Ce n’è per tutti

dicembre 4th, 2008 by Miša Capnist | 13 Comments

Ce n’è per tutti

Fin dalla prima infanzia mi sono sempre – sempre!,  sentito dire da mia madre: “non si chiede scusa”. A prima vista sembra una dichiarazione tracotante, portatrice di quella sana insolenza arma del viveur. Leggendo fra le righe, il teorema denuncia una spiazzante chiarezza, e si confuta, come tutti i dettami dell’educazione, grazie ad un tranchant: non metterti nella condizione di doverti scusare. Non passare davanti alle persone chiedendo scusa: passa da dietro. Non scusarti quando commetti un errore: evitalo. Prevenire il disagio altrui piuttosto che causarlo, chiedere piuttosto che imporsi, presentare un avvenimento come dato.
Così come quando il marciapiede su cui si passeggia è deserto, e ci si sente urtare da un passante, inutile che questi si profonda in formali gorgheggi di scuse: non avresti dovuto farlo e basta. Point barre.
A Parigi spesseggiano accadimenti di non prevenzione del fastidio e, anzi, con l’inverno che ormai ha sfondate le porte, i “pardon“, quando ci se li sentono rivolti, sono veri e propri buffetti sul naso ghiacciato.  Oppure accusi letteralmente il colpo e arrossisci di collera.
Non sono solo le bocche della metropolitana a vomitare orde di barbari, ma anche gli ingressi dei negozi, i cafés, i musei, le strade, le automobili, i parcheggi delle biciclette a libero servizio.  Parigi è un inferno. E non fatico affatto ad immaginarmi questo popolo nordico che, qualche anno fa, coperto da pelli d’orso, ed accompagnato da urla disumane cercava di distruggere le dorate aquile romane simbolo dell’Impero.
Una diffusa villania preventiva aleggia nella città dell’Amore. L’antipatia gratuita che sempre si riconosce ai francesi, in questo dicembre viene acuita dalle raffiche di vento, dalla neve che ancora non fiocca abbastanza per farci tacere tutti col piacere della contemplazione, dalla crisi economica e dal loro cattivo gusto.
Mi compiaccio, a titolo di ricercatore qualitativo e quindi soggettivo, nel riportare il frutto dei miei studi sociologici chiarificati in due esempi di vita vissuta.
La settimana scorsa telefono ad un teatro in cui non avevo mai messo piede di cui non conoscevo la sala. Volevo passare una serata in compagnia, e penavo di invitare un’amica a vedere una nuova commedia che vede implicato nel ruolo principale un ragazzo uscito dalla nostra stessa accademia. Chiamo per reperire le informazioni di cui sotto.
Informazioni sulla prenotazione, sulla conformazione fisica della sala, se si tratta di un teatro all’italiana o alla francese, per avere due poltrone vicine, per sapere quali fossero dei buoni posti. La réceptionniste, sbuffante come una teiera inglese o tout court arrogante come una réceptionniste, in brevissimo tempo si spazientisce e mi propone due poltrone, l’una dietro l’altra, facendosi sfuggire che la sala sarebbe stata quasi vuota – e ho capito bene, perché vuota si dice vide, e piena si dice pleine, o complète: non posso essermi sbagliato. Spiegarle che volevo due posti vicini (à coté – contigues – proches- coude à coude – vous me comprenez?) si è rivelato talmente infastidente da ascoltare che, ad un certo punto, prima di riattaccare il ricevitore, l’esponente del gentil sesso ha abbaiato un “ma insomma, mica la devo vedere io, la pièce!”, lasciandomi di stucco.
Serata andata a ramengo.
Esperienza simillima e altrettanto indisponente posso citarla quando ho telefonato allo standard dell’ospedale Lariboisière per farmi passare il reparto di dermatologia, e mi sono sentito rispondere che l’ospedale Lariboisière non ospita la dermatologia. Ho chiesto alla signorina di dirmi quale fosse il suo nome, e lei ha riattaccato. Rintraccio il numero della dermatologia e quando, riuscendo con erculea fatica a prendere un appuntamento per il mese successivo, chiedo alla segretaria l’indirizzo dell’ospedale lei, indignata, mi dice che si trova vicino alla stazione Nord, e io rispondo: alla fermata Gare du Nord?, mi sbraita un sì che vuol dire il-malato-sei-tu, e scopro che, ovviamente, la stazione più vicina non era quella della Gare du Nord.
Due esempi esplicativi e certo non esaustivi della sociologia parigina. O sedicente tale, perché il più delle volte, i parigini, di parigino hanno solo la carta d’identità. E ancora.
Forse perché in una metropoli e – ma quanto ne stiamo parlando al Tamarindo? – si vuole difendere la propria sfera intima, il proprio Io, parte della popolazione si sente legittimata ad una preventiva mancanza di attenzione all’altro. Uno scrupolo diffuso che mi lascia l’amaro in bocca, pensando ai miei giri in autobus napoletani, in cui chiunque ha un percorso privilegiato da indicare perché ” si passa di fronte a una chiesa che è un babbà”, o “è il più sicuro per voi, che siete un turista”, “è più corto” “è più tipico”.
A Parigi, quando parli un francese di livello un pelo superiore a quello di un turista, sei un attentato vivente alla pariginità. Ad una richiesta d’informazione che implichi un impercettibile movimento di poirottiane grey cells, la risposta-tipo è: “ché pas” (je ne sais pas, in gergo da strada), accompagnato da un’espressione del viso attonita per la tua imbecillità, preceduta da una contrazione labiale violata da un’intermittente raffica di vento polmonare. Una pernacchietta, insomma.
Nessuno sa niente della città in cui vive, nessuno sa niente del palazzo in cui il proprio ufficio si trova, nessuno sa niente del proprio condominio, nessuno sa niente della dislocazione della merce nel negozio in cui lavora, nessuno sa niente di taxi, metropolitane, autobus, passaggi pedonali, tour Eiffel, musei, nessuno sa dove sia il comune….
Poi però…
Poi però sabato notte ha nevicato.
Offrivo una soirée a casa ai miei amici.
Una di loro si alza, e grida: Nevica!
I fiocchi, grandi e pesanti, silenziosi e soffici, di fronte alla mia finestra, sui tetti dirimpetto. Nessun altro rumore che la neve – sorda – che si posa. E le acute grida gioiose e infantili  della mia amica.
Parigini freddi e cortesi.
Una volta presi non ci si lascia più. Una volta presi appiccano fuoco ai giardini pubblici per te. Una volta presi ci si gettano anche.
Fedeli, presuntuosi, scorbutici parigini miei.
Noi ci amiamo!


