Studiare nell’America di Obama

luglio 8th, 2009 by Filippo Chiesa | No Comments

Studiare nell'America di Obama

Il quattro luglio, festa dell’indipendenza. Nel 2009 si celebra il duecento trentatreesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza americana, in cui i padri fondatori affermarono uguaglianza universale e diritti inalienabili a vita, libertà e felicità. Uguaglianza e diritti che sono, da allora, una conquista di ogni giorno della vita pubblica e privata negli Stati Uniti, come ricorda Barack Obama nel suo messaggio e-mail del quattro luglio.
Buon compleanno, America. Ti festeggio esattamente dove ho avuto il primo contatto con il tuo dolce profumo di libertà, sul prato davanti a Capitol Hill, la sede del Congresso, nel cuore di Washington, DC, dove le feste per il tuo compleanno stanno per iniziare. Allora era Labor Day, primi giorni di settembre (2008), e io dovevo ancora iniziare la mia avventura da studente in un’America ancora incerta tra Obama e McCain. Il governo studentesco della School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins a cui ero iscritto per un master biennale in relazioni internazionali aveva programmato per quella sera settembrina una “dinner with strangers”, una cena per conoscersi tra nuovi compagni di classe. La cena fu davvero un’occasione per conoscere nuovi amici, con cui andare poi a vedere il concerto della festa del lavoro davanti al parlamento.
Provavo in quei giorni – senza saperlo, e senza rendermene contro – un senso di libertà. Un senso cioè di poter indirizzare la mia vita nella direzione dei miei interessi e desideri più profondi. Ero contento di essere partito, anche se sapevo che avrei avuto nostalgia di casa. Ero convinto – e ora posso confermare come la mia convinzione fosse ben fondata – che studiare relazioni internazionali al SAIS nella capitale degli Usa sarebbe stata un’esperienza unica.
L’America e in particolare l’ università mi hanno dato da subito un caloroso benvenuto. Mi guardavo intorno nel mio quartiere – Logan Circle, un quartiere abitato dall’élite nera nell’Ottocento, decaduto nel secondo dopoguerra e finalmente rinato in una esplosione di ristoranti e gallerie d’arte nell’ultimo decennio – e vedevo facce allegre, case colorate, e tanti alberi. Intorno ai palazzi del SAIS, mi guardavo intorno e vedevo visi amici dell’anno a Bologna (sede del primo anno del mio master) e visi nuovi che imparavo ad associare a nomi durante gli aperitivi del venerdì sera.
L’accoglienza da parte di professori e personale amministrativo dell’università mi ha reso la vita ancora più facile sin dall’inizio. Nel mio dipartimento di studi ambientali ed energetici l’organizzazione mi pareva perfetta, con persone disponibili ad ascoltarti per le scelte accademiche e professionali.
La volontà di accogliere, di dare il benvenuto, fa parte della migliore cultura americana. La seconda settimana di lezione, il professor Scott Barrett (esperto di cooperazione internazionale e cambiamento climatico) ci invitò tutti per un aperitivo nella sua bella casa in Maryland, uno stato così verde da ricordare l’Irlanda. Mi sembrava una cosa strana, andare a case di un professore con altri quaranta compagni, ma presto mi abituai a tal costume, grazie a tanti altri inviti a casa di professori. Gli inviti a case dei miei compagni mi hanno fatto capire come il piacere dello stare insieme sia anche un aspetto della cultura americana, particolarmente apprezzato da noi italiani.
