico Al Gore, Barack Obama si è detto rattristato dalla vicenda di Blagojevich, aggiungendo di non aver avuto contatti “con lui né con il suo staff” e di “non essere al corrente di ciò che stava avvenendo”. Ha definito, inoltre, questo avvenimento come frazione di “un giorno triste per l’Illinois”.
Nella sua prima conferenza stampa dopo lo scoppio dello scandalo che ha travolto Rod Blagojevich, Barack Obama è apparso molto rilassato e sicuro di sé. Il presidente eletto ha risposto senza battere ciglio alle domande dei giornalisti. Si e’ detto “assolutamente certo” che né lui, né “alcun suo rappresentante” avesse mai discusso la scelta del suo successore con il governatore dell’Illinois accusato di aver cercato di vendere il seggio da lui lasciato vacante in Senato.  Secondo i magistrati, però, il governatore avrebbe anche minacciato ritorsioni contro il quotidiano Chicago Tribune, in alcuni editoriali molto critico nei suoi confronti.
Blagojevich, 51 anni, e il suo capo di gabinetto, John Harris, sono stati denunciati per cospirazione per aver violato leggi federali commettendo concussione. Entrambi sono stati prelevati dalle loro abitazioni a Chicago e presi in custodia cautelare. In Illinois, la legge permette al governatore di selezionare un successore quando c’è un seggio vacante per un periodo di medio termine in Senato.

Obama aveva dato le dimissioni dal Senato poco dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 4
novembre. Prima grossa difficoltà da affrontare da Barack Obama che, come se non bastasse, ha un altro enorme problema da risolvere: i colossi dell’auto sono in forte difficoltà, il piano di salvataggio federale non è stato approvato..con conseguenti forti perdite di posti di lavoro.  
Se in patria il presidente eletto sembra quasi aver perso l’aureola di “profeta” inizialmente attribuitagli, in Europa sembra mantenere elevato il livello dei consensi.
Il presidente della Commissione europea Jose’  Manuel Barroso ha, infatti,  rivolto all’amministrazione statunitense l’esortazione“Yes you can“: Barroso ha, infatti, chiesto agli Stati Uniti di collaborare fortemente con l’Unione europea per promuovere il pacchetto clima, approvato proprio oggi al termine del consiglio europeo. Obama sarà in grado di ascoltare?
 
Una piccola nota di colore: il 20 gennaio prossimo, il presidente eletto presterà giuramento declinando per intero le proprie generalità, e dunque come “Barack Hussein Obama”, con l’aggiunta quindi del secondo nome impostogli dal padre, nativo del Kenya: tale nome ha causato all’afro-americano numerosi problemi nella recente campagna elettorale, ha procurato al presidente americano eletto numerosi grattacapi, sollevando da parte degli avversari repubblicani accuse di filo-islamismo e insinuazioni sulla sua reale fedeltà  ai valori occidentali.
 
Insomma, tra inconvenienti economici, politici e pure d’identità la domanda è la seguente: Obama did it in November, but will he make it in December?
 


America: Notte Magica

novembre 9th, 2008 by Silvia Santinello | No Comments

America: Notte Magica

It was amazing, simply amazing. Cosa? Tutto. Non parlo solo dell’elezione di Obama in se, del suo discorso capace di far venire i brividi anche a chi non l’ha mai conosciuto prima, e del fatto che il 4 novembre sarà una data che i miei figli (se ne avrò) studieranno a scuola; a quel punto sarò orgogliosa di dire loro “io ero lì e ho seguito passo dopo passo questo evento epocale.” Quello che mi ha maggiormente colpito di ieri notte è il fatto che solo ieri, da quando Obama è stato annunciato presidente (io ho seguito tutto tramite la CNN), ho capito davvero cos’è l’America. Per questo ho parlato di notte magica…ma andiamo per ordine.

LA GIORNATA ELETTORALE
Affronto la giornata del 4 novembre come una delle tante tipiche giornate da college californiano, ma da quando mi sveglio capisco che c’è qualcosa di diverso. A colazione incontro Nnamdi, studente Nigeriano-americano che vive con me all’International House della San Jose State University. Un sorriso smagliante e l’adesivo I voted sul petto. 28 anni e prima volta al voto, perché anche lui questa volta vuole esserci; ha fatto 5 mesi a martellarmi su Obama e per lui era arrivato il grande giorno. Incontro anche James, che non ho capito perché non è riuscito a votare anche se avrebbe voluto, e Kyle, che non ha votato perché dice che essendo libertarian non se la sente di votare Obama, ma dall’altra parte non si riconosce nemmeno in McCain e soprattutto nella sua vice. James e Kyle sono americani bianchi come tanti, diversi dai fanatici della mia classe di Bob Rucker sul rapporto tra i media e le elezioni americane.

