Entries from giugno 2008

Più energia pro capite, più pane

giugno 27th, 2008 by Guicciardo Sassoli de Bianchi | 7 Comments

Più energia pro capite, più pane

Una maratona nel deserto: un ingegnere nucleare si imbatte nel popolo dei Saharawi, senza terra, senza speranze, diviso in due parti da un muro di 3000 km che corre lungo il Sahara. Come migliorare la loro situazione? Ne nasce un progetto.
Correre nel deserto, la fatica che finge di non assalire, l’emozione di trovarsi soli in un mare di sabbia spinge la voglia di arrivare oltre. Carovane di beduini avvolgono i pensieri, immagini galoppanti di musulmani portatori della loro fede. Non c’è bisogno di sognare, un mondo da scoprire è alle porte del rush finale della maratona nel deserto. Non solo sabbia o beduini, ma un intero popolo, sommerso in quest’immenso angolo di deserto, lontano dalla propria terra d’origine. Sono i 250.000 Saharawi, profughi dal Marocco, che da oltre trent’anni vivono in una parte aridissima del deserto del Sahara, l’Hammada, nel sud della Repubblica dell’Algeria, al confine tra il Marocco e la Mauritania. I Saharawi rivendicano la loro patria, che ritengono essere stata invasa ed occupata dal Marocco; la loro popolazione è divisa in due parti: la fetta più grande, composta da un milione di persone, è stata inglobata in territori marocchini, l’altra parte arranca qui in Algeria. Le due parti sono divise da un muro invalicabile (in pieno Sahara!) alto dai 3 ai 5 metri, lungo migliaia di chilometri e protetto da mine e dall’esercito del Marocco.
Le condizioni di vita di chi vive nell’Hammada, nel lato algerino, sono caratterizzate dall’ indigenza e da una povertà tale che per la loro sopravvivenza sono intervenuti da tempo gli aiuti umanitari internazionali senza i quali non sarebbe possibile la vita. Tende, cibo, vestiario, e tutto ciò che serve alla sussistenza è trasportato a Tinndourf, nel sud dell’Algeria ed istradato nel deserto fino a raggiungere le 5 città tendopoli distribuite su
una superficie di circa 50 km2 nell’Hammada, dove vivono i 250.000 profughi.
Ogni anno verso la fine di febbraio viene organizzata da volontari una maratona internazionale (42 km di corsa) nel deserto dell’Hammada per attirare l’attenzione mondiale sul problema dei popolo Saharawi. Si resta sconvolti ancora una volta dal constatare come l’umanità sia a volte così cattiva, così ingiusta.

La situazione
La questione principale con cui ci si confronta più spesso è indubbiamente la bivalenza della situazione del popolo Saharawi presente nelle tendopoli : da una parte l’anelito a tornare nella loro patria, ad affrancarsi dall’Algeria ed a ricominciare la propria esistenza nei luoghi loro consoni per tradizione, nascita e umano diritto, dall’altra la permanenza ormai da trent’anni nelle tendopoli in una tristissima indigenza.
La visita all’ospedale è determinante per capire quanto siano critiche queste condizioni : la vita media di 39 anni per gli uomini e di 40 per le donne, l’altissima mortalità infantile, l’impossibilità di assicurare prestazioni mediche a causa delle pietose condizioni ospedaliere fanno si che questi profughi-residenti arrivino a servirsene di rado (persino del reparto di ginecologia) “preferendo” fare da sé nelle tendopoli dove le condizioni igieniche sono lo specchio della fatiscenza di un ospedale dove manca tutto.
Gli aiuti privati, internazionali e delle organizzazioni ufficiali preposte sono in azione, ma per quello si può vedere mantengono il popolo delle tendopoli a un livello di pura sopravvivenza, senza null’altro assicurare che la sussistenza giornaliera e un minimo spazio all’istruzione della moltitudine di bambini dei campi: studi che non danno alcuno sbocco futuro alle condizioni attuali.
Manca totalmente al popolo Saharawi una prospettiva di vita a medio-lungo termine e di conseguenza la possibilità di guardare al futuro con serenità. La speranza è completamente assorbita dall’idea di un ritorno nei territori della patria Saharawi; a questa idea viene sacrificata tutta la vita, segregata in prospettive a brevissimo termine e limitata dalle necessità e priorità precipue a questa finalità : la stoffa per le tende, la marmellata per oggi, il pezzo di ricambio per il camion.
È chiaro altresì che un popolo non può vivere a lungo dipendendo completamente da aiuti esterni in puro regime di sussistenza senza che si verifichino profondi mutaenti a livello culturale: la perdita della struttura sociale (la donna assume un ruolo molto forte in una società tradizionalmente patriarcale dove l’uomo perde il ruolo dominante non più legittimato dal lavoro), la perdita d’identità (l’abitudine a ricevere qualunque cosa da aiuti esterni e a relegare in definitiva il lavoro ad un ruolo subalterno o saltuario), il rifugiarsi in sogni dalla mancanza di prospettive, come quello del rientro in patria.
Tralasciamo ora la situazione politica, le giuste rivendicazioni di rientro e di possesso della patria Saharawi, oltre alla temporaneità della permanenza in territorio algerino; consideriamo semplicemente le persone che vivono nelle tendopoli: come e’ possibile e in quale forma dare loro la possibilità di programmare la vita a medio termine e/o migliorare realmente le condizioni di vita?