I curricula si fumano a Palazzo Reale

ottobre 20th, 2008 by Miša Capnist | 6 Comments

I curricula si fumano a Palazzo Reale

Quando ero un giovane manager in carriera, era con lusingato rammarico che rispondevo negativamente alle candidature spontanee che mi venivano indirizzate. Quando i miei articoli arrivarono ad implementare le fila dei prodotti di nicchia di alta gamma chez Printemps, le candidature aumentarono esponenzialmente in numero. E le mie risposte, quasi accorate,  anche.
Oggi, lasciata la carriera manageriale, allontanati interessi imprenditoriali (ad eccezion fatta per un consiglio d’amministrazione l’anno), piagato fra i primi da questa crisi economica che ci galoppa contro, mi trovo impegnato nelle ricerche di un lavoro. E vedo come dietro a tutto quel lusso paventato dalle grandi aziende manchino due fra i requisiti fondamentali proprî (non si picchi il lettore ma sono immerso nelle lettere di Jacopo Ortis per ricordarmi la vita che avrei vissuto) del lusso: tempo e rispetto.
Perché non trovo rispettoso che la risposta ad una candidatura arrivi dopo giorni e che il testo di questa sia:
“se entro quattro settimane non prenderemo contatto con Lei, La preghiamo gentilmente di considerare questa mail come una risposta negativa alla sua candidatura,
nell’augurio eccetera eccetera,
Cordialmente Suo,
Servizio delle Risorse Umane”
Quattro settimane? Decidere in quale scarpa stia meglio il tuo piede richiede quattro settimane di tempo? È rispettabile che dopo aver indirizzato una candidatura alla persona intitolata allo studio della stessa sia un cordialmente mio servizio delle risorse umane a rispondere?
È questo quel rigore che si aspettano dai candidati?
È questo il piacere del lavoro che si aspettano dai postulanti?
È questa la comunicazione di una grande maison?
Di tanto in tanto si accontentano di un buon nome correlato ad una buona presenza, ingolfato in un abito a buon mercato tagliato col machete da un macellaio polacco e di un rutto.
Distinzione? Eleganza? Educazione?
Incastonano, gli ossequiosi, un:
“Salvo indicazioni contrarie da parte Sua, ci permettiamo di conservare nei nostri dossier la Sua candidatura per un periodo di sei mesi, nel caso in cui si dovesse ricreare la condizione che un posto corrisponda alle Sue richieste”.
Ma le quattro settimane sono comprese nei sei mesi? Giusto per organizzarmi una morte di stenti dignitosa.
Mi rendo conto che una città come Parigi necessiti una comunicazione netta e precisa, che pulluli di giovani che hanno voglia/bisogno di lavorare, e che gli ambienti professionali siano saturi ma, perdio, un po’ di civiltà scenda infusa su questi abbrutiti!
Una risposta insignificante e innecessariamente ampollosa non ingentilisce quel diniego che in questa forma si risolve in discomunicazione – atto indegno e vigliacco già di suo, ma quando si parla delle Pubbliche Relazioni di un’azienda che opera nel campo del lusso inaccettabile e vergognoso.
Ma soprattutto, che oggi la concezione di lusso sia così soggettiva da mettere sullo stesso piano il commerciale Insolence (cent’otto euro al flacone) e l’inestimabile Vega (duecento), entrambe di Guerlain, mi sembra sintomo di una preoccupante confusione fra bene e male. E se per discernere l’uno dall’altro abbiamo primordialmente avuto bisogno di un’entità divina, oggi cultura, sensibilità ed esperienza sono un necessario complemento a Dio.
Come shampoo&balsamo.