Vado a lezione e incontro altri ragazzi con l’adesivo I voted appiccicato alle guance. La sorte vuole che è proprio il mio turno per presentare alla classe il news quiz (a ogni lezione uno studente scrive un quiz per tenerci aggiornati su quello che accade nel mondo), compito non facile considerando le “notiziette” della giornata…ma la mia prof ha apprezzato come non l’avevo vista con nessun altro (e si che non perde occasione per demolire i miei servizi) e questo non può che rendermi un pochino orgogliosa.

Vado alla classe successiva, quella di pubbliche relazioni incontro il professore fuori dall’aula che mi dice “no class today, go and vote!” (se potessi…). Così salgo al dipartimento di giornalismo per cercare di sistemare l’audio del mio ultimo servizio. Incontro il mio amico Harvey, americano ma mix di diverse etnie, mi dice che ha votato per le propositions ma non per il presidente perché nessuno dei due lo convinceva, Obama in particolare gli sembra troppo costruito, quasi finto e poco onesto. Mentre mi aiutava con il mio servizio seguiamo insieme le prime immagini della CNN…sembra che Obama sia in vantaggio e si stia accaparrando la Pensylvania…non riesco a capire di che tipo di proiezioni si tratta, quanti voti hanno spogliato etc…mi stupisco ancora di più quando è dato in vantaggio in Florida.

Alle 6 avrei dovuto avere la classe di Rucker, ma avevamo deciso di sospenderla già da 2 settimane. A me come ad altri miei compagni di classe che abbiamo famiglie lontane o amici che si interessano poco di politica sarebbe piaciuto seguire l’election night in classe…ma abbiamo preferito convincere Rucker a trascorrere questo momento storico nel posto dove doveva stare, che non è in classe ma a casa sua con la madre 95enne e la zia 94enne, entrambe afro-americane che non avrebbero mai pensato di vivere tanto a lungo da vedere uno come loro ricoprire la carica più importante al mondo. C’era pure un inviato del San Jose Mercury news a raccontare le emozioni di casa Rucker e delle due commosse nonnine. Non vedo l’ora di leggere il suo pezzo personale sulle elezioni e di sentire le sue impressioni in prima persona, ma essendo martedì prossimo la vacanza del Veteran’s day dovrò aspetttare fino al 18.

Così torno all’International House consapevole che dovendo essere in aeroporto alle 4 di mattina e avendo ancora tutto da preparare andare a una delle feste dentro o fuori dal campus non sarebbe stata una buona idea. Così ho seguito la maggior parte della diretta nella TV room dell’I-house. All’inizio siamo solo in 4-5 con altri residents che girano e danno un’occhiata alle proiezioni. La vittoria di Obama sembra sempre più probabile…schiacciante in Pensylvania, in vantaggio in Ohio e testa a testa in Florida, stati che non mi sarei mai aspettata di vedere tutti e tre colorati di blu anche perché erano i tre stati con il maggior numero di electoral votes tra quelli in bilico. Capisco che forse mi sbagliavo riguardo ai sondaggi, come mi sbagliavo anche riguardo all’America.

Intanto scrivo un po’ di mail per l’italia finchè non alzo gli occhi e leggo che la CNN dà l’ufficialità di Obama president-elect (sarà nominato presidente solo il 20 gennaio). Ancora non capisco se si tratta di una proiezione o di una certezza, finchè non vedo McCain accingersi a pronunciare il suo discorso e mi vengono in mente le parole di Rucker “at first the loser will come out and congratulates with the winner,” e capisco che è vero, che Obama ce l’ha fatta, che l’America, per ricominciare ha scelto lui. Tutto il resto è attesa per il discorso del nuovo presidente, parola che a me fa ancora strano associarla a lui forse perché come Severgnini ho sempre detto “se non lo vedo non ci credo.”