La distribuzione di energia nel mondo
Negli anni passati – e in parte anche in quelli attuali – la filosofia dei Paesi in espansione di economia avanzata si è basata su un’equazione molto semplice : uno Stato che vuole progredire deve avere a disposizione una quantità di energia pro capite molto alta (ed a costi possibilmente molto bassi). La tabella seguente mostra alcune differenze notevoli tra alcuni Paesi. In Africa per esempio, la percentuale di consumo di energia pro capite è rimasta nel corso degli anni Novanta pari a meno di un decimo di quella degli Stati Uniti.
Classifica dei Paesi secondo l’energia pro capite 2001 (kg. equivalenti di petrolio)
Stati Uniti – 8.076 Uraguay – 883 Egitto – 656
Italia – 2.839 Tunisia – 738 Ecuador – 713
Germania-Francia – 4.231 Colombia – 761 Camerun – 413
Per migliorare le condizioni di vita di un popolo nel medio termine è necessario passare ad un incremento di …


Alla ricerca dello Spirito delle Leggi

giugno 24th, 2008 by Edoardo Garibaldi | No Comments

Alla ricerca dello Spirito delle Leggi

Viviamo in Italia, il Paese del sole, il Paese che, forse, sarebbe stata la colonia estiva del terzo Reich, il Paese con oltre il 60% dei beni culturali del globo ed il settore turistico che non riesce a decollare, il Paese di 50 governi per 50 anni di Repubblica pena una totale immobilità sulle questioni fondamentali, instabilità governativa che ha negato ogni tipo di azione politica e legislativa volta a risolvere crisi che inevitabilmente una società aperta deve affrontare.
Non occorre essere un cattedratico di Diritto con velleità filosofiche per rendersi conto che la stessa contingenza ha negato all’apparato legislativo il potere/dovere di porre il diritto in modo tale da far riconoscere, a coloro che si impegnano a rispettarlo, la sua positività. Le norme erano e sono poste, ma non sono chiare; norme poste, ma infelici; atti divenuti legge a modifica della normativa precedentemente modificata da una legge che modificava la precedente normativa, già sostituita – che dirlo a fare – da un precedente atto (ma non in toto). Emendamenti bis, ter, quater. Indro Montanelli rispondendo alla domanda se gli Italiani fossero o meno coraggiosi rispose leggendo un articolo del nostro codice con i relativi rinvii, dopo quasi tre minuti di lettura disse:” Gli Italiani per me sono cretini, mi dica lei- al giornalista – dopo che le ho letto tutto questo, come altro si potrebbe definirli”. V’è da dire però che se si va al Ministero delle Finanze si trovano tanti studenti delle Grandes Ecoles francesi, impeccabili, con occhi spalancati e orecchie dritte tentando di essere toccati dal dono, tutto italiano, della creatività normativa; le nostre riforme vengono prese e riportate pedissequamente negli ordinamenti stranieri producendo effetti sorprendenti (positivi). In Italia però non si fa in tempo a renderle operative che cade il cinquantunesimo governo, e il cinquantaduesimo deve iniziare daccapo alla mercé di giuochi di coalizione.
Negli anni Sessanta, dice mio Padre, la mattina ti levavi, non sapendo cosa di nuovo un Italiano geniale avesse portato a registrare all’ufficio brevetti, o addirittura quale prodotto inaspettato fosse stato piazzato sul mercato. Inventammo la plastica, il primo calcolatore (esposto al MOMA di New York), siamo stati il terzo paese dopo USA e URSS ad aver lanciato e mantenuto nell’orbita terrestre un satellite. Si potrebbe continuare, ma a che pro. A pro di chi. Una postuma ubriacatura di remote glorie è l’ultima cosa che, a mio modo di vedere, possa risolvere le questioni che impellenti si presentano al cospetto del popolo sovrano; ma la consapevolezza di capacità non ancore sopite è necessaria al ripristino di un ordine giuridico-politico funzionale ed insieme necessario (lungi dall’essere sufficiente), al progresso del Paese