Accogliere vuol dire anche sapere ascoltare, e mi resi presto conto che il professor Francis Fukuyama – di cui seguivo un corso sulla storia del pensiero economico – è uno che prima di tutto sa ascoltare. Prima delle lezioni, leggeva attentamente su internet i nostri commenti ai testi di Adam Smith, Max Weber, Amartya Sen e altri. Analizzava attentamente per poter poi rispondere con cura, nel dettaglio. Le discussioni in classe venivano condotte in modo fermo ma cordiale. L’analisi dei testi diventava così occasione di scambio intellettuale con i compagni di classe, mentre i dialoghi con Fukuyama aiutavano a chiarirsi le idee su ciò che leggevamo.
Lo scambio intellettuale, durante il mio anno di studi a Washington, non era limitato dalle mura delle aule universitarie. Nella cerchia internazionale del SAIS – dove la maggioranza degli studenti parla due o tre lingue straniere, e una buona parte di essi hanno vissuto in quattro e cinque paesi diversi – ci si scambiano sempre idee, informazioni, conoscenza. Quando parlo d’Africa con Kenneth, il mio amico camerunese, mi sembra di apprendere ogni volta qualcosa di nuovo. Quando Edward mi racconta dei suoi viaggi in Asia per promuovere la costruzione di scuole elementari, pare anche a me di aver viaggiato con lui. Quando Chris mi spiega (a settembre) perché Obama “vince sicuro” nelle elezioni presidenziali, sento di imparare qualcosa in più sulla società americana. Ogni giorno posso dire di aver imparato qualcosa di nuovo dai miei compagni di corso.
Le occasioni concrete per scambiarsi idee e conoscersi di certo non mancano a Washington. Durante l’anno accademico ci si vedeva spesso a casa di qualcuno per una festa, o anche solo per un pranzo insieme alla mensa della Brookings Institution. Ora che l’università è terminata ci si vede ancora con i vecchi amici per un giro insieme a Georgetown, un barbecue in giardino, o una birra nei locali storici della capitale. Tutto per mantenere un senso di comunità, a “feeling of togetherness”, essenziale per una vita felice in un paese come l’America che offre tante opportunità ma può talvolta essere luogo di solitudine (dell’anima più che fisica).
Il senso di comunità è in effetti una delle caratteristiche che mi rimarranno impresse di Washington, non solo nell’ambiente universitario ma anche in quello religioso e sociale. Le parrocchie cattoliche sono molto attive nel volontariato e offrono occasioni di scambio e di conoscenza (ah, il bello di sentirsi una minoranza). Molte organizzazioni – religiose e non – offrono cibo e protezione ai più sfortunati. Tra vicini di casa, ci si aiuta e ci si cura delle cose comuni insieme. Ci si sente cioè parte di un destino comune, quel “common destiny” che secondo Obama è sì scritto per noi dal nostro Creatore, ma è anche scritto da noi attraverso le fatiche quotidiane. Un senso di comunità particolarmente evidente durante la campagna elettorale in cui mi sono ritrovato immerso nel settembre-ottobre 2008, una campagna che ha …