Al momento del discorso di Obama nella TVroom dell’Ihouse c’erano più di 50 persone tra residents ed esterni. Americani, alcuni molto esaltati e anche commossi tra cui lo stesso Nnamdi e Josh, un altro che 10 mesi fa aveva cominciato a farmi conoscere Obama quando ancora mi chiedevo perchè i giovani californiani erano così colpiti da questo personaggio “diverso”. Ma ci sono anche tanti studenti internazionali, alcuni che hanno sempre seguito Obama, altri che capiscono la portata storica dell’evento e vogliono semplicemente esserci in qualche modo, seguendolo in diretta ed esprimendo le loro emozioni, come …


Black-America: natività o resurrezione?

novembre 7th, 2008 by Antonio Tiseo | 2 Comments

Black-America: natività o resurrezione?

Quando il reverendo Martin Luther King III ha guadagnato il podio improvvisamente il brusìo dell’assemblea si è trasformato in silenzio. Silenzio di tale gravità che non c’è stato bisogno di alcuna didascalia a fronte: il linguaggio delle emozioni fa molto spesso a meno della voce.
Le follia ed il luccichio di Chicago erano merce televisiva, da sacrificare alla storia in luogo di quel silenzio privato che sarebbe rimasto per sempre solo nei cuori degli astanti che avessero avuto la premura di raggiungere Auburn Avenue.
Si consumava tra le mura di Ebenezer qualcosa di più grande di una celebrazione elettorale: il primo vero avvento laico della storia afro-americana si concludeva con una natività in cui elementi sacri ed elementi profani si fondevano in un originale sincretismo di spiritualità. L’incedere ieratico e le parole iniziali di saluto, rotte dall’emozione del primo presidente nero, erano infatti l’incipit di un evento messianico che si materializzava lì, in quel luogo, per non ripetersi mai più altrove.
Uno spettatore bianco e  poco attento probabilmente avrebbe focalizzato la sua attenzione sulla gioiosa spensieratezza e sull’esplosione di felicità nella platea. A livello sensoriale siamo naturalmente più attratti dalla diversità, dall’epifenomeno prodotto da quel mondo povero e colorato cui guardiamo in genere attraverso la distaccata simpatia di una lente inconscia chiamata pregiudizio. Sulla terra non esiste niente di più errato delle nostre prime impressioni e niente cui siamo più inclini a dar ascolto. Farlo anche questa volta tuttavia ci avrebbe privato della possibilità di osservare da vicino la silenziosa rivoluzione nascosta nelle parole di chi, ieri notte, ha calcato il podio dal quale Martin Luther King era solito rivolgere alla comunità i suoi sermoni.
Oltre il canovaccio e l’immancabile retorica di circostanza, non c’è stata la tanto predicata conversione alla religione obamita.  La natività tanto agognata è stata celebrata in un comunità divisa: ancora una volta spaccata. Seduta accanto alla faglia che segna l’identità e che divide l’esser nero dal non esserlo, contemplandone i limiti.
Non è stato un qualcosa di immediatamente percepibile o immanente: la litania adulatoria è rapidamente mutata in una sorta di catarsi collettiva per molti incomprensibile, per poi ritornare rapidamente ai toni di gioiosa felicità. In quel brevissimo frangente e nel mutismo di buona parte della folla, qualche parola ha colpito nel segno. I termini evangelici hanno un po’ mascherato la reale entità dell’eresia, ma la comunità, seppur in percentuali diverse si è subito divisa.
Qualcuno ha sostenuto che non basta essere “nero” per definirsi un “nero americano”.
Capire la cultura nera non significa dunque andare alla ricerca di una qualche supposta essenzialità etnica, ma rintracciare i diversi percorsi della grande diaspora e delle lotte per i diritti che ne sono seguite. All’interno di queste ultime bisogna ritrovare le proprie radici. Radici che Barack , secondo alcuni, non può trovare.
Obama non è nero non perché la madre sia meticcia : Obama non è nero perché non ha lottato. Egli non ha nel patrimonio genetico la ribellione, la volontà di risorgere, di liberarsi dalle catene della propria condizione. Non ha la retorica e la foga del predicatore battista del sud: è forbito, misurato, estremamente abile nel gestire le emozioni, né sente il bisogno di gridare in giro “reparations now!”. Parla all’alta middle class Wasp con il linguaggio che le è consono, non certo quello di Jesse Jackson e del suo street gospel. Possiede un Ph.D. come lo 0.02% della comunità nera americana e non ha nel sangue l’onta della schiavitù. Il padre era un uomo libero ed ha scelto gli USA liberamente, come luogo ove allevare la prole, colpevolmente dunque per costoro, una sola generazione fa. Barack è null’altro che l’ennesima esca avvelenata, l’ennesimo inganno di una società che dei neri ha bisogno, ma che non è disposta a pagare il prezzo della loro emancipazione.
Emancipazione di cui l’intellighentzia bianca è espressione lampante. White, wealthy and wacky: Emory e Georgia Tech, unite due miglia più giù nella taverna di Manuel, a festeggiare un candidato nero che potrebbe essere loro insegnante, che parla la loro lingua ed incarna i loro sogni. I sogni di un mondo rinnovato, in cui anche un coloured può imporsi sugli errori di una generazione bianca, fallace ed altrettanto americana, con la sola forza della speranza.
Peccato che a credere in lui siano stati prima i bianchi. Peccato che, nell’America del sogno multirazziale, ci siano state due feste diverse per un solo candidato.
Peccato che nel giorno della festa Martin Luther King non abbia sorriso vedendo il suo popolo unito e certo della propria identità. Il suo volto non esprimeva la gioia della natività, ma il travaglio di un nuovo calvario e la speranza in una nuova resurrezione. Il suo silenzio sul podio è il silenzio di chi, deluso, tornerà alla ricerca. Tornerà a scavarsi dentro per capire cosa significhi essere nero oggi. Ripenserà con dolore alle parole paterne: “Free at last, free at last, great God Almighty, we are free at last” con la coscienza di chi ha compreso di non essere ancora libero. Non puoi esser libero se prima non sei. E non puoi essere, se prima non sai cosa sei.
Stanotte mi piacerebbe proprio sapere se quei giovani colti e festanti ci pensano, se solo una volta nella vita se lo sono mai chiesto.