“Parigi è morta, non c’è niente da fare”

settembre 2nd, 2008 by Miša Capnist | 1 Comment

“Parigi è morta, non c’è niente da fare”

Esuberante inizio di discussione, che più che rompere il ghiaccio erige muri di cemento, in cui mi sono trovato coinvolto ieri sera, sul tetto dei grandi magazzini Printemps, diretti concorrenti de les galeries Lafayette, in cui, estivamente seduti ai tavolini – Sacré Coeur all’orizzonte mancino, Notre Dame de Paris e guglie gotiche a perdita d’occhio sulla destra – sorseggiavamo champagne. Raccapricciante presa di posizione tipica degli autoctoni, questa frase riunisce in sé tutti i misteri della storia, e la storia delle pigre menti che concepiscono e mettono in parola questo pensiero.

Presa di posizione che capisco e condivido, quando si parla della propria città non in senso fisico del termine, ma nella più ampia e complessa accezione di propria città in quanto creata da sé. Creati da sé o dai genitori sono l’entourage, create da sé sono le scelte di vita che si conduce, creato da sé il piacere o la noia di doversi spostare dal proprio quartiere a quello dell’amico, della scuola, o del lavoro.
Con un “Parigi è morta perché sei pigro”, liquido l’avventore incuriosito dal mio accento, dai cui virtuosismi intellettuali non posso che definirmi infastidito.
Parigi non può essere morta perché la festa nazionale della presa della Bastiglia dura due giorni, perché tutte le caserme dei pompieri, la vigilia, aprono le loro porte ai cittadini, proponendo balli e aperitivi fino a notte inoltrata. Parigi non può essere morta perché il giorno dopo i fuochi celebrativi di quest’infausta rivoluzione, sono sontuosi visti dall’esplanade della tour Eiffel che, per tradizione, sono presi d’assalto fin dalle prime molle ore del pomeriggio.

Parigi non può essere morta perché gli argini dei canali si trasformano in terrasses dei café, in luoghi da pic-nic, in campi da bocce, in mercatini serali, e le loro acque così calme sono terreno di sfida in canoa.
Parigi non è morta perché nelle sue fontane ci si bagna, durante queste giornate afose di fine luglio.
Parigi non è morta perché negli ultimi piani dei palazzi, seduti ad un tavolino o su un tetto di lamiera, ci si prende l’aperitivo godendosi i non ultimi raggi di questo altissimo sole che lusinga fino alle dieci.
Parigi non è morta perché agli angoli delle strade spuntano gli scarti dei traslochi e chi – fra studenti squattrinati e squattrinati – deve arredarsi casa, lo può fare con delizia e creatività.

Anche se comprensibilmente una calda giornata parigina può portare a momenti di flânerie che è uno stato meno elegantemente – non per sensualità – tradotto dall’italiano cazzeggio, la città si offre, impudica nella sua avidità di piaceri: al parc de la Villette il comune propone cinema all’aperto gratis, e le rive della Senna ospitano livellate spiagge di sabbia finissima con docce, piscine sulle zattere in mezzo al fiume, anche là mercatini a non finire.
Considerando i concerti che ogni dipartimento comunale (e a Parigi ce ne sono 20) offre a rotazione fino a fine estate ai cittadini, tutti i bar e i ristoranti che comunque restano aperti, i musei, le istallazioni all’aperto nei giardini delle tuileries, l’immenso e fiabesco parco des buttes Chaumont con le sue cascate artificiali su rocce altrettanto artificiali e la sua allure da panorama secentesco, i giardini di Versailles con gli spettacoli delle Grandes eaux musicales (che consiste nell’azionare tutte le fontane del giardino, i cui zampilli seguono le note delle opere di Lully, restando illuminate da fasci di fuoco, e profumando l’aria di essenze pregiate), considerando, dicevo, queste ricchezze, la stimolazione della sfera sensoriale nella sua totalità, possiamo credere di stare assistendo al funerale di Parigi o al nostro?
Le nostre città natali non ci sembrano loro stesse migliori ogni volta che ci rientriamo? Non sono queste le città in cui abbiamo mosso i primi passi sociali, in cui abbiamo vissuto le nostre prime esperienze estetiche? Ci dicevamo che erano morte; eppure, ecco che quando rientriamo ci accorgiamo di tutta una serie di personaggi nuovi, ma che nuovi non possono essere, poiché ci sono coetanei, che fanno parte di tutta una serie di altri mondi con i quali non eravamo mai entrati in contatto fino al giorno del nostro rientro. Solo quando ce ne andiamo ci accorgiamo che delle vite parallele scorrevano nelle nostre strade, e noi non le avevamo viste mai, perché le abitudini ci facevano fare il contrario, perché il senso dell’avventura non era ancora il nostro forte, perché non ci veniva neanche in mente la possibilità dell’esistenza di Altro.
Non è forse vero che, prendendo un aperitivo con gli “amici di sempre”, ogni tanto ne arriva uno con una new entry dall’aspetto interessante, e noi pensiamo “lui sì, vedi che ganzo, lui si butta sull’estero”, e poi scopriamo che abita nella nostra stessa città-mummia da sempre, e che il suo percorso è stato da sempre differente dal nostro, e che conosce luoghi mai immaginati proprio dietro l’angolo, e che partecipa ad iniziative entusiasmanti e impensate ospiti della nostra provincia (spesso, per l’onor del vero, non troppo ben illuminate dalle nostre giunte comunali così estranee al marketing, come dice M.I. Corradi nel suo articolo)?.
E quel bar, in cui per anni i nostri genitori ci hanno proibito di metter piede e noi, ligi e noiosi abbiamo seguito gli ordini, è proprio una figata.
Ecco quindi, tornando al progetto primordiale che animava questo spazio che il Tamarindo ha concepito con lusinga rivolgendosi a me, il primo consiglio che oso darvi, nel suggerirvi un’estate magnifica e piena di nuovi incontri: non ci si lamenta.
Anche se devo ammettere che in francese suona tanto meno fastidioso.