Casa Zimbabwe

luglio 1st, 2009 by Rocco Polin | 2 Comments

Casa Zimbabwe

“San Francisco e la metà degli anni sessanta erano un bel tempo e un bel posto dove vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza di essere stato la, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse…
C’era una fantastica, universale impressione che qualunque cosa si facesse era giusta, che si stesse vincendo…Avevamo l’abbrivio noi: stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa…
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso Ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea – quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro”
Da “Fear and loathing in Las Vegas” di Hunter S. Tohmpson
Credo che dalla collinetta di Las Vegas, guardando a occidente alla ricerca del segno dell’alta marea, con gli occhi adatti si scorgerebbe un grosso edificio di pietra posizionato in posizione sopraelevata sul lato settentrionale del campus dell’Università di Berkeley. Quell’edificio giallo è rimasto attaccato alla sua collina e all’utopia degli anni in cui fu creato come certe cozze rimangono attaccate agli scogli, incuranti della marea che prima le sommerge e poi si ritira.
E’ una cooperativa studentesca, una comune, un centro sociale… chiamatela come volete, ufficialmente si chiama Casa Zimbabwe, in lingua Shona significa house of stone (facile il passaggio a “house of stoned”), in sigla CZ (da cui il soprannome Czars per i suoi abitanti) e conosciuta a Berkeley anche come Crakistan (questa non credo ci sia bisogno di spiegarla). Io ci ho vissuto un anno, studente in scambio presso l’Università’ della California e quella casa, la sua cultura e i suoi abitanti, sono stati l’elemento centrale e definitorio del mio anno all’estero.
Un anno all’estero che pensavo sarebbe stato all’insegna dello studio in una delle migliori università del mondo e che invece si è gradualmente trasformato in un’esperienza psichedelica in quello che ancora resiste della controcultura degli anni Sessanta. La morale dell’articolo è forse meglio anticiparla si dall’inizio: la parte migliore delle proprie esperienze all’estero è quella di cui alla partenza non si sospettava l’esistenza.
Casa Zimbabwe è una delle 17 case gestite dalla Berkeley Student Cooperative. Ce n’è una vegana, una afro, una gay, lesbian and transgender, alcune più alcoliche, altre più hippy, altre ancora silenziose e intellettuali. Ogni casa è gestita dal consiglio dei suoi abitanti che si riunisce la domenica sera e provvede a eleggere i managers (chi si occupa di riscuotere gli affitti, chi dell’approvvigionamento alimentare, chi della manutenzione della casa) e a discutere dei problemi della casa. Ogni membro è tenuto, in cambio di vitto e alloggio, a versare un affitto mensile e a fare cinque ore settimanali di lavoro. Le mansioni sono le più diverse: chi cucina la sera, chi lava i piatti, chi si occupa dell’orto di pomodori sul tetto, chi organizza feste nel weekend, chi si occupa del riciclaggio rifiuti, chi di scaricare film da internet… Una domenica sera, durante un consiglio particolarmente delirante, si è deciso che le ore di lavoro fatte nudi valgono il doppio e cosi, verso la fine del mese, con l’avvicinarsi del periodo delle multe, è frequente incontrare per la casa ragazzi e ragazze completamente nudi e armati di ramazza.
Abituarsi non è stato facile. All’inizio, quando ti invitano a meditare sul tetto, a fare yoga la domenica mattina, ad arrampicarsi nudi sugli alberi e a suonare la chitarra vorresti sbatterglielo in faccia il fallimento di quegli anni Sessanta di cui loro non sono che patetici avanzi. Vorresti farli vergognare dell’egoismo individualista della loro scelta, il sistema loro non lo combattono, lo ignorano. E il sistema, grato, li ignora a sua volta, permettendo il fiorire di questa isola di anarchia dove anything goes, le droghe sono accettate, il confine tra etero e gay e’ sempre più sfumato e un’ora di lavoro nudi vale doppio. La protesta è fallita, ormai rimane la provocazione. Una volta a semestre si corre tutti nudi per la biblioteca del campus. Cosa vuol dire? Gli viene mai in mente che in Iran e in tante altre parti del mondo nostri coetanei muoiono per il diritto di esprimere un’opinione libera? Che forse correre nudi in aula magna per scandalizzare il rettore è più insultante per le tante ragazze che non hanno nemmeno diritti ad un’istruzione in virtù del loro sesso che per il povero rettore costretto a vedere i nostri giovani culetti nudi?
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Poi però, seduti sul tetto con una birra, osservando gli incredibili colori del tramonto sopra la Baia di San Francisco, il fascino di questo strano posto di devianti e sognatori comincia a colpirti. Centoventi studenti: cristiani, induisti, ebrei e mussulmani, nerd informatici, spacciatori di ogni tipo di droga, europei in scambio, suonatori di chitarra, ottimi cuochi, pessimi cuochi, un pitone, un ratto, un cane, un uccello, un coniglio… come nella celebre canzone per bambini non c’erano i due unicorni ma a volte, in particolari stati mentali, capitava di vedere anche quelli.
Quando alle due di notte tornavo dalla biblioteca del campus dopo una notte di studio avevo la certezza di trovare qualcuno in cucina ad infornare biscotti. Mezz’ora dopo, intorno al tavolo della cucina, ai biscotti appena sfornati e ad una bottiglia di whisky ci si ritrovava in una decina a spettegolare degli amici comuni, a progettare demenziali feste a tema per i giorni successivi o a discutere di medio oriente (siamo pur sempre studenti di Berkeley, per Diana!).

Nota per il lettore: qui dovrebbe finire l’articolo, l’ultimo paragrafo è un mio delirio probabilmente incomprensibile, frutto in gran parte di meditazioni sintetiche.
Quello hippy potrebbe essere l’ultimo stadio di una civiltà occidentale ormai troppo prospera e viziata e finalmente al tramonto (nomen omen). Dietro a meditazioni, veganesimo e filosofie orientali in salsa hippy potrebbe forse in effetti nascondersi solo vuoto pneumatico. Una reazione sterile alla vittoria definitiva del mercato (con la sua sovrastruttura liberal-democratica), una reazione dovuta alla naturale e universale allergia ad ogni ordine definitivo. La storia si fa a Teheran e a …