In queste ore imperversano parole ed atteggiamenti a noi non estranei, se si pensa al clima che ha caratterizzato la stagione della “seconda Republlica”, quegli spiragli di democratico dialogo apertisi dopo le elezioni politiche del 2008 sembrano essere ormai chiusi. Galeotta è stata l’approvazione della norma sospendi processi da parte del Senato con relativo abbandono dell’aula da parte del PD – sponda interlocutoria fondamentale per rendere efficace una meccanica parlamentare bipartitica -, mentre i voti contrari sono stati dei Radicali e dell’Italia dei Valori. Il leader del PD non paventa ostruzionismi generalizzati, continua a rimarcare la necessità di un dialogo fra Governo e opposizione, ma annuncia dura lotta alla Camera contro quella norma che prevede la sospensione dei giudizi, anche in corso di dibattimento o a dibattimento ultimato, che siano stati istruiti per reati compiuti prima del marzo 2002 e non comminatori di pene superiori ai dieci anni.
Il Guardasigilli Alfano, in una intervista rilasciata al quotidiano la “Repubblica” dice che tale norma è stata ispirata proprio da provvedimenti presi da taluni vertici degli uffici giudiziari, soluzione precedentemente sperimentata che ha avuto effetti positivi di decongestione. L’ANM dice tutt’altro, prevedono un collasso del sistema dovuto all’impegno – come noto lacrime e sangue – di cancellerie e PM di notifica di sospensione del processo a imputati e controparte. Il vice presidente del CSM parla di norma contraria all’articolo 111 della Costituzione italiana, quella che sancisce l’equa durata del processo oltre ai canoni processuali.
La novità è che non è ancora stata pronunciata la parola regime, ma “Repubblica” titola. “Il senato vara il salva-premier”, di qui a risentirla ci vuole poco. La norma sospendi-processi è stata inserita nel pacchetto sicurezza all’ultimo, sembra incredibile la coincidenza cronologica tra mancata accettazione della ricusa del Giudice Gandus (processo Mills-Berlusconi), della lettera al Presidente del Senato Schifani e la radiazione del giudice di Gela che, reo di non aver presentato il rinvio a giudizio entro i termini della prescrizione per la cosca mafiosa più “in” della piana, li ha fatti scarcerare. Come dire: a segnale corrisponde segnale. Nella lettera infatti si parla di magistratura rossa e palese politicizzazione della Procura di Milano, ed è lì che si ripensa agli spettri ed ai toni e termini della campagna elettorale del 2001, al movimento Girotondista, ad una opposizione che – muovendosi in un frame pluripartitico polarizzato – tendeva al rialzo dell’offerta che ha portato sì le sinistre a condensare il 13% dei consensi alle politiche del 2006, ma anche al’immobilismo sulle questioni fondamentali del governo Prodi (disbrigo affari correnti), e alla mancata rappresentanza alle ultime consultazioni. Le Cronache ricordano, a riguardo del processo che vede imputato il Premier, un rinvio a giudizio prima delle elezioni perse da quest’ultimo contro il Prof., due anni fa.
Viviamo in Italia, una Repubblica Parlamentare e democratica: un ordinamento che ha fatto proprio il principio della separazione dei poteri, l’unico sistema che effettivamente abbia tenuto lontano angherie dovute al censo, che ha reso possibile lo stato di diritto e tutto quello che ne deriva, progresso economico-sociale, possibilità di attuare meccanismi di redistribuzione … va da sé, o meglio dalla definizione di Nazione, che l’Italia per esistere oltre a dei confini stabili deve avere una popolazione che viva all’interno di questi confini. La popolazione, la base, il démos, o come la si voglia chiamare, è chiamata a partecipare alla vita della Nazione. Ognuno deve contribuire al progresso …


I colori di Milano

giugno 23rd, 2008 by Andrea Stringhetti | 4 Comments

“Mi fermo, poi riparto, poi mi fermo ancora e osservo la strada che si colora,
c’è un faccia in vetrina, mi guarda e va via…
chi è lo straniero a casa mia?…casa mia…” da Hollywood, Negrita
Chi vive a Milano sa quanto sia facile incappare nel malfunzionamento dei mezzi pubblici. Traffico, ritardi, salto delle corse: tutto all’ordine del giorno. Ma il malanno più gettonato dall’ATM – la società dei trasporti – è il famigerato “guasto tecnico” nelle stazioni della metropolitana, che può bloccare la circolazione per ore. Proprio in questo disastro mi sono venuto a trovare intorno alle 13.30 di un giorno qualsiasi di giugno. Esco dall’ufficio e mi avvio alla metropolitana per affrontare le tredici fermate che mi separano da casa, ma quando scendo nel mezzanino scopro che la linea 1 è chiusa su tutta la tratta che attraversa il centro (da Pasteur a Pagano, per chi se ne intende). È esattamente la strada che dovrei fare io, che abito dall’altra parte della città rispetto a dove mi trovo; ho fame e devo studiare per l’esame del giorno dopo. Nonostante tutto sono di un umore formidabile e non riesco ad arrabbiarmi per il disguido: salgo in superficie e vado a prendere l’autobus, la 91. Urge qui una spiegazione per chi pensa che la 91 (e la 90, che fa lo stesso giro nel senso opposto) sia un mezzo come un altro: la 90/91 è la filovia che fa tutto il giro della circonvallazione e in breve può essere definito l’autobus degli stranieri. Sarà perché facendo il giro di Milano passa un po’ dovunque, o perché la circonvallazione è il luogo dove maggiormente si concentrano le zone abitate dagli immigrati, ma ormai i Milanesi sono convinti che la 90 sia un brutto posto. Io ho usato questo mezzo per anni su alcune brevi tratte e non posso dire che sia rassicurante, ma a volte non ci sono alternative: decido quindi che se voglio arrivare a casa entro sera quella è l’unica strada, così il mio viaggio diventa un’occasione per osservare e riflettere.

