“Si fa presto a dire America”, scriveva Vittorio Zucconi qualche tempo fa, come a ricordarci che l’America, in realtà, è tante cose, molte delle quali, forse, solo nella nostra testa. “Si fa presto in America”, storpierei io quel famoso titolo per adattarlo meglio alla mia esperienza. Sono infatti dieci anni ormai che faccio spola tra le due sponde dell’Atlantico e non so trovare modo più immediato per descrivere ciò che ho visto sull’altra riva del Grande Lago che questo: l’America è il Paese dove le cose succedono per davvero.
Come “per davvero”? Perché nel resto del mondo si fa forse per finta? Certo che no, ovviamente. Quello che intendo è che, da europeo quale sono, il mio sbarco in America è stato solo l’inizio di una lunga avventura all’insegna del “succedere” e, visto che le cose non accadono casualmente, ma devono essere fatte, anche un’avventura all’insegna del “fare”. Sarà che l’“impero americano” per essere deve anche fare, se spera di perpetuarsi; sarà che il “Nuovo Mondo” è più un attitudine dello spirito che una strana nozione di geografia anagrafica (cioè fatta di giovane e vecchio, non di est e ovest), ma la sensazione prevalente di chi vive in America da non americano è che le cose siano finalmente come uno le ha sempre lette nei libri (che fossero fumetti o romanzi, poco importa), cioè vere, copiose, vive.
Le piogge sono torrenziali, gli edifici alti sono veramente alti, la polizia dà davvero la caccia ai ladri, e i ladri non sono ladri per finta ma per davvero, con tanto di pistola e mascherina (la seconda a volte no, ma la prima, ahimè, quasi sempre). I giovani, poi, sono giovani davvero, pieni di entusiasmo per le cose che fanno. Le tipe, infine (informazione confidenziale), “la danno” per davvero. E, per non apparire maschilista, devo dire che i tipi non sono da meno, straight or gay che essi siano. Insomma, non è un fatto banale di “facilità”, come si pensa di solito da noi. Ma, o così almeno amo pensare io, di naturale inclinazione all’“amplesso con la vita” e le sue molteplici forme, inclusa quella sessuale. Come mi illuminò un giorno il mio “compagno d’America” nonché pungente osservatore, Gregorio: “l’Impero ha da scopà;” vale a dire, ha da disseminare se stesso, se vuole riprodurre il suo modello.
Lasciamo un attimo da parte le piogge torrenziali e gli altissimi edifici – anche se sul rapporto tra la maestosità della natura americana e la grandezza dei suoi abitanti e delle sue istituzioni, da quelle politiche a quelle urbanistiche – si sono spesi nomi illustri e su tutti il mitico Theodore Roosevelt. Lasciamo anche da parte i ladri e i poliziotti, anche se sul giocare a guardia e ladri negli Stati Uniti sono state scritte tra le più belle pagine della letteratura americana con un penna quasi sempre intinta nel calamaio della sociologia. Ma quando si parla di giovani che si realizzano e di tipe “che la danno”, beh, qui si entra in acque sicuramente politiche e la “cultura dell’individuo” e niente meno che il concetto di “egemonia”sono due approdi possibili.
Il primo è in fondo il più sicuro per chi prova a spiegare, senza andare troppo per il sottile, l’operosità, anzi la capacità di azione degli Americani. L’America rimane il luogo sulla terra in cui per tradizione politica e religiosa, il culto dell’individuo è stato più permeante ed ha fatto più adepti. Dare pieno sfogo alle proprie capacità individuali, innate o acquisite, e “aggredire” la realtà circostante (compreso il tuo prossimo con pistola e mascherina) perché ne porti una chiara impronta, è anche una, se non la ideologia che ispira il “sogno americano” del “self-made man” e su cui si è costruito un nazionalismo del tutto particolare: comunitario ma profondamente individualista, patriottico ed al contempo universalista.
Ma se una ragione del fare e del succedere in America, quella originaria, è la cultura dell’individuo, l’altra e più pregnante, si diceva, è forse l’“egemonia”. Di egemonia si fa un gran parlare e di “egemonia americana” ancor di più. Egemonia, dice il vocabolario, è “capacità di guida”, non solo potere. Anche senza scomodare Gramsci e le sue riflessioni sul tema, è tuttavia possibile illuminare un altro aspetto del concetto di egemonia: l’“essere dentro alle cose”. Può sembrare una contraddizione, se non un paradosso, che chi guida sia dentro e non invece più avanti e o più in alto delle cose che guida. Ma la logica, per così dire, dell’egemonia è che gradualmente essa finisce per plasmare la realtà attorno – sociale, politica, ma anche fisica – a sua immagine e somiglianza. L’egemone, in altre parole, finisce per vivere nel mondo che vuole, vale a dire lo egemonizza. E questo, io credo, può aiutare a spiegare perché l’America è il posto dove “le cose succedono davvero” e dove si fa, prima e a volte in luogo del teorizzare o discutere. Gli Americani vivono in larga misura nel mondo che vogliono. Essi sono il mondo che vogliono. Essi sguazzano, si potrebbe dire, nell’acqua in cui nuotano. Perché, per quanto terrorizzati che qualcuno gli rubi il posto, la piscina l’hanno in definitiva disegnata loro in origine. Essi ne hanno stabilito le regole. Essi hanno dato loro il nome.
Quello di dare il nome alle cose non è un aspetto di poco conto. Perché se il fare e il parlare sono cose distinte, tra il nominare e il fare c’è invece un’intima relazione perché il nominare, come ci insegna la Bibbia, è parte del creare. E l’inglese, lingua ormai necessaria per chiunque voglia partecipare e non solo assistere al mondo in cui viviamo, è la prova più schiacciante dell’egemonia americana. Una lingua che del “fare” non è che la narrazione, il “discorso”. Dove il mondo diventa una cassa di risonanza di ciò che l’America è e dove ogni scostamento dal modo deciso nel Paese dove le cose succedono per davvero diventa una stonatura che va in qualche modo corretta.
E qui si arriva davvero all’ultimo punto che potremmo chiamare, con un po’ di enfasi, dello “sfacelo …