Lo studio all’estero, dalla A alla Z

giugno 24th, 2009 by Eleonora Corsini | 4 Comments

Lo studio all'estero, dalla A alla Z

La scelta per il futuro dello studente – questa grande sconosciuta! – spesso mette in crisi molti giovani. Le mille ed una porte che si aprono post-liceo o post- laurea breve si presentano come piccoli o grandi passaggi di un insidioso labirinto, il quale, pensate, può addirittura portarti  in paesi stranieri, vicini o lontani!
Personalmente ritengo che questa infinita varietà di scelte sia favolosa. Il lusso di potersi sedere di fronte ad un PC e, con l’ausilio del web, fantasticare tra le varie possibilità mi appare prezioso. Tanto più che ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le tasche!
Questo incipit molto ottimistico era necessario, perché ora dovrò scendere nei dettagli ed allora è importante sapere che il percorso da seguire per partire per l’estero può effettivamente risultare ostico.
L’enorme varietà spesso sembra più un disincentivo che un incentivo, dato che è facile perdersi tra le proposte e le idee suggerite. Le procedure per essere ammessi qui o là passano da varie tappe, uffici, burocrazie, applications  e chi più né ha più ne metta, che spesso mietono vittime lungo la strada: giovani volenterosi che si sono lasciati vincere dalle mille scartoffie e dagli uffici tipicamente italiani.
Pertanto vale la regola d’oro:  bisogna prenderla con filosofia (non saprei consigliare esattamente quale, ma sicuramente con filosofia) e sviluppare una notevole dose di pazienza, se – da italiano – si decide di andare a studiare all’estero.
Il che detto fra noi è una fortuna, dopo tutto, perché la pazienza, si sa, è la virtù dei forti! Quindi coraggio!
Dove vuoi andare? Inghilterra, Francia, Spagna, Germania….o addirittura al di là dell’oceano?
Andiamo con ordine.
Per i liceali esiste il programma di anno di studio all’estero, il quarto. Recentemente si è anche ampliata la possibilità di ricevere borse di studio, per maggiori informazioni: www.intercultura.it .
Per lo studente universitario esistono due programmi che permettono l’espatrio accademico: l’Erasmus ed il Free Mover . Il primo si rivolge a scambi intereuropei, copre gli eventuali costi dell’università dove farai il tuo scambio, e aggiunge una piccola borsa per un po’ di pocket money – meglio di niente. Il secondo si rivolge a scambi intercontinentali, e non offre nessun rimborso: si limita a consegnarti i fogli necessari per il riconoscimento crediti quando tornerai nel tuo paese.
Attenzione però… l’uno non esclude l’altro! Si può scegliere di farli entrambi!
Se invece si è prossimi alla fine del corso di studi e ci si vuole laureare all’estero, oppure se si è un futuro dottore (spesso è sufficiente la laurea breve) interessato a qualche master straniero, le possibilità abbondano e sarebbe impossibile – ed oltremodo inutile -  elencarle tutte, ma esiste un link capace di rispondere a molte domande: http://europa.eu/youth/studying/at_university/index_eu_it.html.
La prima cosa da fare tuttavia è capire come funziona il sistema universitario straniero.
La seconda è quella di selezionare una manciata, o poco più, di scelte.
La terza è quella di cominciare la procedura per l’ammissione.