Paura e Speranza a Las Vegas

novembre 6th, 2008 by Rocco Polin | No Comments

Prefazione
Eravamo in piedi dalle quattro del mattino, avevamo battuto i sobborghi di Las Vegas palmo a palmo, bussato a migliaia di porte, trascinato ai seggi centinaia di elettori, eravamo esausti ma (come direbbero nella pubblicità dell’Amaro Montenegro dopo aver recuperato l’anfora)…  ce l’avevamo fatta!
Ci abbracciammo piangendo, coscienti di aver fatto fino in fondo la nostra parte e di essere stati protagonisti oltre che testimoni di un momento storico: Barak Obama era il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti d’America.
Uscito a respirare la fresca aria serale del deserto del Nevada non potei trattenermi dal pensare a come era cominciata quell’incredibile avventura: tutti nudi in un minivan bianco da 12 posti sulla strada tra San Francisco e Las Vegas.
Primo Capitolo
Siamo partiti il venerdì pomeriggio, Halloween. Un centinaio di ragazzi di Berkeley e Stanford desiderosi di andare a combattere la dove la battaglia era cruciale, dove le elezioni si vincono o si perdono, dove non si fanno prigionieri, dove ci si gioca la Casa Bianca per una manciata di voti: nei cosiddetti swing states.
Negli Usa infatti il presidente non è eletto direttamente dal popolo bensì da un collegio di grandi elettori scelti con sistema maggioritario dai vari stati americani. Chiunque ottenga la maggioranza in California, per esempio, ottiene 55 grandi elettori, a prescindere dall’ampiezza della vittoria. L’obbiettivo, in questo gioco dalla venerabile tradizione ma non per questo meno demenziale, è arrivare a 270. Alcuni stati sono considerati “certi”, la California è democratica, l’Oklahoma repubblicano. La battaglia si combatte veramente solo in pochi “battleground states”, tra questi il Nevada. E li noi eravamo diretti. A Las Vegas per la precisione.
Las Vegas appare a chi arriva in macchina di notte come un miraggio: una striscia di luce in un deserto altrimenti buio e spopolato (immagino che questa del miraggio sia la metafora più abusata e scontata della storia di LV ma come tutti i luoghi comuni e le frasi fatte è talmente vera da risultare irresistibile). Attraversando la strip diretti al nostro albergo, alle quattro del mattino, esausti dopo 11 ore di viaggio, ricordo di aver pensato, con una certa dose di stupore “cazzo ma si vota anche a Las Vegas”.
L’affermazione è, mi rendo conto, particolarmente cretina. Ciò che mi ha colpito però è stata la piena realizzazione di che paese incredibile e diverso siano gli Stati Uniti e di conseguenza di che affare tremendamente complicato siano le elezioni presidenziali in questo paese.
Durante la lunga campagna elettorale i candidati devono sapersi rivolgere contemporaneamente alle lobby di Washington, ai neri di Chicago, agli ispanici del New Mexico, agli studenti universitari e ai lavoratori del Mid West. Niente di nuovo, mi rendo conto. Quella mattina alle quattro però mi sono chiesto se nel costante esercizio di parlare a tutti questi gruppi diversi Obama si sia mai ricordato di chi lo guarda parlare seduto al casinò del Venetian Hotel circondato da finiti gondolieri.
Secondo Capitolo
