Entries from settembre 2008

Lo mejor que le puede pasar a un cruasán

settembre 29th, 2008 by Michelangela Di Giacomo | No Comments

Lo mejor que le puede pasar a un cruasán

Barcellona. Un qualche momento degli anni ‘90. Una camicia pacchiana, una bestia nera per mezzo di trasporto, una bevuta di rubinetto e una canna per far passare la sbornia da vodka della notte precedente. Baloo Miralles. Protagonista inaspettato di un romanzo giallo che si sostiene in un precario equilibrio tra una moderna famiglia Buddenbrook e visionarie apocalissi sociali alla Eyes wide shut. Ritratto di una decadenza asfittica ma compiaciuta, di vie di fuga da una società che scivola, precipita verso derive petronesche nella quale la promessa di una vita diversa solo sembra essere costituita da un rifugio estremo nella filosofia


I (still) like Ike!

settembre 29th, 2008 by Filippo Chiesa | 1 Comment

I (still) like Ike!

Entrambi i candidati alla presidenza Usa sembrano volersi assicurare l’eredità di Dwight Eisenhower per vincere le elezioni 2008. McCain punta sulla sua esperienza militare, presentandosi come uomo pronto a navigare il Paese tra le burrasche del mondo, come fece Eisenhower per convincere gli Americani della sua capacità di portare a termine la guerra in Corea. Obama si rivolge alla classe media con politiche fiscali mirate a ridurre le tasse al 95% della popolazione, sperando di avere il “ventre” del Paese – che votò in massa per Eisenhower negli anni ‘50 – dalla sua parte sulle questioni economiche.