Onde evitare spiacevoli sorprese, tipo quella di non essere ammessi, è  assolutamente indispensabile muoversi per l’iscrizione con largo anticipo. Almeno un anno.
Infatti molte università e master americani, inglesi, francesi e via dicendo hanno un sistema di iscrizione  diverso dal nostro, che passa attraverso selezioni e scadenze le cui deadlines  si pongono tra dicembre e marzo dell’anno precedente. Inoltre è necessario dimostrare di aver raggiunto un livello di conoscenza della lingua straniera tale da rendere possibile la frequenza e la comprensione dei corsi. Questo passa attraverso esami che riconoscono il tuo livello. Non valgono autocertificazioni, non vale nemmeno se si è madrelingua. Bisogna presentare il documento dell’esame, per maggiori informazioni: http://formazione.tipiace.it/corsi-lingue/esami-lingua.htm
Tutto ciò che riguarda il riconoscimento crediti, le equipollenze e i trasferimenti da questo o quell’istituto varia notevolmente non solo da paese a paese, ma anche – e soprattutto -  dallo studente.
Quindi bisogna rassegnarsi! Non troverai mai un sito che ti garantisce al 100%  di essere adatto a quel programma, o ammissibile in quello scambio, e che risponderà a tutte le tue domande.
A questo punto vale la seconda regola d’oro: insisti!
Dopo esserti imparato a memoria le “FAQ” (frequently asked questions)  del sito dell’università che ti interessa, non farti ulteriori scrupoli: domanda, chiedi, ritenta, richiedi, ma sempre con molta cortesia! Metti alla prova la tua capacità di scrivere a questo o quel Sir, Madam, Monsieur, Señor che sia e ricamare con gran sfoggio di buona educazione ogni tua richiesta.
Attento, però! Se chiedi qualcosa di cui esisteva la risposta nelle suddette  FAQ, passi per imbecille!
Ogni richiesta d’ammissione domanda generalmente: CV, o simile, certificato di lingua, 2 o 3 lettere di presentazione derivanti dal mondo accademico e positive (leggi: sii il pupillo di qualche professore!), una motivazione personale (per i master di ricerca anche un progetto di ricerca) ed i transcript dei voti.
Per quanto riguarda la motivazione, vale la regola di mostrarsi entusiasti e di spiegare oltre ai motivi per cui vuoi partire ed arricchirti culturalmente, i motivi per cui loro hanno pieno interesse ad ammetterti. Ovvero devi far capire loro che valore aggiunto porterai al loro istituto.
I transcript sono i voti ottenuti al liceo o all’università e per essere considerati validi necessitano di una traduzione giurata. Ovvero un traduttore ufficiale che fronte al giudice in tribunale giura che la traduzione è veritiera (esistono uffici appositamente predisposti, la procedura richiede da 15 giorni ad un mese).  Per maggiori informazioni: http://www.traduzioni-giurate.it/
Infine se il tuo intento è quello di prenderti un anno sabbatico, molti spunti al riguardo li puoi trovare su www.ef.com.  Libero poi di seguire l’associazione o meno, puoi divertirti a scoprire in quanti modi può essere speso il tuo anno di libertà!
Per ogni altra informazione e spunto, ti consiglio di leggere gli articoli e le testimonianze presenti in questo dossier, di chi prima di te è partito all’avventura!
Non mi resta che augurarti  in bocca al lupo, e ripeterti: filosofia, pazienza, perseveranza… ne vale la pena!
Disegno di Enrica de Natale