Lo scopo del nostro lavoro non consisteva tanto nel convincere gli ultimi indecisi quanto nell’assicurarsi  che tutti i nostri elettori andassero a votare. Ho personalmente bussato alla porta di Virginia Baker (2234, Parkdale Avenue) quattro volte in pochi giorni. Domenica mattina le ho ricordato che le elezioni si sarebbero tenute il martedì e le ho spiegato dove votare. Lunedì le ho lasciato un volantino sulla porta. Martedì alle 5 di mattina lo ho lasciato un secondo volantino sulla porta, alle 11 sono tornato ma non era in casa, alle 17 finalmente si è liberata della mia ossessiva presenza assicurandomi di essersi recata al seggio in mattinata.
Battendo palmo a palmo i sobborghi settentrionali di Las Vegas non ho potuto fare a meno di pensare come in fondo l’America sia tutta uguale, stereotipo e caricatura di se stessa. Casette finte di compensato, arredate per corrispondenza con la rivista “American Verandas”, vie dai nomi del cazzo tipo “New Miracle”, SUV parcheggiate davanti a casa con il loro bravo bumper stiker “honor student parent” o “go turtles!” e magari la foto di famiglia sul cruscotto. Quelle foto orrende di ragazze sovrappeso con un sorriso enorme e il vestito del prom che impestano tutti salotti americani dalla Florida al Nevada.
Mi rendo conto di dire esattamente l’opposto di quanto sostenevo giusto pochi paragrafi fa parlando di un paese incredibilmente diverso e vario from sea to shining sea. Non per questo ho intenzione di conciliare le due affermazioni o di sceglierne una sull’altra. Gli americani sono tutti uguali e diversissimi tra loro, con buona pace della logica aristotelica. Obama lo ha capito, ed anche per questo ha vinto le elezioni. In California, in Massachusetts, in New Mexico, in Pennsylvania e si, persino in Nevada.
Terzo Capitolo
Martedì sera, dopo essere passato per l’ultima volta dalla signora Virginia Baker, sono tornato al quartier generale: la casa di una coppia gay trasformata ormai da mesi in bivacco permanente per i volontari democratici. Il numero di volontari, di ore di lavoro, di volantini, di computer e di telefoni mobilitati in questi ultimi giorni in una piccola frazione di Las Vegas mi ha dato un’idea di che impresa enorme sia stata la campagna elettorale.
È opinione comune in America che ci sia un solo lavoro che ti prepara a quello di Presidente degli Stati Uniti: la campagna per diventare Presidente degli Stati Uniti. È in effetti un lavoro lungo e massacrante, condotto in tutti e 50 gli stati, in cui bisogna sapersi circondare della gente giusta, dimostrare carisma, capacità di leadership, riflessi pronti e nervi d’acciaio. Un’impresa milionaria che Barak Obama ha gestito in modo esemplare convincendo in questo modo gli Americani di avere le qualità per diventare Presidente.
Erano ormai le 6 ora del Nevada quando abbiamo parcheggiato il pulmino (aka Bang Bus) davanti al quartier generale e ci siamo precipitati davanti alla Tv. Erano le 10 eastern time, da noi mancava ancora un’ora ma sulla costa est alcuni stati avevano già cominciato il conteggio. Tutto filava liscio, il New Mexico e la Pennsylvania erano nostri, la Florida e l’Indiana promettevano bene. Quando la Virginia si è colorata di blu sulla mappa siamo esplosi in un urlo di gioia. …


What kind of change will we see?

novembre 6th, 2008 by Filippo Chiesa | No Comments

What kind of change will we see?