Mi apposto in fondo, dove si concentra “la crème”: è gente di ogni etnia, ma il colore della loro pelle mi può aiutare a distinguere la loro provenienza. Si va dalla carnagione chiara degli Europei dell’est a quella mediterranea, tipica dei Turchi e degli Arabi, dal colore sempre più intenso di Afghani, Pakistani e gente dell’Asia centrale, fino allo carnagione scurissima degli Africani. In questo quadro spiccano i lineamenti particolari di chi proviene dai Paesi dell’Indocina. C’è proprio gente da tutto il mondo (orientale) e mi sento in colpa quando mi accorgo di viaggiare con il computer ben stretto tra i piedi e le mani sempre vicine alle tasche dei pantaloni. Le situazioni che si verificano sono al tempo stesso delle più normali e delle più strane, ma noto sempre un criterio alla base: l’instabilità di una vita sospesa.
Un ragazzo è seduto e dorme, ha tirato su il cappuccio della felpa e non si vede nemmeno da uno spiraglio il colore della sua pelle; i suoi vestiti sono sporchi e sgualciti come se li avesse da giorni e sembra che da altrettanti giorni non dorma. Dietro di lui è seduto un altro ragazzo di età indefinibile che potrebbe essere laotiano o vietnamita. È vestito in stile vagamente hiphop e le cicatrici sulla sua faccia non sono promettenti. Parla al telefono ad alta voce e non capisco nemmeno un suono di quello che sento. Che strano, quando sono all’estero non mi va di farmi sentire troppo a parlare italiano. Accanto a me c’è invece un arabo con la barba tipica del musulmano. Anche lui telefona, ma parla a voce talmente bassa che posso sentirlo solo io; risponde a monosillabi, ma mi colpisce l’unica frase intera che dice: “Sto andando in moschea”. Non starà parlando così piano – mi chiedo – per paura che qualcuno lo senta? E vorrei dirgli quanto sono contento di sentire qualcuno che alle 2 del pomeriggio si ricorda di andare a pregare. Alla fermata della Stazione Centrale salgono tre uomini che etichetto come Turchi, che rimangono in piedi e pranzano con i panini appena comprati da McDonald’s. Che strana la globalizzazione, a me piace così tanto il kebab e loro mangiano hamburger americani. Un altro Arabo nel frattempo è salito e telefona a voce talmente alta che tutti sull’autobus hanno capito che non vuole cambiare operatore. Il suo italiano è disastroso, ma si capisce che ha difficoltà a venire fuori da questo problema di contratti telefonici. Il ragazzo che dormiva all’improvviso si alza e solo dopo che è sceso mi accorgo che è nero e che indossa la felpa azzurra dell’Italia. Che strano il patriottismo, io non indosserei mai una felpa del genere. Osservo fuori e constato che la situazione non è tanto diversa: i negozi lungo la strada sono principalmente gestiti e frequentati da stranieri, kebab e pizzerie, Internet point, minimarket e via di seguito.
Il mio viaggio sulla 90, iniziato in piazzale Loreto, si conclude al capolinea in piazzale Lotto, dopo aver attraversato mezza città, e da qui proseguo su un altro autobus che in una decina di minuti mi porterà fino a casa. Gli stranieri che sono stati miei compagni di viaggio fino al capolinea si sono dispersi all’apertura delle porte, come svaniti, inghiottiti da una città che non li vede e per la quale probabilmente non significano nulla. Nessuno si è infiltrato nelle mie tasche, tutto è ancora al suo posto. È un sollievo scendere, perché mi libero dall’aria pesante che si respira sulla filovia, dallo sporco che c’è sul pavimento, dalla ressa e dal rumore della gente che parla a voce troppo alta. Eppure vorrei restare su e continuare a osservare, perché so che l’ultimo pezzo di viaggio che inizia ora sarà di gran lunga meno interessante (gli unici stranieri che incontrerò saranno poche filippine che lavorano nei ricchi appartamenti intorno allo stadio). È la prima volta dopo anni che sono grato all’ATM per un guasto in metropolitana, senza il quale non avrei potuto …


Pomeriggi Shakespeariani a Villa Pamphilj

giugno 21st, 2008 by Lorenzo Kihlgren | No Comments

Il 25, 26 e 27 giugno, alle ore 18.30, all’interno e all’esterno di Villino Corsini di Villa Pamphilj, verranno letti brani dei cinque testi teatrali di Shakespeare ambientati a Roma: Tito Andronico (1592), Giulio Cesare (1599/1600), Antonio e Cleopatra (1606/1607), Coriolano (1607/1608), Cimbelino (1609/1610).
Questa interessante iniziativa viene organizzata nell’ambito della mostra Shakespeare in Rome (12 giugno-28 settembre 2008), ospitata nella Casa dei Teatri a Villa Pamphilj. Si segnala in particolare la ricca rassegna video ed audio.