¡Qué viva Madrid!

giugno 24th, 2009 by Nicole Tirabassi | 3 Comments

¡Qué viva Madrid!

Circa un anno fa mi sono laureata in Studi Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche dell’ Università Roma TRE. Data la natura stessa del mio corso di laurea, consideravo l’incontro diretto con una cultura straniera come un ‘tirocinio’ indispensabile. Inoltre ho sempre avuto una stessa opinione sia della Spagna sia di un’esperienza di vita all’estero: qualcosa di unico e irripetibile, da affrontare nel modo più intenso possibile. Perché allora non conciliare le due cose con un Erasmus nel cuore palpitante della penisola iberica, Madrid?
Dopo essere miracolosamente riuscita a non affogare nella giungla burocratica di moduli da riempire e lettere da inviare per inoltrare la richiesta di borsa di studio, ancora  più miracolosamente quella borsa, poi, l’ho anche ottenuta: la mia destinazione sarebbe stata la UAM,  la Universidad Autónoma de Madrid.
Secondo problema da affrontare: la ricerca di un alloggio. Quest’ultima è stata da me portata avanti sulla base di una sola, ma inviolabile regola (senza la quale si sarebbe persa l’essenza stessa di un’ esperienza di intercambio): abitare solo ed esclusivamente con inquilini stranieri. Sfortunatamente gli appartamenti del campus erano già stati tutti prenotati, allora ho fatto ricorso ad Internet e tramite un annuncio sulla bacheca virtuale degli studenti della UAM ho fermato una stanza e preso persino accordi per un servizio di accoglienza all’aeroporto! Non mi restava che partire.
La UAM è, per mia grande fortuna, tra le università pubbliche più all’avanguardia della capitale spagnola: una vera e propria città dentro la città.
L’ organizzazione interna della didattica e delle lezioni prevede un unico, indispensabile, requisito: la frequenza. La presenza in classe, il lavoro di gruppo, il dialogo costante con i professori è il perno stesso su cui è concepita l’università spagnola; totalmente diversa, in questo, dagli atenei italiani, decisamente più improntati verso un approccio individualistico al mondo accademico.
A coronare il tutto, un’amplissima offerta allo studente di qualsiasi tipo di servizi e delle più svariate attività culturali e sportive: dai corsi di spagnolo, pensati appositamente per noi stranieri, ai numerosi laboratori informatici e postazioni telematiche; dai tornei di calcio, ai concorsi fotografici, alle visite organizzate nei principali musei e centri d’arte di Madrid e in altre città spagnole, alle immancabili feste e serate in giro per la città: il divertimento è ciò che i madrileni prendono più sul serio. Di più: è ciò su cui si fondano l’approccio stesso alla socialità.
Ad una coinquilina spagnola che, al momento della partenza, mi chiedeva cosa mi sarebbe mancato di più ho risposto: “ La gente e la notte”.
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Godete della bellezza del Guernica di Picasso e commuovetevi nei  tablaos ammirando uno spettacolo di flamenco. Brindate con una copa di birra alla calorosa accoglienza che vi viene riservata dagli spagnoli ovunque andiate e, perché no, fate un po’ di locuras  in qualche discoteca.
Insomma, una volta calati in questa nuova realtà, ci si trova davanti a due mondi diversi, ma allo stesso tempo complementari: una vita diurna cosmopolita e dinamica e un universo notturno fatto di luci, colori, sensazioni e odori, di innumerevoli ambientazioni, di uscite improvvisate e sempre diverse.
Ma attenzione: quest’aria divertente, frivola e senza pretese può rivelarsi allo stesso tempo l’aspetto più negativo di un’esperienza di questo tipo: adattarsi ad una dimensione così particolare come una città con questi ritmi di vita e lasciarsi trascinare da tutta questa improvvisa  libertà può lasciare frastornati e far perdere di vista le vere priorità se non il motivo stesso per cui si è arrivati lì.  Più di uno studente mi ha confermato che ciò che di più comune accade agli Erasmus a Madrid è che, paradossalmente, si ritrovano a non essere più Erasmus: presi da questo continuo andarsene de fiesta, smettono di frequentare l’università, trovandosi poi a non essere più in grado di portare avanti i loro studi lì, dovendo spesso tornare a casa prima del previsto, con l’amaro in bocca  per la delusione che hanno procurato a sé stessi.
Movida o no, gli esami – ahimé – prima o poi arrivano per tutti e il consiglio che mi sento di dare è di considerare, fin dal primissimo giorno, l’Università come un lavoro… per lo meno io me la sono cavata così!
Dovendo fare un bilancio personale di quest’esperienza, il mio è, a conti fatti, più che positivo: vivere all’estero comporta una crescita a livello sì culturale, ma soprattutto personale. Le responsabilità e gli impegni da portare avanti, così come tutte le persone e le culture con cui si è venuti a contatto, rappresenteranno un network indispensabile nel futuro e un bagaglio preziosissimo.
Buon Erasmus a tutti!