Le luci si accendono. L’atmosfera è quella d’altri tempi. L’introduzione di Jim Lehrer, moderatore di PBS, è concisa. Richiama il pubblico all’ordine, permettendo solo un applauso quando Barack Obama e John McCain entrano in sala per il primo dibattito televisivo della campagna ‘08.
Obama entra da destra, McCain da sinistra. I due convergono al centro della sala, si stringono la mano. Non si abbracciano, niente pacche sulle spalle. Sarebbe forse troppo in un momento in cui la crisi finanziaria rischia di fomentare rigurgiti di antipolitica nell’opinione pubblica americana. Né i democratici né i repubblicani possono permettersi eccessi di gioia quando sono sotto gli occhi di tutti, neanche se fosse la gioia del fair-play.
Il dibattito dovrebbe riguardare politica estera e sicurezza nazionale, ma in pochi credono a categorie a compartimenti stagni. Jim Lehrer cita Eisenhower: “La nostra forza militare dipende, in ultima analisi, dalla nostra potenza economica”. Il collegamento è fatto, sembra quasi banale nella chiarezza dell’eloquio di Larry. La crisi finanziaria è per definizione materia di sicurezza militare e politica estera. Pronti, via. La prima domanda è sull’economia: quali sono i piani dei candidati per guidare il paese fuori dalla crisi? Obama parte bene, correndo sui binari eisenhoweriani tracciati da Lehrer: parla di ridurre le tasse per la “middle-class”. Punta l’indice contro il liberismo economico di Bush e McCain per aver contribuito al crack di Wall Street. McCain parla di “bipartisanship”, ma sembra rincorrere Obama persino nelle immagini linguistiche: anche a lui interessano le persone che vivono su “Main Street” più di quelle che speculano su “Wall Street”. Appare più credibile nella determinazione a tagliare la spesa, ma scivola sul “corporate tax rate”: gli Usa ce l’hanno al 35%, troppo, l’Irlanda l’ha abbassata all’11%. Lo sa McCain che l’Irlanda sarà il primo Paese europeo a entrare in recessione economica quest’anno? Obama perde l’occasione di ricordarlo.
Si passa alla politica estera vera e propria. Lehrer chiede ai due quali siano le lezioni della guerra in Iraq, sperando in un’elaborazione storica che possa servire per il futuro. Ma McCain si butta sul presente, dicendo che la nuova “surge strategy” sta producendo enormi successi. “We are winning in Iraq. Let us win”. Obama si butta sul passato, ma senza elaborare in modo approfondito su guerra e esportazione della democrazia. “John, you said we would win quickly and that we would be greeted as liberators. You were wrong”. Il colpo è azzeccato, ma non rassicura molto il pubblico sul futuro. McCain rincara la dose: “Forse il senatore Obama non capisce che una exit strategy con tempi predeterminati vorrebbe dire sconfitta”.
Obama non risponde in modo convincente, ma sposta l’attenzione sull’Afghanistan, ricordando il bisogno di più truppe per stanare Al-Qaeda. “Ci siamo fatti distrarre dall’Iraq e Osama Bin Laden sta riorganizzando i suoi gruppi in libertà”. McCain non spiega come intende soddisfare il bisogno di più truppe in Afghanistan, mantenendo la presenza in Iraq senza un piano per il ritiro. Se la cava però giocando abilmente sulla sua esperienza: “Io ho viaggiato, sono stato in tutti questi posti, a differenza del senatore Obama. E so di cosa abbiamo bisogno per vincere”.
Sul resto – Pakistan, Iran, Russia – emerge qualche differenza sulle rispettive visioni della politica internazionale. Obama mostra di comprendere la dinamica del bilanciamento dei poteri nella geopolitica: “Il nostro intervento in Iraq ha favorito enormemente l’Iran, perché abbiamo destabilizzato il suo maggior nemico dell’area”. E loda le doti della “diplomazia diretta”. Engage diventa la sua parola vincente. McCain parla invece di “Lega delle Democrazie” per contrastare le ambizioni nucleari iraniane. Obama non è d’accordo. La forma di governo non è determinante nei giochi diplomatici: “Abbiamo bisogno anche di Cina e Russia che, sebbene non-democrazie, possono avere interesse a prevenire la proliferazione nucleare”.
Il resto è più scontato. McCain ripete di non avere bisogno di “on-the-job training”, rassicura i veterani, passa per la persona navigata che è. Obama invoca una “broader strategic vision” per la nuova politica estera americana, che dovrà restaurare l’immagine degli Usa nel mondo. A McCain spetta la battuta di chiusura: “I know how to heal the wounds of war”. L’immagine rassicurante del nonno premuroso. Molto in sapore Eisenhower. Efficace e rassicurante per chi teme le conseguenze di un ritiro dall’Iraq. Si chiude. McCain applaude felice per come è andata. Stringe la mano a Obama come all’inizio. Con sicurezza, ma senza eccessi di cordialità. “Good job John” gli riconosce Obama. “Good job”, gli risponde l’altro.
Sia McCain sia Obama possono sfruttare il “fattore Eisenhower”. McCain ne prende il lato della politica estera: Eisenhower fu in parte eletto per portare a termine con onore la guerra di Corea. Il senatore dell’Arizona vuole ora mostrare che la vittoria con onore è a portata di mano in Iraq. E così compiace chi si commuove al sentire la parola victory e chi vuole riportare le truppe a casa con il senso di aver raggiunto un risultato. McCain vuole essere il nuovo Eisenhower della politica estera. L’esperienza del veterano come garanzia di capacità presidenziale.
Obama gioca invece sul lato domestico dell’eredità di Eisenhower. Parla di “middle-class”, quella middle class in cui un milione di famiglie all’anno vennero risucchiate negli anni di Eisenhower . In tempi di grave crisi economica le politiche economiche di Obama possono attirare i voti di larghe fette della classe media americana. Meno esperto in politica estera, ma più dinamico sulle questioni di economia interna. In fin dei conti, proprio la middle-class potrebbe essere la forza trainante del giovane senatore dal sangue keniota che …