Protezione Civile: workshop a Ginevra

giugno 19th, 2008 by tdomf_9e53f | No Comments

Vi segnalo che a Ginevra, il prossimo 25 giugno, avrà luogo il workshop “The role of modern civil protection systems and the new global challenges – From the hyogo framework for action to real time response”
Questo evento, organizzato dalla Protezione Civile italiana, avrà lo scopo di mettere a confronto quest’ultima con le organizzazioni internazionali ma soprattutto aiuterà entrambe le parti a capire e a mettere in atto le modalità di cooperazione più efficienti.
A presto per outcomes ed interviste dei protagonisti.


La “piccola” quadratura del cerchio

giugno 17th, 2008 by Sergio Panzarella | 6 Comments

La

L’incompatibilità tra monoteismi e democrazia non è sancita dalla legge, a differenza di quella prevista tra alcune cariche “economiche” e pubblici uffici, ma quello è un altro discorso.
La premessa non intacca l’evidenza di una difficile coesistenza (da leggersi: incompatibilità) tra quella che viene considerata ed indicata come una delle radici della cultura europea e forse la principale catena (nella sua declinazione cattolica) di quella italiana, e cioè il monotesimo, cristianesimo nella nostra esperienza, e la democrazia.
Il rapporto è da sempre evidentemente problematico e la constatazione è di carattere primariamente storico e più concretamente sociale e comportamentale.
Partiamo con una testimonianza storica.
“Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Spinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità …. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge …. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti [circa due metri], e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”.
Il testo è, evidentemente, quello relativo ad una scomunica rabbinica, una delle tante, comminate dalle più alte cariche di confessioni monoteistiche, tra le quali anche il Papa a pensatori e filosofi: Spinoza per esempio, che parlava di libertà di coscienza, non riportato per la forma grottesca e oscurantista, ma per la sua esemplarità a sostegno della tesi.
Concentrandosi sul Cristianesimo, questa si aggiunge alle numerose scomuniche papali come già accennato, tra le più famose quella ai comunisti del 1949, mai revocata, e quella recente per l’aborto.
Ancora storia, il cristianesimo introdusse il principio dell’uguaglianza e del libero arbitrio, tuttavia alcune Chiese cristiane esercitarono una sorta di dittatura sulle coscienze dei loro adepti, concedendosi inoltre “il beneficio” di espellere, scomunicare, processare presso i tribunali di inquisizione organici ed in alcuni casi condannare al rogo gli indisciplinati, provvedimenti strutturalmente contrari alla rivoluzionaria introduzione. La stessa libertà di pensiero fu conquistata con dure lotte contro vescovi ed esponenti di tutte le confessioni, quasi ossessionati dalla volontà di “dominare” e controllare coscienze e moralità.
Insomma ci sono elementi sufficienti, considerando anche gli innumerevoli non riportati, per sdoganare la tesi e darle un giusto e significativo background. Per di più, in concreto, si ravvisa una sostanziale interferenza fra la pratica democratica: dialogo, confronto, scontro; e l’antidemocraticità propria di chi si pone all’interno del “meccanismo-tessuto” democratico partendo dal presupposto-consapevolezza che la sua non sia una semplice opinione o un’opinione tra le altre, ma la verità. Non a caso proprio la parola verità, ricorre “solo” 25 volte nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo contemporaneo – Gaudium et Spes, a cui si accennerà in seguito.