Italia-Berlino sola andata

giugno 24th, 2009 by Valentina Carraro | No Comments

Italia-Berlino sola andata

Il terzo giorno di lezione del mio primo anno di università mi sono ritrovata in coda davanti all’ufficio Erasmus del Politecnico di Milano. A settembre sono partita per Berlino e ora, quasi 2 anni dopo, sono ancora qui, intenzionata a restare, almeno per un po’. Come mai tanta fretta? Cosa c’è di tanto insopportabile nel vivere in Italia? Sono bastate 72 ore di università per decretare che la situazione era insostenibile? Proporrei di rovesciare la prospettiva: in fondo perché no?
Vivere all’estero è divertente, apre la mente, permette di scoprire città e paesi diversi dove le cose vanno diversamente. Può essere d’aiuto nell’imparare a sbrigarsela da soli, o nell’apprendere una lingua straniera. Infine si riesce a guardare se stessi, il proprio paese e le proprie abitudini da una certa distanza, o almeno ci si può provare. Ovviamente sono cose che si possono fare anche standosene a casa, ma almeno nel mio caso partire è stato d’aiuto e mi ha aiutato a capire alcune cose.
Per esempio, ho sempre creduto che gli italiani fossero considerati in generale un popolo simpatico, magari un po’ troppo rumoroso, ma comunque solare e socievole. Non è stato piacevole scoprire che invece tendiamo ad essere visti come un ibrido tra il Padrino, Rocky Balboa e Berlusconi: pigri, non troppo onesti e un po’ tamarri. Delle macchiette che nelle pubblicità rivendicano con accento improbabile la superiorità della nostra nazionale di calcio. Non parlo di razzismo, ma piuttosto di stereotipi superficiali, che risultano particolarmente spiacevoli quando sono rivolti verso di noi. Detto questo, Berlino è una città meravigliosa proprio perché, pur rimanendo in tanti particolari smaccatamente tedesca, ha accolto mille anime diverse, dai Turchi agli Arabi ai Polacchi agli Italiani. E per fortuna, perchè se kebab e felafel non fossero così facili da reperire sarei morta di fame da un pezzo!
All’interno di questa comunità di stranieri c’è un gruppo etnico particolare, gli studenti Erasmus. Escono tra di loro, a volte comunicano in inglese, a volte in una lingua ibrida tra lo spagnolo e l’italiano, a volte in un tedesco molto fantasioso. Vengono visti con diffidenza e sufficienza dalla popolazione locale e forse per questo come Erasmus è incredibilmente difficile “integrarsi”. Ma non c’è ragione di avere paura, non sono pericolosi. Per reazione, all’università come fuori, tendono a fare amicizia tra loro e senza dubbio riescono a divertirsi ugualmente. Perdonate l’euroentusiasmo, ma non è in qualche modo di buon augurio il fatto che “gli erasmus” si riuniscano, come in passato facevano i connazionali all’estero? Mi sembra che la cosa faccia ben sperare: questo genere di esperienze potrebbe aiutarci a diventare europei, al punto che in futuro vivendo all’estero non ci si senta poi così stranieri.
La cosa ovviamente funziona, almeno per il momento, solo se pensata all’interno di grandi città. Il nostro Paese, come tanti altri, ha non pochi pregi e molti difetti, ma una cosa che gli manca è una vera metropoli. Si ha l’impressione che ovunque sia un po’ provincia. Per fare un esempio, se ci troviamo nella metro a Milano e sentiamo qualcuno conversare in una lingua diversa dall’italiano (e dal dialetto bergamasco) tendiamo ad alzare lo sguardo. In una metropoli al giorno d’oggi questo non succede.
Riguardo all’università in termini più generici, è difficile farsi un’opinione e non credo di poter esprimere giudizi di valore. In parte perché, in Italia come in Germania, gli ordinamenti vengono cambiati con la stessa frequenza con cui certe persone cambiano i calzini; in parte perché è impossibile, partendo dall’esperienza personale, farsi un’idea generale di un sistema universitario. Ma anche in questo caso è interessante scoprire che non solo l’approccio a determinate materie può essere differente, ma anche il modo di rapportarsi con professori, dipartimenti e istituzioni. Qui è tutto molto più informale e diretto. L’importante è rendersi conto che il “nostro modo” non è l’unico e non è per forza il migliore.
L’idea di partire può fare paura. Lasciare casa, amici, famiglia e abitudini a cui si è affezionati spaventa. Niente più cornetto e cappuccino alla mattina (in compenso si può però ripiegare su un capucino o un cappucchino, e ogni volta rivivere l’emozione di non sapere cosa ci porteranno). Ma non vale la pena di farsi spaventare. Vivere all’estero nel 2009 è diverso da quello che immagino potesse voler dire emigrare nel 1948. Abbiamo internet, le e-mail, Skype, i social network, che ci permettono di comunicare con chi è rimasto a casa. Soprattutto in Europa prendere un aereo è diventata una cosa economica e normale, che, scrupoli ecologici a parte, si può fare molto frequentemente. Insomma non è poi così traumatico. Non vorrei suonare melodrammatica, ma lo studio all’estero è un’esperienza che davvero può cambiare la vita. Se si vuole poi si può sempre tornare indietro. Se si vuole.