Il Patrimonio degli Italiani

maggio 24th, 2008 by Marie-Isabelle Corradi | 2 Comments

Il Patrimonio degli Italiani

Mi rammarico pensando che un Paese come l’Italia, in cui esiste un patrimonio di tale eccellenza, abbia una così scarsa capacità comunicativa riguardo ai propri beni culturali.
Benché esistano eventi di grande attrativa come la Biennale di Venezia o il Salone del Mobile a Milano, la politica culturale del nostro Paese rimane vetusta e necessita, a mio parere, di essere urgentemente modernizzata. Non solo per poterne usufruire noi Italiani, ma anche per mettersi alla pari della concorrenza estera che spesso in questo campo eccelle.
Perché dobbiamo aspettare che iniziative come la Notte Bianca o La Scala Giovani ci vengano trasmesse da altri Paesi? Perché in musei come la Pinacoteca Ambrosiana o Capodimonte a Napoli quasi si respira la polvere che c’è sopra i quadri? Nessuna fiche segnaletica, solo desuetissimi cartellini che oserei definire «para-esplicativi». Per non parlare dei guardiani, vecchi quanto le opere che sorvegliano, che pedinano al centimetro chi visita, come fosse per forza in procinto di rubare qualcosa
Esaminando i fatti, è necessario constatare che esistono una serie di cause strutturali che possono spiegare questa situazione. Oltre a un budget troppo modesto, che di certo non incita a lanciarsi in nuove strategie, vige una completa inadeguatezza dell’offerta rispetto alla domanda del pubblico, sia italiano che straniero.
Il settore culturale, si sa, è il primo a essere sacrificato in periodi di vacche magre. È facile immaginare quindi quali minimi storici si possano raggiungere se già durante i tempi fasti dell’economia italiana il Ministero per i Beni Artistici e Culturali riceveva soltanto lo 0,1% della finanziaria.
É vero che da questo punto di vista l’Italia non è l’unica. Ma molto sono gli Stati che nella stessa situazione hanno adottato drastiche misure per incentivare i finanziamenti privati in campo culturale. È nota infatti la philantropy americana, che da parte di chi ha accumulato grossi capitali è sentita non soltanto come un dovere civile, ma quasi come un obbligo morale. É cosi che Ford, Rockfeller, Bill Gates e altri come loro sostengono il 90% delle manifestazioni culturali negli Stati Uniti, grazie alle loro donazioni quasi integralmente detassate. Lo stesso avviene in Inghilterra, mentre in Francia, grazie alle leggi del 2003 e del 2005 riguardanti il mécénat d’entreprise, le aziende che decidono di acquistare o ristrutturare un’opera d’arte o un bene architettonico vengono defiscalizzate sulla somma investita del 60%, e fino al 90% se si tratta di un tesoro nazionale. In Italia, invece, gli sgravi sono modesti o inesistenti e, benché le operazioni di sostegno siano sempre più diffuse – come il caso del gruppo Intesa San Paolo per il restauro del Duomo di Milano o la devozione di Pirelli al Teatro alla Scala -, la motivazione è senz’altro minore che Oltralpe.
Malauguratamente non si tratta soltanto di una questione di finanziamenti, ma anche e sopratutto del modo in cui questi vengono impiegati. È interessante notare la priorità assoluta che viene data alla conservazione del Patrimonio (con questo termine intendo in senso stretto i beni architettonici e gli oggetti di arte decorativa), a scapito di altri settori come per esempio la creazione contemporanea e le arti sceniche. La mancanza di innovazione si riscontra nella volontà di preservare, piuttosto che di modernizzare, un settore che richiederebbe un aggiornamento costante.
L’Italia ha una posizione dominante nella World Heritage List, la lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO, suddiviso in siti archittetonici, artistici e paesaggistici.
D’altra parte, la tradizione che pone degli Italiani fra i primi in Europa nella protezione e nella promozione delle arti è secolare: Mecenate, colui che promosse tutto un areopago di talenti artistici e intellettuali alla corte di Augusto; i prìncipi del Rinascimento, in gara fra loro per chi avrebbe protetto gli artisti e i poeti più prestigiosi dell’epoca; perfino grandi re come Francesco I o Massimiliano d’Asburgo si contendevano a caro prezzo i geni italiani. E bisogna ricordare che anche il Fascismo istituì un Ministero per la cultura popolare che, sebbene sottomesso alle contestabili costrizioni del regime dittatoriale, seppe riconoscere le esigenze di modernizzazione della cultura in quel contesto.
Tradizione, quindi, che si aggiunge – bisogna riconescerlo – a un sincero attaccamento degli Italiani al loro patrimonio. Basta evocare il caso clamoroso del recente recupero di tesori nazionali effettuato da Francesco Rutelli, ex-ministro dei Beni Culturali. Grazie a una riuscita operazione di diplomazia culturale, sono stati rimpatriati diversi reperti archeologici, i “Nostoi”, trafugati illegalmente durante il XIX e XX secolo e finora esposti in musei e fondazioni esteri. E ammettiamolo, a quale Italiano non viene un piccolo pizzico al cuore quando vede Monna Lisa sorridergli dalla Grande Galerie del Louvre?