West Marin, un paradiso nascosto

settembre 26th, 2008 by Roberto Priolo | 3 Comments

Il viaggio è soprattutto un percorso interiore, un cammino che intraprendiamo con l’emozione e il desiderio di scoprire le mille realtà e sfaccettature di cui la meta prescelta è costituita. Quello che ci rimane da un viaggio non sono solo fotografie e filmati, ma i nostri ricordi, i sentimenti che uno scorcio, una città, un incontro hanno suscitato in noi.
Soprattutto però, il viaggio rappresenta il nostro io di fronte ad una realtà altra, sconosciuta e stimolante. È proprio per questo che spesso i viaggi che ci rimangono più impressi e ci lasciano di più sono quelli che meno somigliano alla tipica vacanza. Così è stato per me, almeno. Un soggiorno di tre mesi in California mi ha permesso di scoprire cosa per me voglia dire davvero viaggiare: confrontarsi con un mondo nuovo ed imparare a viverlo ogni giorno, come se fosse sempre stato tuo.
A nord di San Francisco, oltre il maestoso Golden Gate Bridge, si estende Marin County, che da Sausalito si spinge a nord verso i vigneti di Napa e Sonoma, lungo la celebre autostrada 101. L’anno scorso ho avuto il piacere di chiamare casa la zona occidentale di questa contea, West Marin, uno dei luoghi più peculiari e al tempo stesso meravigliosi che abbia mai visto in vita mia, oltre che uno degli ultimi paradisi esistenti in Terra.
Parliamoci chiaro, non è stato facile per uno come me, amante appassionato della vita di città e della frenesia metropolitana, abbandonare le abitudini quotidiane fatte di traffico, università e aperitivi per trasferirmi in una zona rurale della California centro-settentrionale. Ma un’offerta di stage presso un settimanale locale vincitore di Premio Pulitzer e un periodo di depressione di un anno hanno anche questo potere.
Così a febbraio 2007 sono partito per la California, con in testa una paura paralizzante e al contempo un’aspettativa incredibile. Conoscevo già San Francisco, indiscutibilmente una delle città più belle ed affascinanti del mondo, ma non avevo mai sentito parlare di West Marin, principalmente perché i suoi abitanti custodiscono gelosamente il segreto di vivere in una terra meravigliosa, l’unica che nella Bay Area è scampata ai vari boom edilizi che si sono susseguiti negli anni ed ha mantenuto il suo aspetto di un tempo.
Geograficamente parlando, West Marin si concentra attorno alla Point Reyes Peninsula, delimitata a sud dalla laguna di Bolinas, a est dalla lunga e stretta Tomales Bay e a ovest dal Pacifico. Su questo territorio si trovano una serie di cittadine piccolissime, che tutte assieme formano una comunità estremamente compatta e solidale, fatta di ex-hippie, artisti, attivisti politici, ambientalisti. E’ una delle contee con maggiore tenore di vita negli States.
Nonostante si tratti di una realtà rurale, la vicinanza di San Francisco e di Berkeley danno a West Marin un’aria sofisticata e ne fanno un centro culturale vivace e all’avanguardia. I suoi abitanti sono cordiali, colti, disponibilissimi, specialmente con me, l’intern italiano che lavorava per il giornale. Ma sono anche persone un po’ strambe.
La prima volta che ho capito che West Marin ha qualcosa di strano è stato quando, durante un’intervista, un tizio si definì un newcomer, vivendo a Bolinas da “appena” 25 anni. E io che già mi sentivo a casa!
Un’altra volta, mentre guidavo la mia macchina nella via principale di Point Reyes Station, non lasciai attraversare una donna con i suoi due bambini, una cosa che a Milano capita probabilmente un milione di volte al giorno. A mia discolpa posso dire che non andavo veloce e che la signora non era sulle strisce ed era appena scesa dal marciapiede. Una volta parcheggiata l’auto accanto al supermarket, la donna mi raggiunse e mi disse:
“That was not very nice”.
“What wasn’t very nice?”
“Oh, please…. You know what you did!”
“I really don’t,” dissi io, che davvero non mi ero reso conto di quanto fosse appena successo.
“You know, this is a nice place”, rispose laconica, con uno sguardo che mi etichettava come il teppistello appena arrivato in città per scombussolare la vita di tutti, per poi voltarsi rabbiosa e andarsene.
Non solo, ogni volta che mi accendevo una sigaretta incrociavo lo sguardo di qualcuno che mi guardava con disgusto.
A West Marin si vive nella natura e per la natura, e la salute è la cosa che conta di più in assoluto, ma trovavo eccessivo il modo in cui venivo guardato ogni volta che fumavo. Allo stesso tempo, mi sentivo in colpa per il fatto di prendere la macchina per andare al lavoro, con decine di persone che invece usano la bicicletta.
Sotto molti punti di vista, West Marin è un luogo di eccessi. La prima volta che sono andato a Bolinas, ad esempio, mi sono ritrovato nella via principale della cittadina, Wharf Road, che è popolata principalmente da homeless, ubriaconi e tossici, il tutto in un’atmosfera di abbandono e decadenza. Ero convinto che Bolinas si limitasse a questo, e mi domandai cosa portasse i suoi abitanti ad essere tanto gelosi della loro cittadina così degradata. Qualche giorno dopo capii. Wharf Road serpeggia ai piedi di un piccolo altopiano, noto ai più come la Little Mesa, completamente circondata da altissimi alberi di eucaliptus che la rendono invisibile a chiunque si trovi sulla via sottostante. Pensavo si trattasse di una foresta, di un’area senza costruzioni. Una volta salito sulla Little Mesa quello che vidi mi sorprese: bellissime casette in legno a picco sull’oceano, giardini lussureggianti e tanto benessere.
Gli abitanti della Little Mesa hanno iniziato una battaglia contro il resto della città quando un anonimo filantropo ha donato un lotto a Bolinas per crearvi un parco, non prima di aver abbattuto gli alberi che si inerpicano sul pendio e nascondono le case dell’altopiano. Una donna di origini italiane parlò della piccola foresta come di un necessario “cuscinetto” tra la sua casa della Little Mesa e il centro di Bolinas.
Bolinas è forse uno dei luoghi meno ospitali della contea (e probabilmente d’America). I suoi abitanti non vogliono visitatori di nessun tipo e per questo hanno divelto per decenni il cartello che indicava lo svincolo per raggiungere la cittadina dall’unica strada che taglia West Marin da nord a …