Una summer school a Londra

giugno 24th, 2009 by Roberto Priolo | 4 Comments

Una summer school a Londra

Tutti sanno quanto la strada verso la professione giornalistica in Italia sia ripida ed accidentata. Il nostro Paese ha un concetto di informazione tutto particolare, e troppo spesso quello che si legge sui giornali o si vede in televisione non è altro che una versione rivista, corretta e censurata della realtà dei fatti. C’è chi, nonostante questo, non si lascia intimorire e prosegue determinato verso un lento ingresso nel sistema mediatico italiano.
Questa per me non è mai stata un’opzione accettabile. Fin da quando ho cominciato ad interessarmi del mondo attorno a me ho scelto di consultare testate straniere per ottenere le informazioni che mi interessavano. Le ho sempre trovate più concentrate sui fatti che sulle opinioni, e mai spaventate di “andare contro” il potere. Già a sedici anni, nonostante la mia conoscenza dell’inglese ai tempi fosse decisamente incerta, preferivo l’Herald Tribune al Corriere, o il sito della CNN a quello di Repubblica.
Questo mi ha spinto, nel 2006, ad iscrivermi alla summer school della London School of Journalism, un’esperienza che, ero certo, mi avrebbe confermato quanto mi sentissi più attratto dal mondo dell’informazione anglosassone rispetto a quello italiano.
E così è stato. Sebbene il programma della summer school sia necessariamente molto concentrato e bombardi lo studente di nozioni, metodi e approcci al giornalismo britannico, questi trenta giorni di full immersion sono stati, ad oggi, una delle esperienze più formative del mio background accademico.
La London School of Journalism è un’istituzione privata, che si differenzia, ad esempio, dai Master in giornalismo per il suo focalizzarsi sulla pratica piuttosto che sulla teoria. Certo, la teoria ci è stata insegnata, ma il mio agosto londinese di quell’anno è stato principalmente caratterizzato da numerosissimi assignment e uscite durante le quali era richiesto a noi trainees di fare interviste, andare a caccia di notizie, visitare mostre per poi scriverne una review.
Non è solo il programma della scuola ad essere poco “accademico”. Anche l’ambiente è decisamente informale, anche se con un corpo di insegnanti estremamente serio. Professionisti del giornalismo, scrittori con una incredibile esperienza. Dal travel al feature writing, dallo sport al broadcast alla radio, ogni settore del giornalismo è affrontato.
Gli studenti, una cinquantina, provenivano da ogni angolo del pianeta: molti Inglesi, qualche Italiano, e poi Francesi, Arabi, Africani, Americani. Chi più simpatico, chi meno. Ma non è questo il punto. E’ stato estremamente interessante conoscere tante persone, provenienti da ambienti così diversi, con così tante aspirazioni. Indubbiamente scoprire dopo due settimane di corso che la tizia che aveva parlato a noi italiani in inglese per tutto il tempo era in realtà una alto-atesina di Bolzano poco orgogliosa della sua nazionalità ma con un italiano impeccabile era stato abbastanza irritante, ma nulla avrebbe potuto rovinare l’atmosfera stimolante e di scambio che si era venuta a creare nella classe. Tra una birra al pub dietro la scuola e una cena al ristorante etiope, ogni momento trascorso con i compagni di corso scorreva rapidissimo, e lasciava sempre qualcosa di interessante su cui riflettere.
Nella magnifica, travolgente e al contempo accogliente cornice di Londra, fucina di idee, tendenze e notizie, un aspirante giornalista può sicuramente sbizzarrirsi, e l’aiuto fornito dagli insegnanti nella revisione degli assignments è assolutamente determinante. Ogni studente è seguito con attenzione, e consigliato, bacchettato se necessario.
Alla LSJ viene spiegato come “vendersi” ad un possibile datore di lavoro, come proporre le proprie idee, come gestire la creazione di un articolo, come ricercare le notizie, come rapportarsi con chi si intervista, e via dicendo.
Naturalmente un numero così alto di moduli concentrato in quattro settimane comporta il rischio che alcuni possano perdersi, o non assimilare a sufficienza. In parte è capitato anche a me. Ma per quanto mi riguarda il risultato più importante che ho ottenuto frequentando questo corso è stato il capire una volta per tutte che voglio che il mio futuro sia nel mondo del giornalismo.
La London School of Journalism offre anche un diploma postgraduate, più approfondito e diluito in diversi mesi, che credo frequenterò il prossimo autunno.
Non che la summer school non sia stata sufficientemente formativa! E’ che ora ho deciso finalmente di trasferirmi a Londra, e voglio fare in modo di aver stampato bene in testa tutto quello che devo sapere per riuscire a diventare giornalista in UK. E per farlo voglio seguire un corso più strutturato, che mi dia il tempo di assorbire quanto mi viene insegnato e, con un po’ di fortuna, di metterlo in pratica.
Da quel che mi pare di capire, anche dal confronto con amici e conoscenti, il sistema post-superiori in Gran Bretagna è molto concentrato sull’idea di fornire allo studente gli strumenti, le conoscenze e i consigli necessari ad entrare nel mondo del lavoro. Secondo il mio parere, nell’università italiana, al contrario, troppa è la teoria e troppo poca è la pratica.
I miei numerosi ma brevi soggiorni degli ultimi anni nella capitale inglese non sono più abbastanza. O forse è la vecchia Milano ad avermi stancato. Cosa è certo è che a settembre tornerò a Londra, e che ci resterò per un po’. E se non fosse stato per la summer school alla LSJ nel 2006, forse oggi starei ancora cercando di trovare la mia strada!



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