Eppure questo dimostra che l’entusiasmo si manifesta in maniera sporadica, senza che venga messa in atto una vera e propria politica culturale come in altri Paesi. Per esempio non esistono, se non in ridottissimo numero, progetti interattivi lanciati sui siti internet di musei e siti archeologici italiani, mentre istituzioni come il Centre Pompidou a Parigi o il Metropolitan Museum di New York produrranno a breve guide in formato mp3, scaricabili sui telefonini e riascoltabili direttamente davanti alle opere stesse.
Ritengo dunque che, anche se l’Italia costituirà sempre un’irresistibile attrazione per turisti, scienziati e amatori vari di tutto il mondo, il rischio di rimanere indietro in termini di competitività rispetto ad altri Paesi sia concreto e preoccupante.
Non occorre abbandonarsi a riflessioni di fatalismo nostalgico, ripensando alla perfezione del cerchio di Giotto o all’armonia perfetta delle Quattro Stagioni di Vivaldi. La dinamica capace di incentivare la motivazione culturale è raggiungibile mettendo in atto una politica culturale moderna e soprattutto visibile, senza aver il timore, peraltro fuori luogo, di associare la Cultura ai concetti fondamentali di marketing e pubblicità.


L’amour est un oiseau rebelle

maggio 16th, 2008 by Miša Capnist | 11 Comments

L’amour est un oiseau rebelle

Non posso, non posso non posso impedirmi.
Creatività, amore, affetto, tenerezza, sole, pic nic in riva al canal Saint Martin alla luce riflessa dalle acque increspate dallo sgocciolare lontano delle dighe. Sono incontri, evoluzioni, fiducia, gavetta. Ordine, luce, colori, profumi, ricordi, progetti, fatica, presa di coscienza, vetrine, negozi, persone, cieli sereni, giornate lunghissime. Entusiasmo, disposizione all’amore, puntualità, calma.
Non è facile prendere coscienza di quello che si è veramente. Non è facile. Si crede si crede, e poi eccola, la verità, luminosa ma nascosta. Una biblica fiamma che teniamo in vita, segretamente, inconsciamente. Che non sappiamo o non vogliamo sapere di avere. Come brucia, quella verità. Quella consapevolezza del richiamo. Quell’appuntamento con la propria intelligenza a cui spesso si cerca di arrivare tardi, per paura, per nostalgia, per lentezza, per idea che possa aspettare. Quel cambiamento di vita radicale, quello stacco netto ma delicato, e quella distanza con le idee infantili o primitive che si avevano sul futuro. Sul proprio. Immagini che cambiano, radicalmente ma serenamente. Capire cosa fa per noi, e correrci dietro. Perché stavolta è vero, stavolta siamo noi. Stavolta – cazzolina – , ci salgo in questo treno. E allora si prova un’emozione entusiasmante, una frenesia di vita, di cose, di fare, di dire, di imparare. E la testa gira, rimettere i piedi per terra, ma rendersi conto che, no: che hai capito. Che la tua vita non sarà come quella degli altri, perché quella è la tua. Anche perché, quella volta, hai deciso di andartene dall’Italia.
Lasci tutto. Tutto quello che, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto essere il tuo futuro, in modo concreto. A volte si torna. A volte non abbiamo più voglia di “non essere nessuno”. E si torna a coccolarsi nel comodo caldo passato. A volte lo si ricopre d’oro, e lo si lascia lì, nell’angolo del mitomane, per cercare di capire cosa fare per il futuro, o quasi.