giornate aperte

settembre 23rd, 2008 by tdomf_9e53f | No Comments

Porte aperte al Goethe-Zentrum Bologna dal 25/09 al 26/09
25/09:
Quiz a premi (1° premio: Viaggio a Berlino) consulenza corsi concerto Jazz alle ore 21.
il 26/09: Film “One day in Europe” con sottotitoli in ital.
Oktoberfest alla Birreria del Pratello 24/A


I grandi dell’arte contemporanea: Mario Schifano (1934-1998)

settembre 17th, 2008 by Alessandra Denza | No Comments

I grandi dell’arte contemporanea: Mario Schifano (1934-1998)

Una retrospettiva per la figura di uno dei maggiori esponenti dell’arte italiana. Che dagli anni ‘60 non ha mai smesso di far parlare di sé. Dipinti, disegni, fotografie e filmati…
A Roma è in mostra, alla GNAM, uno dei più grandi artisti italiani dal secondo dopoguerra ad oggi: Mario Schifano. Nato ad Homs (la moderna Leptis Magna) nel 1934 quando la Libia era territorio italiano, Schifano ha esibito alla Biennale di Venezia, al Centre G. Pompidou di Parigi, al S. R. Guggenheim di New York. La mostra è una grande retrospettiva itinerante in onore dei 10 anni dalla sua scomparsa ed è curata da Achille Bonito Oliva in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano gestito dalla vedova Monica de Bei Schifano.