L’evoluzione naturale del discorso conduce, come ovvio, in Italia. D’altronde tutte le strade non a caso portano a Roma, dove il tutto è avvalorato, da alcune manifestazioni del “Sistema Chiesa”, attualmente non proprio democratiche: meccanismo di spostamento dei preti pedofili e complicità di altre cariche, tra le quali l’attuale pontefice, al fine di evitare scandali1; assegnazione “di diritto” dei fondi dell’8 per mille derivanti dalle preferenze non espresse (violazione giornaliera del principio democratico fondamentale che sancisce uguaglianza delle confessioni religiose davanti allo Stato); rigogliosa attività censoria, ecc., ma anche questo è un altro – seppur significativo – discorso.
Per argomentare: il “problema” del Cattolicesimo è quello di non essere costitutivamente portato a mettersi in discussione, a rappresentare una minoranza, un’opinione tra le opinioni, a diventare un attore tra gli altri nella dinamica democratica. Proprio in questa impossibilità strutturale risiede l’incompatibilità con la democrazia.
Per fugare tutti i dubbi e schivare critiche ovvie e ripetitive, nessun bavaglio alla Chiesa, in quanto essa fa parte della società e deve partecipare al dibattito democratico come tutti gli altri, dovrebbe “semplicemente” farlo con lo stesso approccio e la stessa “intensità” di tutti gli altri attori. Ma data la contingenza, direi che è al momento impossibile.
Un altro aspetto basilare in un contesto democratico è l’apertura, ben predicata agli altri nella stessa Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo contemporaneo – Gaudium et Spes, che al paragrafo 23 riporta: “Quanto agli atei essa (la Chiesa), li invita a voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo, con animo aperto”.
Questo atteggiamento di palese apertura, accoratamente caldeggiato dalla Chiesa, non sembra nei fatti assunto dalla stessa – da sempre, ed oggi più che mai con il pontificato di Papa Benedetto XVI, arroccata su posizioni marcatamente reazionarie e tutt’altro che aperte. Al di là dei luoghi comuni, si predica bene e contemporaneamente si razzola male. Persino il dialogo interreligioso è stato messo da parte dalla “Nuova” Chiesa.
Posizioni marcatamente reazionarie che hanno a che fare con questioni etiche, quali la ricerca scientifica sulle staminali, sulla fecondazione assistita ed eterologa; le unioni di fatto e i DICO, la recente e anacronistica ri-polemica sull’aborto!!! (I tre punti esclamativi, si sono spontaneamente auto-inseriti!!!)
Per di più posizioni marcatamente reazionarie, che hanno un’influenza enorme in Italia.
Senza grosse elucubrazioni un’enorme influenza deve necessariamente derivare da un enorme potere. A tal proposito, proprio di recente è stato pubblicato da Feltrinelli La questua di Curzio Maltese, che si interroga su quanto costa effettivamente la Chiesa agli italiani, in termini economici. L’indagine che sta alla base del libro, come riporta l’autore, è stata di difficile realizzazione, per l’assenza di documenti e il sostanziale disinteresse giornalistico in merito. Non ci sono inchieste sul Vaticano e se scoppia uno scandalo, come la pedofilia, si devono comprare i documentari dalla BBC. L’inchiesta ha portato ad un risultato, forse ipotizzabile, ma comunque …


L’uomo che pagava le tasse ed era felice

giugno 17th, 2008 by tdomf_9e53f | No Comments

http://www.corriere.it/editoriali/08_giugno_17/pagava_le_tasse_ed_era_felice_9dd56b18-3c34-11dd-bc39-00144f02aabc.shtml
Un articolo leggero, ma secondo me interessante, apparso sul Corriere.it a proposito di qualcuno che, per una volta, paga le tasse ed é felice di farlo. L’Italia non é solo fatta di gente che cerca disperatamente di pagarne il meno possibile. Un spiraglio di luce e coscienza che lo stato, alla fin fine, siamo noi e non un’entità estranea?


Una serata alla Scala

giugno 17th, 2008 by Margherita Sacerdoti | 6 Comments

Ieri sera mi trovavo al teatro Alla Scala di Milano per un concerto per pianoforte suonato dal celeberrimo pianista nonché direttore d’orchestra Daniel Baremboim. Mi trovavo li perché amo la musica classica e perché per tutta la vita sono stata spinta da una madre melomane ad avvicinarmi a quest’arte. Ammetto che di mia iniziativa probabilmente non andrei cosi spesso a opere, concerti e balletti, ma mi lascio trascinare volentieri da chi ha una passione per la musica. Prima di ogni opera mi sono sempre preparata all’ascolto, leggendo la trama di ogni atto e ascoltando alcuni brani musicali. La musica mi è familiare perché l’ho studiata fin da piccola suonando il pianoforte e apprezzo il balletto perché ho studiato danza classica per quindici anni. Spesso mi sono rifiutata di andare a concerti di cui non mi importava molto e al contrario ho spesso inseguito anche in teatri di paesi stranieri, direttori d’orchestra di cui conoscevo lo stile e il talento o compositori che amavo particolarmente. Non mi sono mai considerata un’appassionata di musica classica, ma ho sempre avuto piacere di ascoltare ed imparare a capire e apprezzare la musica.
Ieri sera, come tante altre sere alla Scala, mi sono vergognata del pubblico italiano. Innanzitutto tra una pausa e l’altra del pianista ecco un coro di rumori di gola che si leva dal pubblico con grande enfasi. Apparentemente in salute, altrimenti avrebbero fatto meglio a stare a letto con gli antibiotici, gli spettatori si sono esibiti, come di consueto, in una gara di tosse e piccoli gargarismi disgustosi, tutti allo stesso tempo. In secondo luogo ecco un episodio alquanto scioccante di cui nessuno ha protestato: uno spettatore, seduto dietro di me, alzandosi in piedi in platea ha scattato una fotografia di Baremboim durante l’esecuzione del brano con un apparecchio fotografico di vecchia generazione che non nascondeva il rumore del rullino all’interno. Per concludere, al termine del concerto, il pubblico si è alzato in una standing ovation. Il pianista in questione è molto bravo, certo, ma l’esecuzione, secondo il mio modesto parere e quello di chi conosce la musica classica, il brano in particolare e il pianista assai meglio di me, non era certo da standing ovation. Ho il sospetto che il pubblico, non capendo molto di musica, si sia alzato entusiasta più per la celebrità del pianista che suonava davanti a loro che per la qualità dell’esecuzione musicale. Infine, come sempre accade alla Scala, quando cominciano gli applausi (spesso prima della fine dell’esecuzione) c’è chi si alza e comincia ad andarsene dal teatro, facendo tra l’altro alzare tutta la propria fila della platea , per correre a prendere il primo taxi in piazza della Scala mentre i musicisti cominciano gli inchini.