Ci si destreggia in condizioni disagiate, un lavoro “finché non ne trovo un altro”, un appartamento “finché non trovo di meglio”. Il rassicurante rientro a casa accolti da un buongiorno ci sembra un lusso inquantificabile, perché ci siamo ammazzati di lavoro tutta la giornata, in una lingua che non è la nostra, in un Paese che non ci appartiene, paragonandoci in ogni istante con una realtà che non conosciamo. Eppure restiamo. Una voce – forse quella dell’ambizione, anche se preferisco pensare che sia incoscienza – ci tiene saldi ancorati all’estero.
E i progetti? Molti dei ragazzi che ho incontrato a Parigi non ne hanno. Sono qui per vedere. Vengono a farsi un’esperienza, spesso rientrando poi in Patria, e ripetendo per tutta la vita che “io la conosco Parigi. Ci ho vissuto”.
Sei mesi.
Molti dei ragazzi che conosco non pensano di fermarsi a stare in città. Molti dei ragazzi che conosco vogliono tornare a Casa. E rituffarsi nel lussuoso buongiorno di cui prima.
Non lavorano per averlo qui, il buongiorno. Non conoscono il café nascosto dietro ai giardini del Palais Royal. Per andare al lavoro non hanno sostato al semaforo rosso, rallegrandosi per quella breve sosta all’ombra del Louvre.
Non conoscono i centri sociali – molto differenti da quelli italiani – in cui si passa a fare il brunch la domenica mattina, in compagnia di musicisti, attori, creatori, stilisti e qualche rasta-punk. Ed è un peccato.
Sono convinto che conoscere veramente una città – a parte i rari veri innamorati della propria – si debba essere forestieri. E comporre un inno alla vita, musicisti dell’intelligenza, tuffandoci in quel ciclone che è la quotidianità. Captando particolari, sguinzagliando istinti, notando dettagli, ascoltando parole e vento, parlando la città. Cogliere le differenze di costume, in risposta ad alcune delle quali restiamo a bocca aperta, sdegnosamente increspata, o stirata in un sorriso interessato o divertito.
Vivere appieno la possibilità di costruirsi di nuovo, approfittare di questa chance irripetibile per reinventarsi, per non essere il figlio di nessuno, perché le raccomandazioni che riceviamo sono state completamente meritate, e noi ne andiamo fieri.
Non vogliamo scoprire se abbiamo veramente talento? Se possiamo farcela senza nasconderci nell’armadio delle pellicce della mamma? Non abbiamo il diritto di spostarci, per trovarci? Per vedere che un’altra cultura ci si confà di più che, in effetti, me voilà, io sono così: a me piace stare delle ore sotto la doccia e al bar io preferisco il succo di frutta al caffè. Fermi tutti: è stato uno sbaglio culturale!
In Francese esiste il verbo “assumer”, la cui traduzione precisa in italiano mi sfugge. En gros è comparabile – come forma mentis ma non come significato lessicale – al presente storico latino odi: dopo aver ricevuto l’informazione, prendo conoscenza dell’oggetto di cui si tratta, e mi comporto di conseguenza. Bene: io trovo che questa esperienza all’estero (posso ancora chiamare Parigi “estero”?) mi abbia salvato la vita.
Non vogliamo vedere di cosa siamo capaci?
Ci vuole pazienza, e carattere, e coraggio di vivere in una chambre de bonne col cesso sul pianerottolo facendo mille lavori o uno solo ma mal pagato i primi periodi se puoi chiamarti ricco.
Ma se arrivi a vederti, se ti tocchi, vivere è un entusiasmante combattere e sfidare, progettare e ridimensionare, prendere coscienza, respirare in un infinito presente con il proprio futuro chiaro in mente, e i modi per arrivare alla meta.
Esplodendo di sole, in un delirio da baccante, la speranza che la lama rotatoria che gira all’altezza del diaframma ci apra in due come una mela.
Viviamo, per favore, viviamo.


“Che fretta c’era, maledetta primavera”