Schifano entra di diritto nella schiera dei grandi artisti dell’arte contemporanea per il suo contributo con i suoi celebri monocromi, le tele emulsionate della Pop art italiana e la multimedialità. Si è ispirato ai suoi colleghi contemporanei Rauschenberg, Kline, Jones e soprattutto Warhol (frequentato nel 1962 a NYC). Artisti conosciuti in occasione della mostra “The New Realists” alla Sidney Janis Gallery e frequentati ai tempi della sua collaborazione con la celebre gallerista Ileana Sonnabend (prima moglie di Leo Castelli).
Il percorso illustra i diversi lavori eseguiti dall’artista seguendo un filo cronologico, le opere degli anni ’50 quando comincia la sua espressione artistica per poi continuare con i lavori Pop (le scritte della Coca-Cola o della compagnia petrolifera Esso) fino alle fotografie che riproducono gli schermi di televisori di facile consumo. Spesso paesaggi e spesso scene erotiche. Una delle sue tecniche più riconosciute sono quelle delle tele emulsionate, ovvero l’uso di riprodurre delle sagome o silhouettes su una tela e poi intervenire con pittura acrilica aggiungendo nuovi elementi e scritte. È anche amante delle grandi dimensioni, tele da 2×3m su cui sviluppare scritte con i gessetti che danzano sopra la superficie pittorica negli anni ‘70 o tele che riprendono grandi campi di grano negli anni ’80 in cui torna il suo amore per la pittura vera e propria o i deserti della sua natia Libia negli anni ’90.
Schifano lavora per cicli tematici – i monocromi, gli incidenti, i paesaggi anemici della Biennale di Venezia nel ‘64 – fino a sconfinare nel linguaggio multimediale del cinema e della televisione. I soggetti più celebri sono la Coca-cola, le palme, il “Futurismo rivisitato” cioè la sagoma della celebre fotografia in cui sono immortalati Tommaso Marinetti con gli esponenti del Futurismo. Novità assoluta di questa mostra è la cartella realizzata con il poeta Frank O’Hara contenente diverse polaroid che immortalano istanti di vita che l’artista spesso trasferisce sulla tela.
La mostra termina con un montaggio antologico di Luca Ronchi dei film girati dall’artista.
Mario Schifano ha vissuto tutta la sua carriera a Roma dopo un periodo passato in America. E’ noto anche per la sua vita privata controversa, è stato contestato per l’uso di alcolici e droghe. E’ inserito tra gli artisti maledetti, pigro e trasgressivo. Trova la sua ‘serenità’ quando conosce la futura moglie presso un gallerista milanese a metà anni Ottanta.
Il suo lavoro esprime al massimo il suo vivere nella società contemporanea consumistica, il mondo esterno fa parte delle opere. I marchi più visti nella pubblicità come le scene della televisione. È un uomo moderno a tutti gli effetti. L’equazione artistica di Schifano si muove nel senso di quantità-qualità-quantità, non è una pittura calcolata, come per Warhol vale la produzione di massa di icone del nostro tempo. Trasferitosi a Roma nel dopoguerra comincia a dipingere. I suoi debutti sono tele ad alto spessore materico solcate da un’accorta gestualità. Abbandonata l’esperienza informale, dipinge quadri monocromi, grandi carte incollate su tela e ricoperte di un solo colore. Il dipinto diventa schermo in cui affioreranno cifre, lettere, frammenti segnici della civiltà consumistica. I monocromi degli anni ‘60 sono un’espressione per estendere la materia sulla superficie, come fosse spazio e tempo. La pittura acrilica da lui usata ha sempre compreso le cornici che delimitavano le tele, Schifano non si è mai fermato alla tradizionale superficie pittorica bidimensionale. La cornice entra a far parte dell’opera così come il mondo reale.
Mario Schifano. ROMA, GNAM
DATA /giovedì 12 giugno 2008/domenica 28 settembre 2008
CURATORE / Achille Bonito Oliva
CATALOGO / Electa ISDN 978883706230
Roma, Gnam dal 12 giugno al 28 settembre 2008
Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Accademia di Brera e Fondazione Stelline dal 17 ottobre 2008 al 1 febbraio 2009,
Saint-Etienne, Musée d’art moderne da febbraio ad aprile 2009.


Spritz, mare e World Bank

settembre 16th, 2008 by Guicciardo Sassoli de Bianchi | No Comments

La crisi del Doha round: i dazi paiono un ultimo grido di difesa per proteggere le economie di Paesi industrializzati. Per quanto possono durare ancora?
L’Europa è destinata a diventare esclusivamente un’economia di servizi?
La nuova politica della Banca Mondiale
Quali le cause della crisi economica negli Stati Uniti che ha portato alla crisi dei sub prime?
Quali cambiamenti nelle politiche economiche propone Obama? E quali McCain?
E soprattutto potrà il presidente al quale sarà accordata la fiducia del popolo americano attuare
le politiche proposte in campagna elettorale?
Chi tiene effettivamente le redini del potere negli Stati Uniti?
Debito pubblico in Italia, un problema risibile rispetto alla riforma del sistema giudiziario.

Montaggio video Carlo Bussi


Immigrazione in Europa

settembre 15th, 2008 by Redazione | No Comments

Immigrazione in Europa

Si segnala un’interessante tavola rotonda che si terrà il 24 settembre p.v. alle ore 18 presso l’Ispi di Milano sul tema “Immigrazione in Europa. risorsa o minaccia?”. Interverranno Beda Romano, autore di “Misto Europa. Immigrati e nuove società: un viaggio nel Vecchio Continente” (ed. Longanesi); Franco Bruni, Vice Presidente ISPI e Università Bocconi; Ferruccio De Bortoli, Direttore Il Sole 24 Ore; Tommaso Padoa-Schioppa, già Ministro dell’Economia e delle Finanze.