Barack Hussein Obama sarà il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. La vittoria è netta. Quando McCain sale sul palco a Phoenix, Arizona, per congratularsi con il suo avversario, tutti si svegliano dal sogno per scoprire la realtà. Sì, è successo davvero.
La festa esplode in varie parti del paese. Esco di casa a Washington D.C., e la città sembra ancora inebriata, quasi incredula. In qualche minuto, migliaia di persone – giovani e anziani, bianchi e neri, gay e etero – si riversano per le strade, cantando ballando urlando. Si radunano davanti alla casa bianca, come se volessero vedere Obama trasferirsi nella residenza presidenziale con tre mesi di anticipo. Sì, è successo davvero.
“I can see no changes … we ain’t ready to elect a black president” cantava il rapper Tupac in un famoso pezzo del 1995. In questa notte di autunno – 4 novembre 2008 – tutto cambia. Un America nuova, una società in evoluzione, elegge un presidente afro-americano che promette di trasformare il paese. Sì, tutto ciò è successo davvero. Il sogno assume un sapore di storia. Jesse Jeckson – il primo uomo di colore a presentarsi a una elezione presidenziale negli Usa – scoppia a piangere mentre ascolta il discorso di Obama a Chicago. Ciò che Obama aveva promesso ha iniziato ad avverarsi: la vittoria elettorale è di per sé una parte della trasformazione, una parte del “change we can believe in“.
Tuttavia, le trasformazioni economiche, sociali e politiche promesse dal candidato democratico saranno difficilissime da compiere. Obama prenderà le funzioni presidenziali in uno dei momenti peggiori della storia americana, con una crisi finanziaria non affatto risolta e due guerre mai terminate. Eppure Obama dice che lavorerà per cambiare l’America e “dopo l’America, il mondo intero“. Ma che parte del cambiamento annunciato si realizzerà con una presidenza Obama? What change will we see?
L’America probabilmente cambierà corso d’azione nelle politiche economiche e nella politica estera. Una regolamentazione più attenta della finanza sostituirà il liberismo economico attuale. All’estero, la politica del regime change verrà rimpiazzata da criteri più prudenti per l’intervento armato. Ma questi cambiamenti saranno tali da cambiare “l’America e il mondo” come promesso da Obama?
Probabilmente no. Purtroppo, Obama dovrà confrontare le sue proposte con una realtà che appare ogni giorno più dura. Il fatto che un leader visionario debba confrontarsi con la realtà è d’altra parte una fortuna, che previene i pericoli provenienti da un idealismo sfrenato. Obama non cambierà il mondo. Molte delle sue politiche saranno meno audaci di ciò che gli elettori si aspettano: per alcuni, il risveglio dalla sbornia elettorale sarà una delusione.
Tuttavia, Obama ha già cambiato l’America per il modo in cui ha vinto il confronto elettorale. Una nuova generazione ha ritrovato l’entusiasmo di partecipare, di lavorare duro per il proprio paese. Una nuova generazione ha riscoperto la bellezza e l’orgoglio di essere americani. Mai dai tempi di John F. Kennedy così tanti giovani sono apparsi pronti ad affrontare difficoltà e sfide future. Obama ha risvegliato quello spirito di sacrificio che Kennedy aveva sintetizzato nell’esortazione fatta ai suoi sostenitori: “Non chiedetevi che cosa il governo possa fare per voi. Chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese“. Immaginatevi quanti problemi potremmo risolvere se riuscissimo a creare uno spirito simile nella nostra Italia.
L’altra trasformazione che è già cominciata è quella dell’ascolto. Obama commetterà errori durante il suo mandato. Ma sarà un presidente con la capacità di ascoltare anche chi non la pensa come lui. Nel suo discorso di vittoria ha ricordato che ci saranno momenti di disaccordo.”But I will always listen to you, especially when we disagree”.
La novità di un’Amministrazione Obama non consisterà forse tanto nelle politiche che verranno adottate, quanto nella capacità di ascoltare e di ispirare. Nella capacità di imparare dagli errori. Una qualità che dopo otto anni di Bush, l’America sembra finalmente avere riscoperto.



Ultimi commenti

Lista articoli per mese