aprile 6th, 2008 by Miša Capnist | 18 Comments

Parigi è divina.
E spudorata.
In questi ormai non più primi giorni di primavera, Parigi rifiorisce come un campo di gigli e narcisi. E il suo profumo a tratti stucchevole, quasi quello dei tigli dei giardini di palazzo reale, sovrasta i fumi dello smog e quelli del malumore.
Parigi è ininterrottamente la città dell’Amore, ma in particolare quando ai primi giorni di sole e di temperature tiepide, tutta la città si riversa sulle strade e nei giardini con la prontezza sensuale e lascivia tipica delle popolazioni nordiche e delle lucertole, allora diventa carnale e i suoi abitanti con lei. Vivere Parigi nei primi giorni di primavera è un’esperienza peccaminosa.
I colori sbocciano, le gemme appollaiate sui rami degli alberi sembrano pappagalli, giacinti fallici olezzano turgidi, i narcisi si aprono rugiadosi, i gigli – impuniti – si scatenano nel loro tourbillon di pollini e profumi, le biciclette sfrecciano per i boulevard; nelle ore più calde si passeggia all’ombra degli ippocastani che accompagnano per chilometri il cours la Reine, da place de la Concorde al Bois de Boulogne. Iniziano le gite ai giardini di Bagatelle, nel cuore del bois che, non parchi di cigni, pavoni e anatre che si sollazzano nei laghetti, di freschi papiri che frusciano, di gatti miagolanti, trasportano l’amante nel pieno turbinio di colori e sensualità della belle époque.
I più coraggiosi si portano il pic-nic, aspettando la fioritura e il concorso delle rose a maggio. E per il momento si godono le camelie e la giunchiglia.
Le brasserie hanno da un po’ iniziato a espandersi sui marciapiedi, ma solo negli ultimi giorni gli abitanti della città si attardano per un caffè o una birra. Le vie pedonali sono intasate di tavolini e di persone che ridono e scherzano, e con il sole arrivano spensieratezza e curiosità che nell’inverno erano andate in letargo. Maschi sudati e appena abbronzati corrono per le strade seminudi, fieri delle loro fatiche, lusingati dagli sguardi ammiccanti di uomini e donne; dopo il calar del sole, sotto gli alberi degli Champs de Mars e des Invalides, allegri e avvinazzati signori attempati giocano a bocce, ridendo contenti.
E il cielo limpido, alto, tagliato di tanto in tanto da qualche aereo lontanissimo ricorda, con le dovute accortezze, i panorami di Courbet. La città scintilla con i suoi marmi chiari e le sue finestre. Tutto l’oro che d’inverno si gode negli stucchi e nelle decorazioni all’interno dei palazzi, ora è riflesso dalla parte opposta, e tutti se ne possono fare regalo.
Il sole sottolinea le differenze etniche di Parigi: tutti ci si catapulta nelle strade, nei parchi, nelle terrasse dei café, la città esplode come la primavera. Austeri esemplari di donna eritrea, alti, i capelli raccolti nei loro foulard e i grossi orecchini di metallo; non rare matrone ghanesi seguite da orde di figlioli allegri coi capelli ricci ricci e occhi risplendenti di luce. Uomini marocchini agli angoli delle strade fumano incessantemente allorché operosi cinesi scaricano le loro auto traboccanti di magliette e vestitini; serafici indiani si attardano fuori dei loro ristoranti per bersi un thé. Italiani col caffè, turchi in babbucce di montone, sdentati e contenti; codazzi di giovani madri esotiche e colorate di tessuti sgargianti sgranocchiano semenze, chiamando le amiche con i loro toni rochi e gravi a cui si intrecciano risate allegre, acute e cristalline. I bambini corrono dappertutto e, per una volta almeno, in sintonia con chi mi circonda, mi fanno quasi tenerezza.
I mercati sono ormai infrequentabili tante le persone che vengono a vedere, a toccare, a gridare. Il passaggio è quasi impossibile adesso, mentre era agibile in inverno. I vasi di piante crescono di numero, la frutta cambia, iniziano a comparire le prime ciliegie, mentre i mandarini cedono il passo alle fragole.
Le ostriche ormai da un po’ scarseggiano, ma granchi, aragoste e lumache si sperdono, vivi e inebetiti sui banchi pieni di ghiaccio, accanto a mazzancolle, tonni, code di rospo, e coquille Saint-Jacques.
Sono questi i giorni in cui ci si sente innamorati. E per le strade si incrociano occhi mai visti in vita: occhi in cui per una frazione di secondo ci si perde, incantati, in mille storie diverse, in bar fumosi in cui uno pseudo-filosofo dispensa perle di saggezza in cambio di una fetta di torta o di un Ricard, in realtà d’immigrazione, di fame, di paradiso ritrovato, d’amore, di scontri con vissuti d’indipendenza, di storie familiari, di ricordi: arabeschi di sorrisi solo perché c’è il sole. Occhi così profondi che ti fanno nascere, vivere e morire nella durata di un batter di ciglio, ma sono sguardi che non possono durare a lungo, poiché istantaneamente se ne incrociano altri, e le ciglia sono lunghissime e diverse, e i corpi sono diversi, e le razze e gli odori sono diversi. E non puoi impedirti di guardarti attorno, attonito, e la voglia di fare l’amore diventa impellente, senti l’onnipotenza divina infusa nel corpo, e ti rendi conto che vuoi e puoi avere chiunque, in qualunque momento della giornata, nascosto in un passage o nel mezzo di una piazza, sotto un albero, dietro una fontana, aggrappati alla colonna in Place Vendôme, fra le guglie di Notre Dame, nei romanticissimi e frequentatissimi argini della Senna. La mattina, la sera. Si diventa preda della Natura in tutta la sua ineluttabilità, ricchi e lussureggianti come lei. Il suo rigoglio è il nostro, le sue leggi sono insindacabili. La giovinezza risplende in tutti i corpi, le mani sono avide di sensualità, le labbra tumide, gli odori e i sapori più pungenti. Ci si eccita alla vista di un fianco, di un gluteo, di un seno, di un petto, di un collo, di un’ombra proiettata dalla mandibola. Per stringere un girovita si è disposti a tutto. I famosi istinti primordiali rinascono con violenza e impazienza.
Siamo animali.
E non c’è nulla di più consolante che godersela.