Il Paese dove le cose succedono per davvero

settembre 13th, 2008 by Emiliano Alessandri | No Comments

Il Paese dove le cose succedono per davvero

“Si fa presto a dire America”, scriveva Vittorio Zucconi qualche tempo fa, come a ricordarci che l’America, in realtà, è tante cose, molte delle quali, forse, solo nella nostra testa. “Si fa presto in America”, storpierei io quel famoso titolo per adattarlo meglio alla mia esperienza. Sono infatti dieci anni ormai che faccio spola tra le due sponde dell’Atlantico e non so trovare modo più immediato per descrivere ciò che ho visto sull’altra riva del Grande Lago che questo: l’America è il Paese dove le cose succedono per davvero.
Come “per davvero”? Perché nel resto del mondo si fa forse per finta? Certo che no, ovviamente. Quello che intendo è che, da europeo quale sono, il mio sbarco in America è stato solo l’inizio di una lunga avventura all’insegna del “succedere” e, visto che le cose non accadono casualmente, ma devono essere fatte, anche un’avventura all’insegna del “fare”. Sarà che l’“impero americano” per essere deve anche fare, se spera di perpetuarsi; sarà che il “Nuovo Mondo” è più un attitudine dello spirito che una strana nozione di geografia anagrafica (cioè fatta di giovane e vecchio, non di est e ovest), ma la sensazione prevalente di chi vive in America da non americano è che le cose siano finalmente come uno le ha sempre lette nei libri (che fossero fumetti o romanzi, poco importa), cioè vere, copiose, vive.
Le piogge sono torrenziali, gli edifici alti sono veramente alti, la polizia dà davvero la caccia ai ladri, e i ladri non sono ladri per finta ma per davvero, con tanto di pistola e mascherina (la seconda a volte no, ma la prima, ahimè, quasi sempre). I giovani, poi, sono giovani davvero, pieni di entusiasmo per le cose che fanno. Le tipe, infine (informazione confidenziale), “la danno” per davvero. E, per non apparire maschilista, devo dire che i tipi non sono da meno, straight or gay che essi siano. Insomma, non è un fatto banale di “facilità”, come si pensa di solito da noi. Ma, o così almeno amo pensare io, di naturale inclinazione all’“amplesso con la vita” e le sue molteplici forme, inclusa quella sessuale. Come mi illuminò un giorno il mio “compagno d’America” nonché pungente osservatore, Gregorio: “l’Impero ha da scopà;” vale a dire, ha da disseminare se stesso, se vuole riprodurre il suo modello.
Lasciamo un attimo da parte le piogge torrenziali e gli altissimi edifici – anche se sul rapporto tra la maestosità della natura americana e la grandezza dei suoi abitanti e delle sue istituzioni, da quelle politiche a quelle urbanistiche – si sono spesi nomi illustri e su tutti il mitico Theodore Roosevelt. Lasciamo anche da parte i ladri e i poliziotti, anche se sul giocare a guardia e ladri negli Stati Uniti sono state scritte tra le più belle pagine della letteratura americana con un penna quasi sempre intinta nel calamaio della sociologia. Ma quando si parla di giovani che si realizzano e di tipe “che la danno”, beh, qui si entra in acque sicuramente politiche e la “cultura dell’individuo” e niente meno che il concetto di “egemonia”sono due approdi possibili.

Il primo è in fondo il più sicuro per chi prova a spiegare, senza andare troppo per il sottile, l’operosità, anzi la capacità di azione degli Americani. L’America rimane il luogo sulla terra in cui per tradizione politica e religiosa, il culto dell’individuo è stato più permeante ed ha fatto più adepti. Dare pieno sfogo alle proprie capacità individuali, innate o acquisite, e “aggredire” la realtà circostante (compreso il tuo prossimo con pistola e mascherina) perché ne porti una chiara impronta, è anche una, se non la ideologia che ispira il “sogno americano” del “self-made man” e su cui si è costruito un nazionalismo del tutto particolare: comunitario ma profondamente individualista, patriottico ed al contempo universalista.
Ma se una ragione del fare e del succedere in America, quella originaria, è la cultura dell’individuo, l’altra e più pregnante, si diceva, è forse l’“egemonia”. Di egemonia si fa un gran parlare e di “egemonia americana” ancor di più. Egemonia, dice il vocabolario, è “capacità di guida”, non solo potere. Anche senza scomodare Gramsci e le sue riflessioni sul tema, è tuttavia possibile illuminare un altro aspetto del concetto di egemonia: l’“essere dentro alle cose”. Può sembrare una contraddizione, se non un paradosso, che chi guida sia dentro e non invece più avanti e o più in alto delle cose che guida. Ma la logica, per così dire, dell’egemonia è che gradualmente essa finisce per plasmare la realtà attorno – sociale, politica, ma anche fisica – a sua immagine e somiglianza. L’egemone, in altre parole, finisce per vivere nel mondo che vuole, vale a dire lo egemonizza. E questo, io credo, può aiutare a spiegare perché l’America è il posto dove “le cose succedono davvero” e dove si fa, prima e a volte in luogo del teorizzare o discutere. Gli Americani vivono in larga misura nel mondo che vogliono. Essi sono il mondo che vogliono. Essi sguazzano, si potrebbe dire, nell’acqua in cui nuotano. Perché, per quanto terrorizzati che qualcuno gli rubi il posto, la piscina l’hanno in definitiva disegnata loro in origine. Essi ne hanno stabilito le regole. Essi hanno dato loro il nome.
Quello di dare il nome alle cose non è un aspetto di poco conto. Perché se il fare e il parlare sono cose distinte, tra il nominare e il fare c’è invece un’intima relazione perché il nominare, come ci insegna la Bibbia, è parte del creare. E l’inglese, lingua ormai necessaria per chiunque voglia partecipare e non solo assistere al mondo in cui viviamo, è la prova più schiacciante dell’egemonia americana. Una lingua che del “fare” non è che la narrazione, il “discorso”. Dove il mondo diventa una cassa di risonanza di ciò che l’America è e dove ogni scostamento dal modo deciso nel Paese dove le cose succedono per davvero diventa una stonatura che va in qualche modo corretta.
E qui si arriva davvero all’ultimo punto che potremmo chiamare, con un po’ di enfasi, dello “sfacelo …