La Scala ha una tradizione e un nome che spesso vengono considerati più importante di quel che avviene all’interno. I Milanesi sono capaci di soffrire per ore ascoltando un’opera di Wagner, pesantissima e noiosa per chi non è appassionato di questo genere musicale, pur si farsi vedere alla Scala. Ho ammirazione per questi individui perché personalmente non mi sforzerei mai di star seduta tutta una sera a dormire scomodamente su un seggiolino di velluto rosso aspettando con ansia l’intervallo per far due chiacchiere, farsi vedere e vedere chi c’è. Nei teatri nel resto del mondo dove ho avuto la fortuna di andare appositamente in occasione di festival musicali come a Salisburgo, Bayreuth, Lucerna, gli spettatori presenti sono quasi tutti li per amore della musica. Coloro i quali riescono a trovar ei biglietti e compaiono per ragioni sociali soltanto, hanno almeno il buon gusto di non fare rumore, di non scattare fotografie e di copiare il comportamento chi di musica ne capisce quando si tratta di applaudire, alzarsi o andaresene.


Festa della Musica

giugno 16th, 2008 by tdomf_9e53f | No Comments

Festa della Musica

festa della musica il 21.06.2008
L’Alliance Française e l’Istituto di Cultura Germanica presentano la festa della musica in sede Via De’Marchi 4, Bologna.
Programma
ore 18.30: Cori diretti dal maestro Marco CAVAZZA
ore 19.00: Elettra BALLERINI (viola)
ore 19.30: Alex NKUIN (percussion / voce) / Michele CORCELLA (chitarra) – Musica Africana
ore 19.45: Alunni di Mari FUJINO (pianoforte)ed Emilia GAVARUZZI (viola)
ore 20.15: GRIMOON – Chanson e video
ore 21.15: SAUCE BOLOGNAISE – Chanson Française
ore 21.45: CAMOUFLAGE – Chanson Française: da Edith Piaf a Yann Tiersen
ore 22.15: Bologne Accueil + CAMOUFLAGE
ore 22.30: PETS – Alternative Rock


Collezionismo e memoria in un film di Olivier Assayas

giugno 9th, 2008 by Giovanni Biglino | No Comments

Collezionismo e memoria in un film di Olivier Assayas

In apertura vediamo una coppia di Labrador e tanti bambini che corrono nel parco di una grande casa di campagna (tipicamente francese). Una famiglia riunita per il settantacinquesimo compleanno della matriarca, Hélène, una signora secca ed elegante. I suoi figli si ritrovano, in un clima rilassato e confortevole: Frédéric, professore di economia a Parigi alle prese con la promozione del suo libro, Adrienne, designer tra New York e Tokyo, e Jérémie, responsabile di produrre “les baskets Puma” in Cina. E con loro ci sono mogli e figli e il ricordo dello zio di Hélène, Paul Berthier, pittore celebre dal quale Hélène ha ereditato una collezione importante. Nel clima della festa si insinua una vena di malinconia: prendendo da parte Frédéric con un pretesto, la madre tocca il tema spinoso della sua eredità (e di conseguenza della sua morte, cosí improbabile nel giorno della festa). Elencando i mobili e i quadri piú importanti (tutto schedato e ordinato nei cassetti del tavolo Louis Majorelle) compare per immagini la storia di una vita (quella di Hélène e di riflesso dello zio Paul). Arriva il momento della partenza e vediamo (in una bellissima inquadratura) Hélène da sola seduta nel suo studio in penombra che confida alla storica governante: “Avevano la testa altrove, pensavano già alla loro partenza”.