Cugini di campagna

marzo 10th, 2008 by Miša Capnist | 12 Comments

Uno dei miei primi impatti con Parigi, ricordo, è stato in metropolitana. Un bambino pestifero saliva e scendeva dagli strapuntini, facendoli sbattere, si arrampicava, urlava, si graffiava, piangeva. Ricordo quel breve viaggio come un incubo. La madre, imbarazzata, cercava di calmarlo come poteva, senza successo fino quando il bimbo, dalla spalliera dei sedili a scompartimento che reggevano lo strapuntino, si lanciò sullo stesso una frazione di secondo troppo tardi per poterlo trovare abbassato. Il vagone trasse un sospiro di sollievo ed io, guardandolo, non riuscii a trattenere una risata di soddisfatta giustizia. Il bambino mi guardò proprio in quel momento e, con umiliata aria di sfida, prese ad urlare: “C’est pas rigolo” (non c’è niente da ridere), con una tale potenza vocale ed emotiva che le vene della fronte pulsavano sempre più forte mano a mano che la lingua usciva dalla bocca come per sottolineare il suo malcontento. Con l’insicurezza dell’espatriato di fresco, pieno di sogni di gloria a cui non sa se credere veramente, mi sentii un verme, e quello fu il benvenuto che la città mi diede.
La rete metropolitana di Parigi è un’ inesauribile fonte di attimi di riflessione. Come quando per esempio il mio sguardo di straniero, vagabondando fra i passeggeri, si posa sulle loro scarpe, e il mio volto si accartoccia in un’espressione simile alla berniniana estasi di Santa Teresa, facendo riflettere alle luci del neon il coccodrillo delle mie.
Dalle punte grosse, larghe, quadrate, acuminate, bombate, lise, impolverate, piatte e i tacchi usurati in punti irregolari, lo spreco di gomma e di caucciù per la confezione di suole e tomaie delle scarpe che usano i Francesi è oltraggioso. L’irriverente nonchalanche con la quale feriscono la logica del buon gusto mi fa spesso venir voglia di lasciarmi cullare dallo sconforto. Calze bucate e flagranti smagliature dei collant non corrompono l’incedere di orde di Parigini che entrano ed escono quotidianamente dai vagoni della metropolitana. Se poi si guarda con neanche troppa attenzione al loro abbigliamento, il teorema che segue sorge spontaneo: più che vestirsi, i Francesi si coprono. E la differenza fra i due termini, se nella teoria può sembrare astratta, nella pratica è lampante.
A Parigi circola il mito che gli Italiani abbiano classe. Direi piuttosto che hanno un certo gusto. Il gusto del piacere di sentirsi in ordine, di curare il proprio abbigliamento, la ricerca del dettaglio che può trasformare un look da indistinto a puntuale, l’interesse lungimirante per la qualità, il diletto delle proporzioni vitruviane – questa considerazione non tocca l’ambito dei fashion victims, che formano l’interessante argomento di una diversa analisi.
Al primo accenno di attenzione, nei faubourg gli oulallà cinguettano, gli sguardi si acuiscono, l’attenzione sale, e sei automaticamente arbiter.
Cravatta è sinonimo, o emblema, di eleganza. A Parigi l’eleganza è una divisa. Non vengono percepite le dissonanze, limpide e codificate, fra abito da giorno, da sera, da pomeriggio o da cerimonia. Un abito è un abito. Pragmatici…
Ciò di cui evidentemente non sentono la mancanza è l’attenzione al particolare. È il saper distinguere una scarpa elegante da una scarpa da lavoro, passare da una oxford ad una derby e conoscerne la difformità, preferire un classico mocassino ad una punta in vernice punk. Per fare un esempio le calze da uomo alte fino al ginocchio sono un ulteriore elemento di scontro intellettuale: se in Italia, per definire una persona priva di nerbo si ricorre allo spensierato idioma “mezza calza”, la loro risposta culturale è un gaio “calza lunga”, e i boati di risate non tardano ad arrivare.
La realtà dolorosa è l’eccessivo attacco della democratizzazione della moda: le strade si popolano di vestiti a imitazione non di una marca, ma di un taglio. Esagerate proposte di pantaloni a palazzo simil-Max Mara, giacche simil-Armani e scarpe simil-Gucci a prezzi stracciati piagano senza rammarico e quotidianamente gli occhi. Come per la cravatta, quindi, basso costo è emblema di – astuta – eleganza. Non parlo qui di marche rivoluzionarie come Zara o H&M, che trovo invece stimabili e veri vessilli della gioiosa e giocosa fruizione della moda. Parlo dei tailleur del supermercato che trovano posto, nel sacchetto dell’astuta trend-setter, di fianco ai ravioli in barattolo e ai würstel di pollo. E quando la scaltra avventrice del supermercato si vanta di aver pagato quindici euro il suo tailleur i cui orli iniziano inesorabilmente a disfarsi dopo la prima occhiata, dovrebbe confessarsi, rammendando, di essere stata raggirata. E invece ammortizza.
Un sapiente mélange di stili differenti è preferibile ad un’accozzaglia di H(ermès), C(artier), G(ucci) che talaltro, se abusati, sono violenti: un abito firmato ha lo stesso potere di un gioiello: se è falso si vede, se sono troppi involgariscono.
Il total look – prima linea – è adatto a pochissime persone, preferibilmente vantanti un fisico statuario. Ingolfarsi nel prêt-à-porter, ammettendo pure che possa nutrire una certa alta percezione del sé, si rivela un grosso errore. Il prêt-à-porter essendo la linea bassa delle maison de couture, essendo la fonte del sostentamento economico di cui gli stilisti hanno bisogno per potersi dedicare alla linea alta delle loro creazioni – quella riservata ai veri ricchi – , è paragonabile alla carne meno fresca ma non ancora marcia che il macellaio vende, la sera, ad un prezzo minore.
Ma in Francia l’idea di concludere l’affare della vita fa parte del pensare comune, e il suo popolo è costellato da draghi della spesa intelligente.
Vestirsi non richiede più soldi che buon gusto.



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