FESTIVAL DELLA CREATIVITA’

settembre 12th, 2008 by tdomf_9e53f | No Comments

Volevo segnalarvi un evento che mi sembre interessante.
Si tratta del festival della creatività che si terra a Firenze a fine ottobre.
Ecco tutti i link:
il sito è http://www.festivaldellacreativita.it/
il gruppo su Facebook (http://www.new.facebook.com/home.php?ref=logo#/group.php?gid=25793583383)
il gruppo su LinkedIn (http://www.linkedin.com/e/gis/73352/2ECB2A2CCADB)
l’account Myspace (www.myspace.com/festivaldellacreativita)
l’account di Twitter (http://www.twitter.com/FestCreativita)
l’account di Friendfeed (http://friendfeed.com/festivaldellacreativita)
Ciao a tutti.
Afec


I prezzi salgono, gli stipendi scendono. Ma non c’è alternativa.

settembre 11th, 2008 by Roberto Robatto | 5 Comments

I prezzi salgono, gli stipendi scendono. Ma non c’è alternativa.

L’aumento del prezzo delle materie prime, non solo il petrolio ma anche, tra le altre, grano, acciaio e rame, ha determinato l’effetto di una nuova spinta inflazionistica. I prezzi salgono in Europa di circa il 4%, mentre negli Stati Uniti si è già raggiunta una crescita del 5%. E nel frattempo si apre una questione salariale: la Banca Centrale Europea (BCE) chiede una politica di moderazione salariale nei paesi dell’area Euro1. E di conseguenza, in Italia, il Ministro dell’Economia ha fissato l’inflazione programmata all’1,7% scatenando già alcune proteste: la CGIL ha annunciato di non essere d’accordo con questa scelta per via del troppo potere d’acquisto che si toglierà ai lavoratori.

