Studiare nell’America di Obama
luglio 8th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments
Il quattro luglio, festa dell’indipendenza. Nel 2009 si celebra il duecento trentatreesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza americana, in cui i padri fondatori affermarono uguaglianza universale e diritti inalienabili a vita, libertà e felicità. Uguaglianza e diritti che sono, da allora, una conquista di ogni giorno della vita pubblica e privata negli Stati Uniti, come ricorda Barack Obama nel suo messaggio e-mail del quattro luglio.
Buon compleanno, America. Ti festeggio esattamente dove ho avuto il primo contatto con il tuo dolce profumo di libertà, sul prato davanti a Capitol Hill, la sede del Congresso, nel cuore di Washington, DC, dove le feste per il tuo compleanno stanno per iniziare. Allora era Labor Day, primi giorni di settembre (2008), e io dovevo ancora iniziare la mia avventura da studente in un’America ancora incerta tra Obama e McCain. Il governo studentesco della School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins a cui ero iscritto per un master biennale in relazioni internazionali aveva programmato per quella sera settembrina una “dinner with strangers”, una cena per conoscersi tra nuovi compagni di classe. La cena fu davvero un’occasione per conoscere nuovi amici, con cui andare poi a vedere il concerto della festa del lavoro davanti al parlamento.
Provavo in quei giorni – senza saperlo, e senza rendermene contro – un senso di libertà. Un senso cioè di poter indirizzare la mia vita nella direzione dei miei interessi e desideri più profondi. Ero contento di essere partito, anche se sapevo che avrei avuto nostalgia di casa. Ero convinto – e ora posso confermare come la mia convinzione fosse ben fondata – che studiare relazioni internazionali al SAIS nella capitale degli Usa sarebbe stata un’esperienza unica.
L’America e in particolare l’ università mi hanno dato da subito un caloroso benvenuto. Mi guardavo intorno nel mio quartiere – Logan Circle, un quartiere abitato dall’élite nera nell’Ottocento, decaduto nel secondo dopoguerra e finalmente rinato in una esplosione di ristoranti e gallerie d’arte nell’ultimo decennio – e vedevo facce allegre, case colorate, e tanti alberi. Intorno ai palazzi del SAIS, mi guardavo intorno e vedevo visi amici dell’anno a Bologna (sede del primo anno del mio master) e visi nuovi che imparavo ad associare a nomi durante gli aperitivi del venerdì sera.
L’accoglienza da parte di professori e personale amministrativo dell’università mi ha reso la vita ancora più facile sin dall’inizio. Nel mio dipartimento di studi ambientali ed energetici l’organizzazione mi pareva perfetta, con persone disponibili ad ascoltarti per le scelte accademiche e professionali.
La volontà di accogliere, di dare il benvenuto, fa parte della migliore cultura americana. La seconda settimana di lezione, il professor Scott Barrett (esperto di cooperazione internazionale e cambiamento climatico) ci invitò tutti per un aperitivo nella sua bella casa in Maryland, uno stato così verde da ricordare l’Irlanda. Mi sembrava una cosa strana, andare a case di un professore con altri quaranta compagni, ma presto mi abituai a tal costume, grazie a tanti altri inviti a casa di professori. Gli inviti a case dei miei compagni mi hanno fatto capire come il piacere dello stare insieme sia anche un aspetto della cultura americana, particolarmente apprezzato da noi italiani.
Accogliere vuol dire anche sapere ascoltare, e mi resi presto conto che il professor Francis Fukuyama – di cui seguivo un corso sulla storia del pensiero economico – è uno che prima di tutto sa ascoltare. Prima delle lezioni, leggeva attentamente su internet i nostri commenti ai testi di Adam Smith, Max Weber, Amartya Sen e altri. Analizzava attentamente per poter poi rispondere con cura, nel dettaglio. Le discussioni in classe venivano condotte in modo fermo ma cordiale. L’analisi dei testi diventava così occasione di scambio intellettuale con i compagni di classe, mentre i dialoghi con Fukuyama aiutavano a chiarirsi le idee su ciò che leggevamo.
Lo scambio intellettuale, durante il mio anno di studi a Washington, non era limitato dalle mura delle aule universitarie. Nella cerchia internazionale del SAIS – dove la maggioranza degli studenti parla due o tre lingue straniere, e una buona parte di essi hanno vissuto in quattro e cinque paesi diversi – ci si scambiano sempre idee, informazioni, conoscenza. Quando parlo d’Africa con Kenneth, il mio amico camerunese, mi sembra di apprendere ogni volta qualcosa di nuovo. Quando Edward mi racconta dei suoi viaggi in Asia per promuovere la costruzione di scuole elementari, pare anche a me di aver viaggiato con lui. Quando Chris mi spiega (a settembre) perché Obama “vince sicuro” nelle elezioni presidenziali, sento di imparare qualcosa in più sulla società americana. Ogni giorno posso dire di aver imparato qualcosa di nuovo dai miei compagni di corso.
Le occasioni concrete per scambiarsi idee e conoscersi di certo non mancano a Washington. Durante l’anno accademico ci si vedeva spesso a casa di qualcuno per una festa, o anche solo per un pranzo insieme alla mensa della Brookings Institution. Ora che l’università è terminata ci si vede ancora con i vecchi amici per un giro insieme a Georgetown, un barbecue in giardino, o una birra nei locali storici della capitale. Tutto per mantenere un senso di comunità, a “feeling of togetherness”, essenziale per una vita felice in un paese come l’America che offre tante opportunità ma può talvolta essere luogo di solitudine (dell’anima più che fisica).
Il senso di comunità è in effetti una delle caratteristiche che mi rimarranno impresse di Washington, non solo nell’ambiente universitario ma anche in quello religioso e sociale. Le parrocchie cattoliche sono molto attive nel volontariato e offrono occasioni di scambio e di conoscenza (ah, il bello di sentirsi una minoranza). Molte organizzazioni – religiose e non – offrono cibo e protezione ai più sfortunati. Tra vicini di casa, ci si aiuta e ci si cura delle cose comuni insieme. Ci si sente cioè parte di un destino comune, quel “common destiny” che secondo Obama è sì scritto per noi dal nostro Creatore, ma è anche scritto da noi attraverso le fatiche quotidiane. Un senso di comunità particolarmente evidente durante la campagna elettorale in cui mi sono ritrovato immerso nel settembre-ottobre 2008, una campagna che ha …