Se una notte d’estate un manipolo di teatranti
agosto 3rd, 2009 | Pubblicato in Opinioni di Francesca Livia Mangani Cammilli
Prendete una decina di attori, un paio di tecnici, un regista e qualche “aficionados”.
Prendete una rassegna teatrale alla quale i nostri partecipano in trasferta intercittadina, anche se non (ancora) interregionale.
Aggiungete una buona dose di spirito di gruppo e – ardisco – amicizia, improvvisi cambi di programma all’ultimo secondo, qualche principio d’insolazione e crisi di nervi sparse qua e là.
Condite il tutto con il panorama meraviglioso del mare elbano d’inizio estate, e con quello molto meno entusiasmante del camping dove i nostri alloggiano dividendo i già ristrettissimi spazi vitali con una fauna locale decisamente troppo desiderosa di fare amicizia.
Otterrete la ricetta perfetta per ciò che potremmo definire una fra le esperienze più belle, importanti e formative che un gruppo di persone unite dal sacro fuoco dell’arte teatrale possano sperimentare: rappresentare uno spettacolo in luoghi diversi da quelli, angusti ma rassicuranti, di casa propria.
Ancor più, rappresentarlo per partecipare ad un concorso e, come logica conseguenza, in competizione con altri gruppi teatrali animati dalle stesse belle speranze.
Come ben sa chi ha avuto la fortuna di sperimentare l’emozione che vi sto raccontando, salire su un palco è di per sé un’esperienza esaltante, in grado di unire in maniera profonda (e spesso altrettanto profondamente incomprensibile per chi osserva il fenomeno dall’esterno) percorsi di vita e d’arte che altrimenti sarebbe difficile immaginare collegati.
Se volessimo analizzare questo processo, troveremmo sicuramente l’adrenalina legata al momento dell’esibizione, che (e per molti è stata la prima volta) vedeva la presenza di un pubblico non “addomesticato”, cioè non composto da amici/parenti/conoscenti, come invece capita durante i vari spettacoli/saggi/esibizioni rappresentati da una giovane compagnia amatoriale.
Un pubblico vero, che non fa sconti e non applaude per amicizia; quello, insomma, che alla fine è il solo giudice dell’operato di un attore professionista.
E’ una realtà innegabile: se uno spettacolo non incontra i favori di chi si è scomodato a pagare il biglietto – o semplicemente si è scomodato ad uscire di casa per raggiungere quel Paese dei Balocchi che è il Teatro – c’è chiaramente qualcosa che manca.
Nella migliore delle ipotesi (perché possono essere lacune colmabili; è difficile, ma si può fare) si tratta di mancanze registiche, di errori di sceneggiatura o di interpretazione. Nella peggiore, quel che manca è il talento, e allora è tutto molto, molto più complicato, perché non c’è nome di grido, produzione milionaria o artifici tecnologici che possano supplire a questo.
Diffidate sempre di un teatrante che lamenta d’essere un genio incompreso e sostiene di non curarsi della reazione della platea perché “tanto quello che conta è essere soddisfatti di se stessi e aver fiducia nel proprio talento”.
Tutte balle.
Ogni attore desidera essere adorato dal pubblico; vuole, fortissimamente vuole ogni singolo “Bravo!” che riuscirà ad ottenere.
L’attore vive per i suoi spettatori ed è tale in funzione di essi – altrimenti si accontenterebbe di recitare Shakespeare davanti allo specchio di camera sua – e ha sempre disperatamente bisogno di un pubblico, possibilmente plaudente.
Chi vi dice il contrario mente.
Capita così che anche digiunare per ore, dormire poco o niente, dividere la doccia con scarafaggi più grandi del campioncino di shampoo che ti sei portato per fartela, la doccia, viaggiare in sette su un’unica macchina mettendo a rischio i punti della patente dell’autista e la mobilità articolare dei passeggeri, capita che tutto questo diventi un’esperienza di cui sorridere, da ricordare con affetto e un pizzico di nostalgia.
Fino alla prossima “tournée”.
P.S. Giusto per dovere di cronaca, ci tengo a dire che il lavoro che abbiamo presentato al festival è stato molto apprezzato sia dagli “addetti ai lavori” che dal pubblico “vero” di cui sopra, tant’è che uno degli attori, a cui va la mia – ma sono sicura di parlare anche a nome del resto della compagnia – più profonda stima umana e artistica, si è meritatamente aggiudicato il Premio come Miglior Attore non Protagonista.
Chissà se nella foto che riunisce tutta la Compagnia (ad eccezione del nostro regista, che sono convinta sia diretto discendente di una di quelle tribù africane per le quali farsi scattare una foto equivaleva a venire derubati dell’anima, e dei meravigliosi tecnici, forse già in altre faccende affaccendati), scattata la sera precedente l’esibizione sulle gradinate dell’anfiteatro che ospitava il festival, si sarebbe immaginato tutto questo.
Io, Matteo, ne ero sicura.
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