In autunno è quindi possibile che si aprirà una contesa che vedrà protagonisti Governo e parti sociali, e l’obiettivo del mio articolo è proprio quello di gettare un po’ di luce su questa possibile disputa. Prima di dire chi ha ragione e chi sbaglia, o chi ci perde e chi ci guadagna, è però necessario capire un po’ meglio cosa c’entra la BCE con l’inflazione e con il rinnovo dei contratti.
La BCE è responsabile della politica monetaria dell’area Euro (così come la Federal Reserve lo è per gli Stati Uniti, essendone la relativa Banca Centrale) e attraverso la variazione dei tassi di interesse può influenzarne l’attività economica. Un aumento dei tassi di interesse ha l’effetto, tramite una catena di trasmissione che passa per i tassi applicati dalle banche commerciali (come Unicredit o Intesa Sanpaolo, ad esempio) di diminuire la domanda di beni e servizi, con due effetti: porre un freno al PIL, da una parte, e all’inflazione, dall’altra.
Al contrario, se i tassi di interesse diminuiscono, si incentiva la domanda e quindi la crescita del PIL, ma con il rischio di un aumento dei prezzi.
Fino a poco tempo fa, la BCE è riuscita nell’obiettivo di mantenere un tasso di inflazione stabile e intorno al 2%. D’altronde, ciò corrisponde pienamente alla principale direttiva del suo statuto, ovvero il mantenimento di un basso livello di inflazione.
L’aumento dei prezzi delle materie prime, tuttavia, ha rappresentato quello che in letteratura economica è chiamato cost-push shock, ovvero uno shock economico che comporta un aumento generalizzato dei costi di produzione. A livello macroeconomico (cioè a livello aggregato), si osserva che un cost-push shock ha due effetti: da una parte l’aumento dei prezzi, e dall’altra la riduzione della produzione e di conseguenza anche dell’occupazione e del PIL, una combinazione di certo non incoraggiante2.
In questa situazione, la BCE sbaglierebbe se ottemperasse al suo mandato di mantenere bassa l’inflazione: se si concentrasse su un obiettivo di strict inflation targeting, ovvero mantenere l’inflazione non oltre il 2%, sarebbe costretta ad alzare di molto i tassi di interesse, contraendo in modo eccessivo la domanda e quindi il PIL e l’occupazione. La scelta è stata quindi quella di alzare i tassi, ma non troppo, con il risultato che i prezzi salgono di più rispetto agli ultimi anni (+4%) e il PIL soffre un po’, ma di meno rispetto ad una scenario con inflazione al 2%. La Federal Reserve statunitense, al contrario, ha valutato opportuno abbassare i tassi (gli USA hanno anche subito la crisi dei subprime e lo scoppio della bolla immobiliare), e oltreoceano l’inflazione ha infatti raggiunto il 5% ma il PIL respira più che in Europa.
Vediamo ora di capire quale è il ruolo degli stipendi, e di entrare nel meccanismo microeconomico che è responsabile di ciò che si osserva a livello aggregato. Senza troppo margine di errore, possiamo dire che i salari rappresentano la maggior parte dei costi di produzione di un sistema economico. Di conseguenza, un aumento dei salari comporta un aumento dei costi di produzione e di conseguenza le imprese, per non andare in perdita, devono alzare i prezzi.
La teoria economica considera i salari legati alla produttività del lavoro: un aumento di produttività si traduce in pratica (nel medio periodo) in un aumento dei salari, ma vale anche il viceversa: se la produttività diminuisce, i salari devono scendere3. L’aumento del costo delle materie prime può essere assimilato ad una riduzione di produttività: se infatti la produzione richiede di utilizzare delle materie prime, la produttività al netto dei costi pagati per queste materie prime sarà inferiore4.
Se i salari si aggiustassero immediatamente al nuovo livello di produttività, gli effetti di un cost-push shock sarebbero limitati: le imprese infatti si troverebbero di fronte ad un aumento del costo delle materie prime compensato però da una riduzione dei salari, e di conseguenza la banca centrale potrebbe riuscire molto più facilmente nel duplice obiettivo di non lasciare spazio all’inflazione e non far soffrire PIL e occupazione.
I salari, però si modificano a intervalli di tempo più o meno regolari (in Italia, molti contratti sono rinnovati ogni 2 anni) e quindi non si allineano immediatamente al nuovo livello di produttività. Le imprese, allora, devono aumentare i prezzi: l’aumento delle materie prime non è infatti compensato da alcuna riduzione dei salari, che sono rigidi5; inoltre i prezzi più alti riducono la quantità venduta e quindi spingono verso il basso anche PIL e occupazione6.
A questo punto, è evidente il motivo a fondamento della richiesta della BCE. Se gli stipendi aumenteranno solo del 2%, si avrà di fatto – cioè in termini reali – una riduzione del loro potere d’acquisto che li allineerà al loro nuovo livello di produttività: l’inflazione si sgonfierà (salvo altri rialzi del prezzo delle materie prime) fino a tornare ai livelli di qualche anno fa. Se invece gli stipendi aumenteranno maggiormente, questi aumenti si rifletteranno inevitabilmente sui prezzi praticati dalle imprese, creando quindi una spirale salari-inflazione molto pericolosa. E inoltre l’inflazione più alta vanificherebbe, dal punto di vista del potere d’acquisto, gli extra-aumenti salariali ottenuti dai sindacati.
Con il nuovo scenario economico – il petrolio ben oltre i 100 dollari al barile e l’aumento del prezzo di tante altre commodities – siamo tutti un po’ più poveri, in particolare chi vive solo del proprio stipendio. Reagire con eccessivi aumenti salariali sarebbe sia inutili sia dannoso; se si vuole fare redistribuzione, meglio agire attraverso i classici strumenti dei …



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