La morte di Hélène è il catalizzatore di una serie di eventi. La casa venduta, il disaccordo improvviso tra i fratelli: pur comprendendo i problemi reciproci, Frédéric non riesce a capacitarsi del fatto che i due fratelli vogliano vendere la casa di famiglia e la collezione d’arte dello zio Paul. Frasi dette a metà, le decisioni prese con poca convinzione – Jérémie alza la voce nello studio del notaio. Compaiono cosí fantasmi di una vita che loro tre non hanno vissuto: Hélène fu davvero amante dello zio? Frédéric non riesce a farsene una ragione, mentre Adrienne quasi intrigata sorride nel constatare quanto il fratello venerasse la madre (“maman intouchable”).
La casa si svuota, i quadri vengono imballati, i carnets dello zio Paul con i loro preziosi appunti ad acquerello prendono il volo per New York dove verranno venduti pagina per pagina da Christie’s. Non resta tempo per il rimpianto: il tavolo di Majorelle è esposto all’Orsay, i vasi disposti nelle vetrine del museo.
Ma non tutto è perduto. Prima di chiuder casa definitivamente, i nipoti di Hélène organizzano una festa: le stanze vuote si riempiono di musica e di giovani, la casa-museo vive un ultimo momento di splendore. La nipote Sylvie in particolare porta il fidanzato nei campi attorno alla casa e con naturalezza racconta della nonna, della casa, dei quadri e soprattutto dei ricordi legati a quei quadri. Unico rimpianto: i suoi figli non conosceranno niente di tutto ciò. “Tu pleures?”. Il fidanzato le poggia una mano sulla spalla in un’inquadratura dolcissima presa in prestito da Rohmer – la luce calda – e si mettono a correre verso la casa.
Olivier Assayas scrive una sceneggiatura interessante, delineando caratteri complessi. Ad interpretarli troviamo un cast scelto con attenzione. Frédéric ha il volto di Charles Berling, un “habitué” dei film di Assayas (“Les Destinées sentimentales“, “Demonlover”), e nei panni di uno dei suoi figli recita suo figlio, Emile Berling. Adrienne è invece Juliette Binoche, ancora bionda da “Le voyage du ballon rouge” e un po’ maldestra – nei gesti vagamente impacciati e anche nella tematica dei rapporti familiari e delle relazioni con gli oggetti e i segreti che essi racchiudono ci ricorda Valeria Bruni Tedeschi nel suo “Il est plus facile pour un chameau” – mentre il suo fidanzato è interpretato da Kyle Eastwood (musicista, figlio di Clint). Jérémie è reso bene da Jérémie Renier nel suo ruolo di bambino di casa (il terzo dei tre fratelli che sente la pressione di dimostrare che, sí, è diventato adulto). Infine nel ruolo di Hélène, signorile nella sua semplicità, troviamo Edith Scob, già indimenticabile nel suo cammeo ne “Le temps retrouvé” del maestro cileno Raoul Ruiz in cui interpretava Oriane de Guermantes.

Ma ci sono altri personaggi nel film: gli oggetti, i mobili, i quadri. Prendono quasi vita, nelle parole dei personaggi e nelle lunghe inquadrature. Il tavolo e la vetrina di Louis Majorelle, il mobile di Josef Hoffmann, i vasi di Antonin Daum, l’argenteria danese di Georg Jensen, due tele di Corot, i pannelli decorativi di Odilon Redon (“bisogna assolutamente restaurarli”, dice Hélène, apprensiva per la sua collezione), una maquette di Degas che i bambini ruppero quando erano piccoli (“quella fu una catastrofe” ricorda Frédéric), senza contare tutti i disegni dello zio Paul, racchiusi in preziosi quaderni gelosamente custoditi da Hélène.
I ricordi come sempre affiorano attraverso i cimeli di famiglia che, oggettivamente preziosi, diventano inestimabili. “L’heure d’été” è un film piacevolissimo proprio in questi anni in cui leggiamo continuamente di prezzi folli nelle aste internazionali e se da un lato grandi collezioni private vengono smembrate (avendo citato Valeria Bruni Tedeschi, ricordiamo ad esempio l’importante vendita della raccolta di suo padre, il compositore Alberto Bruni Tedeschi, messa all’asta per beneficenza da Sotheby’s nel marzo 2007 a Londra) abbiamo l’impressione che ci sia anche una nuova generazione di compratori che manca della delicatezza di spirito (non vogliamo insinuare della cultura) che permette ad un personaggio come quello di Hélène di vivere per i suoi quadri e i suoi mobili. Come ricorda la figlia Adrienne, Hélène era in grado di “entrare nelle pitture di Paul”. Se alcune persone che affollano le gallerie di Londra o New York ci presentano tutto intero (e un po’ fastidioso) l’aspetto “modaiolo” dell’arte, il film di Olivier Assayas ci fa ritrovare il piacere delle pareti di casa, delle storie legate ai nostri oggetti e ai nostri ricordi d’infanzia.
La casa di Hélène, i quadri, i vasi, tutto è investito di quel senso magico che ritroviamo nelle pagine dei libri: possiamo pensare alle pagine dedicate ai saloni di Plessis-lez-Vaudreuil da Jean d’Ormesson in “Au plaisir de Dieu”, a Simone de Beavoir che rievoca il parco di Meyrignac nelle sue “Mémoires d’une jeune fille rangée”, e ciascuno può citare il suo romanzo preferito.
Il segreto di …



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