Bulgacov, valchirie e postcomunismo
giugno 6th, 2009 | Pubblicato in Attualità di Chiara Massaroni
Mi piace portarmi dietro libri quando viaggio. Soprattutto libri che parlano delle città in cui sto andando, romanzi ambientati in quel Paese, in un’altra epoca, magari. Si può iniziare a viaggiare da casa. Pregustare il sapore di vodka e caviale stando sdraiati sul divano del salotto, e poi sentirne finalmente il sapore in bocca, una volta arrivati a Mosca. Visitare una Mosca nuova, coll’occhio della mente rivolto a quella città trasformata, scomparsa ma ugualmente affascinante, conosciuta solo sulla carta stampata.
Per chi viaggia con i libri, di solito a Mosca ci arriva accompagnato da Gogol, o sottobraccio al giocatore di Dostoevsky, oppure con Puskin. Io ci sono arrivata con Bulgacov. Non, però, con il classico “Maestro e Margherita”, che è forse l’ideale per andare alla ricerca della Piazza Kudrinskaja o del teatro di varietà della città. Ci sono capitata con in mano i suoi autobiografici “Appunti di un giovane medico”, una lettura invernale che racconta lontane e fredde campagne fuori Mosca. Sono quadri di una Russia di provincia, siberiana, dura, gelida, superstiziosa e antichissima. All’inizio quei racconti così rurali stridevano contro la visione di questa Mosca moderna, dei suoi enormi palazzoni del periodo comunista e dei casinò luminosissimi, delle Mercedes e dei SUV che intasavano i marciapiedi dell’Arbaat nuova, dai vetri oscurati, dalle quali uscivano corpulenti uomini con i radi capelli biondi e il viso un po’ arrossato e butterato. All’inizio non riuscivo a trovare la mia Mosca di Bulgacov. Ma lei era lì, in realtà, di fronte ai miei occhi. Si era solo un po’ nascosta. Cercando bene era dietro l’angolo.
Era rimasta incastrata nel sorriso sdentato di una vecchia che, all’angolo della metropolitana Smolenskaja, vendeva mazzolini di fiori viola, mentre, dietro di lei, le belle statue del “Proletario” ci ricordavano i fasti del comunismo. La Russia di Bulgacov me la sono ritrovata contro in tutti gli uomini stesi a terra a causa dell’alcol il sabato mattina, accasciati sulle panchine, bocconi sui bordi dei marciapiedi, le pance enormi, gonfie, tese e lucide al sole, come otri pieni. L’ho assaggiata nel sapore acidulo del latte e l’ho rivista nella vecchia Arbaat, una strada pedonale dove, nella mandria di turisti torvi, strani individui sembrano usciti da un’altra epoca: una valchiria bellissima, con lunghe gambe bianche e capelli biondi al vento cavalca verso di me nella folla. Mi passa accanto al trotto e un attimo dopo mi domando se l’ho vista davvero o l’ho solo immaginata. Un ragazzo ubriaco vende spillette con falce e martello e cianfrusaglie del comunismo.
Accanto a queste scene di vita quotidiana, a questa sofferenza autodistruttiva che è in ogni angolo delle strade, ai soldati mutilati, che chiedono l’elemosina mostrando il moncone della gamba e del braccio, il residuo di un’altra guerra iniziata o finita, accanto a tutto questo Mosca affascina , comunque, con quella sua aria imponente, maestosa, che ricorda tante epoche diverse che si sono succedute e che se ne sono andate. E, alla fine, in fondo a questi occhi induriti, lontani, arrossati di vodka e di fumo di sigarette ritrovi i contadini di Bulgacov di più di mezzo secolo fa.
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